Abitare il vuoto, contro il rumore del mondo. Quando l'assenza non è mancanza, ma origine


Il vuoto non è solo assenza, ma spazio da abitare, ascoltare, attraversare. Dalla psichiatria di Frankl all’arte di Ryman e Rauschenberg, dalla musica di Cage al pensiero di Heidegger, questo viaggio esplora il nulla come possibilità, come matrice di senso, come origine del sentire.

C’è un vuoto che inchioda, fatto di tutto ciò che abbiamo scelto di non essere, di tutte quelle versioni di noi che abbiamo lasciato indietro per paura, per inerzia, per sopravvivenza. Un vuoto che non si mostra con violenza, ma s’insinua come un dolore sottile, inconfessabile, che conosce i punti esatti in cui colpire, scavare, frugare morbosamente. È fatto di notti piene di parole non dette, di stanze condivise con chi non poteva comprenderci, di amori interrotti prima ancora di avere un nome. È un’assenza che ci tiene svegli anche quando non la nominiamo, che torna nei dettagli più banali: una luce accesa, una voce fuori campo, un ricordo mai del tutto nostro.

Poi c’è un altro vuoto, più raro e fragile, che non punisce ma accoglie, non ferisce, ma consola. È quello che ci permette di smettere di fingere, che ci consente di restare, per un flebile istante, senza difese. È la mancanza che non chiede, ma offre: quello che ci invita a fermarci, a respirare, a non essere niente e, in quel niente, finalmente, essere. C’è il vuoto dello spazio cosmico: un silenzio assoluto tra le stelle. Quello delle particelle subatomiche, il nulla che tiene insieme ogni cosa. Ma è il vuoto esistenziale il più difficile da sostenere e cerchiamo di riempirlo come possiamo: con parole, gesti, immagini, rumore di fondo, dipendenze. Acceleriamo, ci distraiamo, ci affanniamo, eppure il nulla resta, ci accompagna, si nasconde tra le crepe e, prima o poi, ci raggiunge perché avrà sempre il fiato più lungo del nostro.

Lo psichiatra Viktor Frankl raccontava come l’uomo non possa vivere senza un senso, e che il vuoto che nasce dalla sua assenza può diventare una trappola silenziosa e devastante. Lo chiamava “vuoto esistenziale” poiché si tratta di una condizione che consuma lentamente, che si manifesta quando smettiamo di sentire un perché, un legame tra ciò che siamo e ciò che facciamo. Lo sperimentò in modo diretto e brutale nei campi di concentramento nazisti, esperienza che è al centro della sua opera più conosciuta, Man’s Search for Meaning. Durante la sua prigionia ad Auschwitz, Dachau e in altri campi, Frankl perse la moglie incinta, i genitori e il fratello e visse la spoliazione totale: del nome, del corpo, della libertà, del futuro. In quel vuoto assoluto, dove l’umanità sembrava annientata, Frankl osservò qualcosa di fondamentale; ossia che anche nella sofferenza più estrema, l’uomo mantiene una libertà interiore, quella di scegliere il proprio atteggiamento di fronte al dolore. “Tutto può essere tolto ad un uomo ad eccezione di una cosa: l’ultima delle libertà umane – poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi”.

Per Frankl, il vuoto esistenziale non è solo una condizione psicologica moderna, ma un territorio in cui si gioca la possibilità del significato, ed è proprio quando tutto crolla che l’uomo ha l’occasione di porsi la domanda fondamentale: perché vivere? Per cosa resistere? E la risposta, per Frankl, non arriva dall’esterno, ma è una costruzione attiva, un orientamento che ognuno è chiamato a generare. La sua non è mai una fuga dalla sofferenza, ma la capacità di attribuire un senso alla sofferenza stessa e quel vuoto, in apparenza insopportabile, potrebbe diventare spazio abitato, se solo smettessimo di temerlo e cominciassimo a guardarlo come possibilità. Non è il pieno a salvarci, ma la capacità di trasformare l’assenza in direzione e la perdita in orientamento. L’errore che sovente commettiamo è forse quello di non concedergli mai spazio. Temiamo il vuoto come fosse una falla nel tessuto delle nostre vite, come un errore da correggere e anche nell’arte, nella musica, nella scrittura ogni superficie deve essere piena, ogni nota continua, ogni frase una concatenazione ininterrotta. Perché il silenzio è intruso, l’interruzione disagio, la tela bianca avversaria. Ma se smettessimo di combatterlo, questo vuoto apparentemente lacerante e noioso e, semplicemente, imparassimo ad abitarlo, a prendercene cura, capiremmo che non è altro che il respiro che precede la parola, l’attesa prima di un gesto, la tela ancora intonsa. È la pausa necessaria tra un battito e l’altro. È terreno fertile per l’immaginazione, la creazione, la comprensione di tutto ciò che ci sfugge. Il vuoto non è solo ciò che manca: è anche ciò che può ancora nascere. Ma il vuoto non si colma. Si ascolta. Si abita. In un tempo che ci esorta a non fermarci, abitare il nulla sembra un atto radicale; significa restare, ascoltare, resistere alla tentazione ferocemente umana di saturare e, semplicemente accettare che, nella soglia incerta tra pieno e nulla, qualcosa non possa accadere davvero.

Lo aveva puntualmente compreso Robert Ryman, che scelse il bianco non per annullare, ma per affermare. Una pittura, la sua, che non rappresenta, ma espone; che non grida, ma trattiene. Nei suoi lavori, la luce si deposita, i margini si dissolvono e il muro smette di essere sfondo, ma diventa parte dell’opera. Verso la fine degli anni Sessanta, il lavoro di Ryman assume una svolta sensuale: le sue superfici diventano leggere, traslucide, quasi incerte. In opere come Twin del 1966 e Adelphi del 1967, la pittura bianca si stende sottile, vicina al bordo estremo del supporto, come se cercasse di contenere il vuoto senza ingabbiarlo. In Adelphi, la tela non è neanche tesa, ma poggia libera su carta cerata e viene spillata direttamente al muro. È in questo gesto che Ryman inizia a romanticizzare la parete, a rendere la cornice parte della pittura, a confondere i margini tra ciò che è arte e ciò che è spazio. Ma è con la serie Surface Veil del 1970 che questa riflessione si amplifica e crea superfici impalpabili, dipinte su fibra di vetro o carta oleata, fissate al muro con brevi strisce di nastro adesivo. Non c’è più distanza tra supporto e ambiente: il muro entra nell’opera e ne diventa pelle e, guardando queste composizioni, è difficile capire dove finisce il quadro e inizia la parete, dove la materia si dissolve e dove, invece, si fa presenza. Il bianco, qui, non è luce piena ma nebbia, sospensione, latenza. È come se Ryman ci chiedesse di restare lì, nel punto esatto in cui il significato non è ancora deciso.

Robert Ryman, Twin (1966; olio su tela, 192,4 x 192,6 cm; New York, Museum of Modern Art)
Robert Ryman, Twin (1966; olio su tela, 192,4 x 192,6 cm; New York, Museum of Modern Art)
Robert Ryman, Surface Veil I (1970; olio e gesso blu su tela, 365,6 x 365,8 cm; New York, Solomon R. Guggenheim Museum)
Robert Ryman, Surface Veil I (1970; olio e gesso blu su tela, 365,6 x 365,8 cm; New York, Solomon R. Guggenheim Museum)

“I miei dipinti sono così coinvolti con il muro, che a volte è quasi come se fossero dipinti sul muro”, affermava, e penso che sia proprio in quella soglia, in quell’intercapedine tra presenza e assenza, che il suo lavoro trova la vera potenza che, anziché affermare, suggerisce, attende. Come nei lavori di Robert Ryman, anche in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino l’assenza non è decorazione né mancanza, ma tensione tra ciò che c’è e ciò che potrebbe esserci. Ryman lavora sul bianco come spazio da abitare, da attraversare senza distrazione; Sorrentino, invece, lascia che il silenzio prenda forma , che diventi sostanza narrativa. Ci sono momenti, nel film, in cui la musica si ritrae del tutto, in cui il suono sparisce e resta solo un abisso sonoro che pesa più di qualsiasi dialogo. È lo stesso vuoto che segue la perdita, quella sensazione lacerante che resta dopo il trauma, che si spalanca. Lì, nel silenzio che invade la casa del protagonista, la mancanza dei genitori non è detta, ma percepita. Il lutto non è raccontato in modo didascalico, ma resta sospeso, crudele, reale. Come il bianco di Ryman, come le sue tele leggere, quasi smaterializzate, anche Sorrentino rende l’assenza un campo visivo ed emotivo da attraversare, ma forse l’artista che più di tutti ha fatto del vuoto un vero e proprio linguaggio è stato il compositore John Cage.

Nel 1951, John Cage entrò in una camera anecoica convinto di incontrare il silenzio assoluto, ma ne uscì con una verità brutale e lapidaria, ovvero che il silenzio non esiste.

Dentro quella stanza, progettata per assorbire ogni suono, sentì due rumori ben distinti: il battito del suo cuore, profondo e regolare, e il funzionamento del suo sistema nervoso, che emetteva un suono più alto e continuo. In quel momento capì che, persino quando tutto tace, il corpo parla e che la realtà non conosce il vuoto perfetto. Ogni spazio è già abitato. Ogni attesa è già rumore.

Da quell’esperienza nacque 4’33", il suo brano più celebre e più discusso: quattro minuti e trentatré secondi di silenzio “suonato”, in cui l’esecutore non tocca mai lo strumento, ma il vuoto non è mai sterile. Il suo è un tempo d’ascolto che richiede solamente di prestare attenzione, di smettere di controllare il suono e accogliere ciò che già c’è. 4’33" ha uno spartito, un tempo segnato, una cornice. La struttura c’è, ma ciò che la riempie è imprevedibile e in quella mancanza apparente, tutto può accadere: il colpo di tosse di uno spettatore, il rumore della sala o anche semplicemente la consapevolezza del proprio respiro.

Nel suo libro Silence: Lectures and Writings, Cage scrisse: “Ovunque siamo, ciò che sentiamo è per lo più rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando lo ascoltiamo, lo troviamo affascinante”. E forse è proprio questo che restituisce all’opera ancora più consapevolezza: nell’esistere, nell’esserci anche quando attorno non troviamo niente. Eppure, quest’opera che ancora oggi spiazza, irretisce, commuove, non nacque dal nulla né da una provocazione fine a se stessa. Cage stesso raccontò che fu l’esempio di Robert Rauschenberg a dargli il coraggio (o forse la necessità) di scrivere il pezzo: quando vide per la prima volta i suoi White Paintings del 1951, quelle tele monocrome disposte in griglie completamente bianche, comprese che anche la musica doveva mettersi in pari, accettare l’invito radicale dell’arte a non riempire più.

I White Paintings non offrivano immagini, né contenuto, ma allo stesso tempo erano superfici vuote solo in apparenza, pronte ad accogliere riflessi, ombre, presenze. Non rappresentavano nulla, ma accoglievano tutto. Erano spazi di attenzione che si attivavano nel momento in cui qualcuno vi passava davanti, nel modo in cui la luce cambiava, nell’impercettibile movimento dell’aria, e Cage riconobbe in quelle tele una soglia che non poteva più ignorare. “A chi può interessare: i dipinti bianchi sono arrivati prima; il mio pezzo silenzioso è arrivato dopo”, affermava Cage sempre in Silence. Lectures and writings. Quel gesto pittorico fu quindi l’origine di un nuovo modo di ascoltare, e 4’33” divenne una sorta trasposizione sonora di quei quadri bianchi, uno spazio da abitare senza pretese, un tempo da non dominare.

Robert Rauschenberg, White Painting (1951; pittura per interni su tela, 182,9 x 320 cm; Robert Rauschenberg Foundation)
Robert Rauschenberg, White Painting (1951; pittura per interni su tela, 182,9 x 320 cm; Robert Rauschenberg Foundation)
Robert Rauschenberg, White Painting (1951; pittura per interni su tela, 183 x 183 cm; Robert Rauschenberg Foundation)
Robert Rauschenberg, White Painting (1951; pittura per interni su tela, 183 x 183 cm; Robert Rauschenberg Foundation)

Anche altrove, in un altro tempo, un altro linguaggio ha saputo nominare lo stesso tremore. Nel Libro di Giobbe, l’uomo si scopre nudo di fronte a un’assenza che non si lascia spiegare né colmare: “Ma, ecco, se vado a oriente, egli non c’è; se a occidente non lo trovo; se a settentrione, quando vi opera, io non lo vedo; si nasconde egli a sud, io non lo scorgo”. Giobbe cerca Dio in ogni direzione, ma non lo trova e ciò che lo annienta non è il buio, ma la presenza che si nasconde, il silenzio lacerante. È un vuoto abitato da qualcosa che sfugge e, infatti, non è l’assenza a ferirlo, ma l’impossibilità di vedere ciò che pure esiste: “Perciò davanti a lui io sono atterrito; quando ci penso, ho paura di lui”. Non è il buio che spaventa, ma la vastità che si apre quando nessuna risposta arriva, la pienezza senza forma che ci espone, ci disarma, ci ricorda che qualcosa ci oltrepassa.

Dove Giobbe invoca e non riceve risposta, Cioran spalanca definitivamente l’abisso che non è più spazio da abitare né attesa da comprendere, ma corrosione, scarnificazione, un non-luogo in cui ogni parola rischia il collasso. Eppure, per dolcissima ironia, è proprio con le parole che quell’uomo a metà tra un filosofo e un pensatore privato, sceglie di lottare. Nel Précis de décomposition, l’aforisma diventa lama sottile, forma ridotta all’osso, estetica piegata all’intuizione. In Cioran, il vuoto è il destino ultimo di ogni idea, il punto cieco del pensiero dove non si trova mai consolazione o possibilità di redenzione, ma proprio in questo risiede il suo fascino: nella capacità di resistere alla seduzione del senso. “Esistere significa mettere a profitto la nostra parte d’irrealtà, significa vibrare al contatto del vuoto che è in noi”.

La crisi di senso in Cioran non è metafora e non è estetica, ma è la sola realtà che sopravvive quando tutto il resto decade ed ecco, allora, che il vuoto diventa esercizio estremo di lucidità, ma una lucidità che implode, che rinuncia a se stessa. Non c’è ascesi, né attesa. Solo residuo. È un’assenza, la sua, che non annuncia nulla, ma svela l’impossibilità stessa dell’essere. C’è, in agguato, una tentazione sottile e perniciosa: quella di convertire il vuoto in un surrogato stesso dell’essere, di travestirlo da senso, di attribuirgli una funzione che non gli appartiene. Ma così facendo, lo si tradisce, lo si snatura. Perché il vuoto non nasce per consolare né per offrire appigli, poiché la sua vocazione essenziale è il distacco, la sospensione radicale, il non-voler-essere. E allora sorge una domanda, forse la più insidiosa: come aderire al vuoto senza lasciarsi sedurre convulsamente da esso? Come restare nella sua orbita senza proiettarsi nel desiderio, senza caricarlo di un significato che il vuoto stesso, per sua natura, non cerca?

Nel pensiero di Cioran, il vuoto si spoglia anche delle sue qualità negative: non è il nulla come minaccia, ma come residuo lucido e inesorabile, come una realtà che ha smesso di pretendere, un abisso senza vertigini, una certezza asciutta, nitida, chirurgica, quasi indifferente, che non ci sradica ma ci svuota, lasciandoci solo l’essenziale ovvero la consapevolezza della nostra non-realtà. Heidegger ci mette in guardia: quando chiediamo “che cos’è il nulla?”, lo stiamo già trattando come se fosse un ente e, in qualche modo, stiamo già tradendo la sua natura. Il nulla non è qualcosa, ma quello spazio irriducibile che non possiamo possedere, né trasformare in oggetto. Nel paragrafo 40 di Essere e tempo, Heidegger analizza la situazione emotiva fondamentale dell’angoscia, distinguendola dalla paura. Quest’ultima ha un oggetto, l’angoscia no, non è localizzabile, non è “di” qualcosa, è la percezione che il mondo, così come lo conosciamo, possa cedere sotto i nostri piedi ed è in quel momento che si rivela il "nulla” e il “in-nessun-luogo”, la sospensione improvvisa di ogni certezza. Il mondo non sparisce, ma perde significato e tutto ciò che era familiare diventa improvvisamente estraneo. La colpa, in questo orizzonte, non è un errore morale, ma una forma ontologica: l’esserci è colpevole perché è fondamento di una nullità, perché è gettato in un’esistenza che non ha scelto, ma che deve comunque abitare e la morte non è la fine come evento, ma la possibilità della pura, semplice, squisita impossibilità dell’esserci. E in questa possibilità, radicale e irriducibile, l’essere umano è chiamato a decidere di essere se stesso, ad assumere la propria nullità come punto di partenza, non come condanna. Per Heidegger, il nulla non è il nichilismo, non è la mancanza ontologica o l’assenza di valore, non è il difetto, ma la struttura muta dell’esistenza. Un “non” che non toglie, ma rende visibile l’esistere nella sua fragilità e nella sua verità.

In Giappone, quel vuoto ha il nome di “Ma” (間) e non è ciò che manca, ma ciò che connette. È il margine invisibile tra i gesti, l’eco silenziosa tra le parole, lo spazio sottile dove un respiro finisce e l’altro inizia. Nel Ma, questo non è difetto, ma ritmo, non è sospensione, ma forma ed è quella sottile tensione che permette al significato di emergere e all’incontro di accadere e respirare. Anche Yoshida Kenkō, nelle sue Ore d’ozio, rifletteva sul fascino silenzioso delle cose imperfette e transitorie. “È il vuoto che contiene sempre le cose”, annotava, come a ricordarci che ciò che ci commuove non è mai la perfezione, ma il fragilissimo istante prima della scomparsa come può essere una foglia increspata dal tempo, una ciotola scheggiata, un frammento che resta. Ed è la stessa sospensione che si ritrova nel Shōrin-zu byōbu di Hasegawa Tōhaku, un’opera composta da sei pannelli che non mostra un paesaggio, ma ciò che ne rimane. I pini affiorano dalla nebbia senza imporsi, sono presenze che esitano, immerse in un silenzio che anziché tacere, ascolta.

Questo byōbu (un paravento dipinto su carta, bordato di seta e montato su struttura laccata) nasceva non per essere appeso, ma per abitare lo spazio, modificarlo, disegnarne il ritmo, e la sua funzione originaria non era artistica, ma architettonica. In Giappone, l’arte non si separa mai dalla vita, infatti il byōbu arredava, divideva, apriva, con delicatezza ed era pensato per modulare la luce e accompagnare lo sguardo.

Hasegawa Tōhaku, Shōrin-zu byōbu (XVI secolo; inchiostro su carta, 156,8 x 356 cm; Tokyo, Museo Nazionale di Tokyo)
Hasegawa Tōhaku, Shōrin-zu byōbu (XVI secolo; inchiostro su carta, 156,8 x 356 cm; Tokyo, Museo Nazionale di Tokyo)
Hasegawa Tōhaku, Shōrin-zu byōbu (XVI secolo; inchiostro su carta, 156,8 x 356 cm; Tokyo, Museo Nazionale di Tokyo)
Hasegawa Tōhaku, Shōrin-zu byōbu (XVI secolo; inchiostro su carta, 156,8 x 356 cm; Tokyo, Museo Nazionale di Tokyo)

Nel Shōrin-zu byōbu non c’è narrazione, non c’è centro, ma solo una sospensione continua, un invito alla quiete. Tōhaku dipinge, quindi, semplicemente l’intervallo offrendo uno spazio in cui sostare. Non è nel pieno che ci riconosciamo, ma in ciò che sfugge, che trema, che resiste senza dichiararsi perché le cose parlano più forte quando stanno per svanire e, forse, è proprio lì che ci somigliano di più. Esso non risponde, non consola, non ci offre redenzione, ma ci guarda e nel suo sguardo, che è silenzio, ci restituisce a noi stessi. Non ha la forma dell’assenza ma quella dell’inizio, non si lascia possedere ma può essere ascoltato e non si attraversa: si resta, si sospende, si abita come si può.

Perché abitare il vuoto significa accettare di non avere le risposte, di non comprendere tutto, di non dover sempre guarire. È un gesto semplice e feroce insieme: restare presenti anche quando tutto sembra mancare. E in quel non detto, in quella fragilità che non si chiude, accade forse la cosa più vera, quella di riconoscere che esistere non è possedere, ma sostare. Non è colmare, ma custodire. Non è sapere, ma sentire. Perché se il vuoto è la condizione dell’esistenza, allora non può essere solo mancanza, è matrice. Non è ciò che resta quando tutto si dissolve, ma ciò da cui tutto può cominciare.


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Francesca Anita Gigli

L'autrice di questo articolo: Francesca Anita Gigli

Francesca Anita Gigli, nata nel 1995, è giornalista e content creator. Collabora con Finestre sull’Arte dal 2022, realizzando articoli per l’edizione online e cartacea. È autrice e voce di Oltre la tela, podcast realizzato con Cubo Unipol, e di Intelligenza Reale, prodotto da Gli Ascoltabili. Dal 2021 porta avanti Likeitalians, progetto attraverso cui racconta l’arte sui social, collaborando con istituzioni e realtà culturali come Palazzo Martinengo, Silvana Editoriale e Ares Torino. Oltre all’attività online, organizza eventi culturali e laboratori didattici nelle scuole. Ha partecipato come speaker a talk divulgativi per enti pubblici, tra cui il Fermento Festival di Urgnano e più volte all’Università di Foggia. È docente di Social Media Marketing e linguaggi dell’arte contemporanea per la grafica.



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