Nel dicembre del 1968, i cinema italiani proiettarono per la prima volta il film 2001: Odissea nello spazio. Un film in quattro capitoli che racconta un balzo evolutivo nella coscienza e nella capacità tecnologica dell’uomo, sullo sfondo di un’intelligenza aliena che orienta il cambiamento. Il capolavoro di Stanley Kubrick esplora il presente, un passato e un futuro, dagli albori dell’uomo, ambientati in un’Africa preistorica, a un futuro nel 2001, quando l’umanità avrebbe colonizzato la Luna, raggiunto Giove, e oltre. Accanto a Stanley Kubrick, l’altra mente dietro 2001: Odissea nello spazio è stato Arthur C. Clarke, scrittore britannico di fantascienza, saggista scientifico, inventore e conduttore televisivo. I due collaborarono alla sceneggiatura del film, frutto di un’intesa profonda, che univa la visione scientifica di Clarke all’astrazione cinematografica di Kubrick. Sarà proprio Clarke a introdurre il nostro tema di oggi: “Pensando il museo del futuro”.
Nel lontano 1964, in una trasmissione della BBC, Arthur C. Clarke presentò la sua visione del futuro, formulando una serie di previsioni incredibilmente precise sulla tecnologia e sulla società. “Cercare di prevedere il futuro”, aveva ribadito Clarke, “è un impegno scoraggiante e rischioso perché le scelte che avrebbe davanti il profeta non sono facili. Se le sue previsioni suonassero anche solo vagamente ragionevoli, potete esser certi che in venti o al massimo cinquant’anni il progresso della scienza e della tecnologia lo faranno sembrare troppo conservatore. D’altra parte, se per miracolo quel profeta descrivesse il futuro esattamente come accadrà, le sue previsioni sembrerebbero talmente assurde, così improbabili, da creare perplessità ed incredulità”. Io non sono un profeta, né ho l’intenzione di esserlo, ma seguo i passi di Clarke riconoscendo il rischio di sembrare assurdo, forse anche troppo lontano dalla realtà, sperando però di non lasciarvi perplessi o increduli. E proprio per questo motivo che scelgo di analizzare il museo attraverso la lente del futures cone, “cono dei futuri” in italiano.
Il Futures Cone è un metodo concettuale per esplorare una scelta di futuri partendo dal presente, per comprendere le possibilità nell’ambito di una incertezza crescente man mano che passa il tempo. Scelgo di concentrarmi su quattro diverse tipologie di futuri.
Il primo riguarda i futuri possibili. Si tratta di tutto ciò che potrebbe accadere, basandosi sull’immaginazione, sui limiti della scienza o su variabili sconosciute. Per esempio, condizioni climatiche estreme potrebbero essere possibili, considerando l’aumento delle temperature. Il secondo riguarda i futuri probabili. Sono futuri che hanno un’alta probabilità di accadere se i trend attuali continuano. Il viaggio verso Marte è sempre più probabile. Una crescente dipendenza dall’intelligenza artificiale sarebbe un altro scenario probabile. Il terzo riguarda i futuri preferibili o desiderabili. Qui parliamo di futuri a cui aspiriamo. Tutti crediamo in una società inclusiva, siamo in molti ad impegnarci nella promozione dell’inclusività, della diversità e dell’equità. Il quarto riguarda i futuri plausibili. Basandosi sulle tendenze attuali, sulla conoscenza esperta e sulla ricerca, alcuni futuri potrebbero accadere. Sono i futuri che probabilmente si realizzeranno se le traiettorie attuali proseguono.
La scelta tra possibile, plausibile, probabile e preferibile dipende in gran parte da una comprensione profonda delle tendenze e dalla capacità di leggere i segni del tempo.
Con la scelta di futuri che ci fornisce il cono dei futuri potremmo mappare i futuri di una istituzione museale particolare, certamente non definibile a partire da caratteristiche generali. Si tratta di una tipologia particolare, un modo specifico di comprendere e vivere il museo - il museo mediterraneo. Riguarderebbe un’istituzione storicamente concepita per proteggere, conservare e rendere accessibile un patrimonio storico e culturale straordinario, un’istituzione profondamente radicata nel paesaggio culturale in cui si trova, da comprendere come un contenitore di contenuti che spesso ha lo stesso valore e significato del patrimonio culturale che contiene. Riguarderebbe un’istituzione che valorizza, presenta e rende accessibile un patrimonio culturale spesso compreso e valorizzato come un’estrazione diretta del passato – una reliquia – che richiama direttamente culture modellate da pratiche religiose, considerando che il Mediterraneo è anche la culla delle tre religioni monoteistiche.
È questo il museo di cui oggi stiamo considerando i futuri e lo faremo soffermandoci su tre elementi.
Molti di noi provengono da istituzioni collezionistiche, che spesso custodiscono collezioni di grande rilievo. Sappiamo che l’Italia possiede alcune delle concentrazioni più importanti di collezioni al mondo, con una percentuale elevatissima spesso in deposito. Le raccomandazioni di ICOM Italia sui depositi museali, pubblicate in seguito alla conferenza di Matera a Palazzo Lanfranchi nel 2019, avevano messo al centro proprio una necessità di valorizzazione i depositi. Dopodiché, come ben sappiamo, queste raccomandazioni sono state riprese dall’assemblea generale di ICOM con l’impegno di promuovere una maggior attenzione alla salvaguardia e alla valorizzazione delle collezioni in deposito in tutto il mondo.
Ci sarebbe da aggiungere che le istituzioni collezionistiche continuano a lottare con pratiche di gestione risalenti a concetti museali del XIX secolo, in cui i depositi e le collezioni di studio sono distinte dall’esposizione spesso definita “permanente”. In tal senso, i musei spesso si comportano come quel bambino che sant’Agostino incontra per puro caso, quel bambino che cerca di versare l’oceano in un buco nella sabbia, continuando ad acquisire e collezionare (giustamente, aggiungerei), ma non riuscendo poi a presentarlo e renderlo accessibile, lasciando molti Sant’Agostini a chiedersi perché.
Quali futuri, dunque, per questa materialità museale cosi centrale per il museo mediterraneo? Quali possibilità per una gestione futura? Nel novembre 2021, il museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam ha inaugurato il suo Art Depot, un’architettura simile a un’astronave concepita come deposito accessibile al pubblico. Sarebbe il primo nel suo genere ma, ribadiscono, non è un museo, come viene precisato all’entrata dell’Art Depot. Invece sono seriamente convinto che questo progetto, partendo da una tendenza emergente, potrebbe diventare un nuovo concetto di museo. Potrebbe essere possibile, forse anche preferibile in vista dello sviluppo delle collezioni e compatibile con la definizione di museo attuale.
La definizione ICOM 2022 riconosce il museo come “un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Un’istituzione aperta al pubblico, accessibile ed inclusiva che promuove diversità e sostenibilità, che opera con la partecipazione della comunità offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”. All’Art Depot di Rotterdam i visitatori sono invitati a scoprire come l’arte viene acquisita, studiata e restaurata. Tutti questi sono valori presenti nella definizione ICOM, ma oltre a ciò, l’Art Depot ha un programma educativo, mostre curate, spazi didattici e perfino un ristorante con la vista panoramica sulla città. Non c’è molto, in tutto ciò, che vada di traverso ad una nuova idea di museo in fase di sperimentazione, perché nulla va contro la definizione di museo promossa dall’ICOM a partire dal 2022.
Questa tendenza si proietta nel progetto dei nuovi depositi del Victoria and Albert Museum, l’East Storehouse, inaugurati qualche settimana fa. L’East Storehouse promuoverà l’accesso agli oggetti in deposito su richiesta come componente di una vera esperienza da autodidatta. Cito Tim Reeve, direttore operativo del V&A East Storehouse, in inglese: “We’ve got two museum modes: one is permanent galleries and exhibitions, the other is storage. We’ve tried to invent a third one in the middle. I hope it will move away from that binary choice between display or storage”.
Dal 2010, Nina Simon è emersa come punto di riferimento per l’idea di un museo partecipato, anche se questo approccio ha come sfondo storico la sociomuseologia, nueva museología o nouvelle museologie rintracciabile indietro nel tempo alla Dichiarazione di Santiago del Cile del 1973. La definizione di museo dell’ICOM del 2022 fa riferimento al ruolo sempre più centrale che la comunità assume nei musei, non solo come pubblico, ma come partecipante attivo, e in molti casi co-creatore.
Quali futuri per i pubblici museali del XXI secolo? Come possiamo conciliare l’ autorità curatoriale con la partecipazione della comunità al museo guidata da un impegno verso l’inclusività? Nel 2018, l’Anchorage Museum, in Alaska, grazie anche al sostegno economico di Bloomberg Philanthropies inaugurava Seed Lab, trasformando un edificio abbandonato, proprio di fronte al museo, in un luogo per la comunità.
Seed Lab contiene sale per conferenze e spazi per teatro oltre alla tools library - una biblioteca degli attrezzi prestabili - tanto quanto fa una biblioteca con il prestito di libri. Ma ciò che conta davvero è che Seed Lab è pensato per diventare il luogo in cui incubare la programmazione del museo per e con la comunità. Anche questo progetto può essere considerato un seme di futuri possibili, forse preferibili, se pensiamo al ruolo fondamentale che la rilevanza ha e continua ad averne nell’operato di un museo. Sarebbe un futuro certamente plausibile, osservando l’evoluzione delle pratiche di co-creazione e inclusione adoperati in maniera sempre più crescente dai musei in tutto il mondo.
Attenzione però: che un futuro sia preferibile o meno dipende quasi esclusivamente dalla leadership museale. La leadership museale deve sapere come, quando e in che modo coinvolgere la comunità nel processo museale sia quello quotidiano che nella co-creazione di un programma di attività per e con le comunità. Sarebbe simile a come un direttore d’orchestra si impegna a dirigere una polifonia, non una cacofonia, assicurandosi che tutti gli strumenti suonano al momento e nel modo giusto. Sarebbe la stessa cosa che deve fare un direttore di museo in futuro possibile, plausibile e forse anche preferibile.
Il museo del futuro è spesso pensato in chiave di museo prevalentemente tecnologico. Sarebbe un’immagine giustamente alimentata dai profondi cambiamenti tecnologici che viviamo e, aggiungerei, senza precedenti. Alcuni hanno paragonato questo momento alla rivoluzione industriale del XIX secolo.
Torniamo a ciò che Arthur C. Clarke affermava nel 1964, immaginando un futuro ambientato nell’anno 2000: “Quando quel momento arriverà, il mondo intero si sarà ridotto a un punto, e il ruolo tradizionale della città come luogo di incontro non avrà più senso. In effetti, gli uomini non viaggeranno più – comunicheranno. Queste tecnologie renderanno possibile un mondo in cui potremo essere in contatto immediato con chiunque, ovunque ci troviamo. Potremo comunicare con amici ovunque sulla Terra, anche se non sappiamo dove si trovano fisicamente. Sarà possibile, in quell’epoca – forse solo tra cinquant’anni – per un uomo lavorare da Tahiti o Bali con la stessa efficacia con cui lavorerebbe da Londra”.
È un dato di fatto che i musei, come le società contemporanee in generale, faticano a tenere il passo con l’innovazione. Anche qui torna l’immagine del bambino che incontra Sant’Agostino sulla spiaggia. La tecnologia avanza, e il museo cerca di contenerla in uno spazio pensato per altri tempi, malgrado possa offrire al museo l’opportunità di far parte in maniera molto più incisiva di un mondo straordinariamente interconnesso.
Quali futuri, dunque, sono possibili grazie alla tecnologia? Quali scenari preferibili se pensiamo nell’ottica del figitale combinando ed affiancando esperienze fisiche e digitali? I musei dovrebbero considerare la tecnologia come un’estensione dell’esperienza museale, accessibile su più piattaforme? Tutti abbiamo vissuto il Getty Challenge durante la pandemia, riconosciuto da tutti noi come un momento storico in cui il museo si è espanso oltre i suoi limiti fisici e su scala globale come mai prima. I musei potrebbero esplorare una dimensione parallela, fisica e digitale, guidate dalla transmedialità? Nell’ottobre 2022, la Finnish National Gallery, insieme a Decentraland e Sitra, ha inaugurato uno dei primi spazi museali nazionali nel metaverso con una versione digitale del padiglione finlandese all’Expo di Parigi del 1900 come progetto museografico, dove i visitatori possono votare e influenzare la scelta di opere esposte.
Forse i musei dovrebbero concentrarsi invece sull’utilizzo della tecnologia come strumento di interpretazione dell’esperienza museale tradizionale, consolidando significato e valore di una materialità ancora centrale per il museo mediterraneo? Non mi riferisco ai tour virtuali statici e silenziosi, repliche poco vive di musei vuoti. Parlo di esperienze interattive come quella della Gallery One del Cleveland Museum of Art, dove la reazione emotiva del pubblico museale determina la scelta di opere.
Ormai, il concetto di museo liquido di Fiona Cameron risale ad oltre un decennio fa. Inoltre, tutto ciò che serve al museo in termini di tecnologia è già stato inventato. La vera sfida è trovare scopo d’applicazione ed utilità a questa tecnologia. Sono perfettamente convinto quando dico che un’idea museale di un futuro possibile, anche plausibile, sarebbe quella di un museo multisensoriale, accessibile da qualunque luogo sul pianeta. Sarà possibile per una persona accedere ad un’esperienza museale completa ovunque sia - da Tahiti da tanto quanto da Londra o da qui, da Bologna. Chi ha colto l’analogia sa che queste parole richiamano la previsione di Clarke del 1964. Sessant’anni fa. Forse sarei prevedibile, anche assurdo, aggiungerei. Lascio a voi scelta e decisione. Come diceva Clarke: “L’unica cosa certa sul futuro è che sarà assolutamente fantastico”. Ma ciò che guiderà davvero l’innovazione museale sarà il capitale umano. Penso a progetti Europei come il CHARTER Alliance che ha individuato 115 professioni del patrimonio culturale, alcuni specifici all’istituzione museale, ai quali si aggiungono ruoli ibridi e nuovi profili professionali per un totale complessivo di oltre 150. Infatti, i profili professionali continuano ad evolversi. Cito solo alcuni ruoli emergenti come l’online cultural community manager, il digital strategy manager, il digital collections manager e il digital material curator, individuati dal progetto Mu.SA – Museum Sector Alliance, a cui ha partecipato anche l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali dell’Emilia Romagna.
Alcuni di questi ruoli andranno ripensati, altri reinventati. Anche l’intelligenza artificiale avrà il suo peso, portando con sé sfide e possibilità. Ma per arrivarci, dobbiamo comprendere meglio il possibile, il plausibile, il probabile e il preferibile. Dobbiamo chiederci come l’idea, il concetto di museo mediterraneo possa evolversi, rinascere se serve, come possa, debba e voglia trasformarsi per rimanere sempre di più una istituzione di rilevanza per comunità e società.
L'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.