Quella di Lucrezia è una storia tragica. È una storia di stupro nell’antica Roma, ma anche di onore violato. Ed è una vicenda che finisce in tragedia perché è così forte la vergogna al pensiero di essere ingiustamente considerata un’adultera, lei che era completamente dedita alla sua unione coniugale ed estremamente virtuosa, che preferisce darsi la morte, suicidandosi, trafiggendosi con un coltello al petto. “Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”, queste furono le sue ultime parole prima di uccidersi, come racconta uno dei più famosi storici del suo tempo, Tito Livio, nei suoi Ab Urbe condita libri, in cui viene narrata la storia di Roma dalla sua fondazione nel 753 a.C. fino alla morte di Druso nel 9 a.C.
Siamo alla fine del VI secolo a.C. e Roma è governata da una monarchia, con re Lucio Tarquinio il Superbo al potere, ultimo sovrano della città, il cui regno è ricordato come tirannico e oppressivo. Uno dei suoi figli è Sesto Tarquinio, che ha un ruolo centrale nella storia di Lucrezia, la bella matrona romana divenuta simbolo di virtù femminile e ricordata come una delle figure femminili più significative dell’antica Roma, tanto da portare a un cambiamento politico radicale, ovvero alla fine della monarchia e alla nascita della Repubblica romana.
Figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Lucio Tarquinio Collatino, Lucrezia era nota per la sua bellezza, ma soprattutto per la sua fedeltà e rettitudine morale. Secondo la leggenda tramandata da Tito Livio, durante l’assedio di Ardea i figli del re e alcuni nobili romani si trovarono a discutere per stabilire quale delle loro mogli fosse la più virtuosa. Tra questi vi era anche Lucio Tarquinio Collatino, il marito di Lucrezia. Per verificare chi avesse ragione, decisero di tornare di notte verso Roma e verso le rispettive dimore e, una volta arrivati, scoprirono quanto Lucrezia superasse le altre: anche in assenza del marito, la trovarono dedita a tarda notte alla filatura della lana circondata dalle sue ancelle, a differenza delle mogli dei figli del re che avevano trovato a divertirsi tra banchetti e lussi in mezzo ai loro pari. La condotta esemplare di Lucrezia attirò quindi subito l’ammirazione di Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo.
Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio tornò con un compagno a casa di Lucrezia a Collatia, all’insaputa del marito Collatino, e lì venne accolto con benevolenza dalla donna come era consuetudine tra nobili, ma lei era totalmente ignara dei veri intenti di Sesto. Dopo pranzo, quando tutti sembravano addormentati, Tarquinio entrò nella stanza di Lucrezia e la minacciò con la spada sguainata, premendole il petto con la mano sinistra: “Chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio. Ho la spada in mano; morirai se pronunci una sola parola!”. E aggiunse la vergogna alla paura di Lucrezia, che si vide la morte in faccia. Se non si fosse concessa a lui, l’avrebbe uccisa e avrebbe fatto apparire la scena come un adulterio, infangando il suo onore anche da morta; disse che l’avrebbe deposta accanto a un servo sgozzato e nudo così che si potesse dire che era stata uccisa in un sordido adulterio. Minacciata e sola, la donna fu violentata. Addolorata per un male così grande, mandò subito a chiamare il marito e il padre: Spurio Lucrezio arrivò con Publio Valerio, mentre Collatino giunse con Lucio Giunio Bruto, che aveva incontrato per caso per la strada dopo aver saputo la notizia della moglie. Trovarono Lucrezia seduta tristemente nella sua camera. Lei raccontò piangendo l’accaduto senza omettere nulla e poi disse al marito: “Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l’onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro, la morte sarà testimone. Ma giuratemi che l’adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui”. Uno dopo l’altro giurarono tutti e cercarono di consolarla affermando prima di tutto che la colpa era solo dell’autore di quel crimine e non sua che ne era stata la vittima, e poi che se manca l’intenzione non si può parlare di colpa. Ma lei non ascoltò le affermazioni di nessuno e concluse dicendo: “Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”. Afferrò a quel punto un coltello che teneva nascosto sotto la veste e si trafisse il petto, scegliendo la morte piuttosto che vivere nell’onta. Il gesto disperato e nobile di Lucrezia ebbe un’eco potentissima. Bruto, impugnando il coltello ancora insanguinato, giurò vendetta e incitò il popolo romano a ribellarsi, dopo aver portato il corpo di Lucrezia nel foro, dove era accorsa molta gente. Lì venne pronunciato un discorso sulla violenza e la lussuria di Sesto Tarquinio, sull’orribile stupro e il suicidio di Lucrezia, sul lutto di Tricipitino. Fu il momento culminante di un malcontento già latente verso il dispotismo dei Tarquini: Bruto esortò la moltitudine infuriata ad abolire la monarchia e a far esiliare re Tarquinio il Superbo con moglie e figli. Due seguirono il padre, che era stato esiliato a Cere contro gli Etruschi, mentre Sesto Tarquinio, partito per Gabii, fu ucciso da vendicatori di vecchi rancori, che lui stesso aveva provocato con omicidi e rapine. Si chiudeva così la monarchia e al suo posto venne istituita la Repubblica romana. I primi due consoli eletti furono proprio Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.
La storia di Lucrezia, figura leggendaria divenuta simbolo di fedeltà coniugale, di virtuosità e della libertà repubblicana, viene interamente descritta nell’omonima opera di Sandro Botticelli, oggi conservata all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Sotto gli occhi dell’osservatore si dipana infatti l’intera storia di violenza che porta alla rivolta, scandita in tre episodi. All’estrema sinistra si apre l’episodio iniziale: Lucrezia viene sorpresa e minacciata già sulla porta di casa da Sesto Tarquinio, differentemente da quando narrato da Tito Livio che ambienta la violenza nella camera da letto della donna, sorprendendola mentre sta dormendo. Nel dipinto, l’uomo, armato di pugnale, incombe su di lei con uno sguardo famelico e deciso. Lucrezia non ha vie di scampo, alza le mani per proteggersi, ma il potere sta già entrando nella sua casa, per violare il suo corpo e distruggere il suo destino. La seconda scena si vede all’estrema destra del dipinto, specularmente alla prima. La donna, pallida e umiliata, si accascia di fronte alla propria famiglia per la vergogna di ciò che è accaduto. Il dolore è tutto concentrato nel gesto: il corpo cede e cade in avanti, il viso piegato verso terra, le braccia a penzoloni. Attorno a lei, un gruppo di quattro uomini la sorreggono: sono i familiari venuti in suo soccorso insieme a due conoscenti che reagiscono con indignazione e sgomento. È qui che Botticelli raffigura l’intimità del dolore che poco dopo si trasformerà in fatto pubblico e politico. Nel terzo episodio, al centro della composizione, la scena si allarga: il corpo di Lucrezia, disteso su una lastra e con ancora il coltello nel petto, diventa un corpo politico, il primo terreno della ribellione. Bruto in armatura solleva la spada e arringa il popolo, che è già accorso nella piazza. Alcune persone commentano l’accaduto, altre brandiscono spade, altre ancora sollevano la testa in segno di dolore e disperazione. Il gesto di Lucrezia ha già prodotto i suoi effetti: la sua morte ha già acceso il fuoco della rivolta. È un passaggio narrativo e simbolico decisivo, poiché il dolore privato si fa giustizia pubblica, l’onore offeso genera un profondo cambiamento politico. La scena centrale inoltre si svolge sotto a un’alta colonna sulla cui sommità si erge la statua del David vittorioso con ai suoi piedi la testa di Golia, l’eroe biblico simbolo di Firenze che rimanda alla nascita della Republica fiorentina dopo la fine del potere mediceo (per questo la famosa statua del David si trova proprio davanti a Palazzo Vecchio nel capoluogo toscano). Un parallelismo dunque tra la cacciata di Tarquini nella Roma antica e la fine della signoria medicea, che in entrambi i casi conduce alla nascita della Repubblica.
Botticelli infatti ambienta le Storie di Lucrezia non in un’antica Roma idealizzata, ma tra colonne, logge, archi e architetture rinascimentali con pannelli dorati, richiamando esplicitamente la Firenze del suo tempo.
Il dipinto, realizzato a tempera e olio su tavola nel 1500 circa, fu originariamente realizzato per decorare un palazzo fiorentino, in occasione di un matrimonio. Fu probabilmente commissionato per Giovanni di Guidantonio Vespucci e Namicina di Benedetto Nerli, come parte di una spalliera a Casa Vespucci. Un paradosso solo apparente: nel Rinascimento, scene tragiche come quella di Lucrezia venivano spesso scelte per ornare i cassoni nuziali, i grandi cofani che custodivano il corredo della sposa. E la figura di Lucrezia, modello di virtù estrema, risultava particolarmente adatta per essere rappresentata su questi cassoni solitamente collocati nelle camere da letto.
Come parte dell’acquisto di Casa Vespucci, l’opera venne acquistata nel 1533 da Piero Salviati; passò poi per via ereditaria a Lucrezia Salviati e al marito Giovanni de Bardi di Vernio, musicista e scrittore. È poi documentata nella collezione di Bertram Ashburnham, nel Sussex, entro il 1894, anno in cui il dipinto venne acquistato a 3400£ tramite il famoso storico dell’arte Bernard Berenson dall’Isabella Stewart Gardner, dove si trova ancora oggi.
Da considerare inoltre che l’opera faceva coppia con un’altra opera di Botticelli, realizzata nel 1505 circa, il cui tema fa pendant con quella di Boston, ovvero la Storia di Virginia Romana, oggi conservata all’Accademia Carrara di Bergamo, giungendovi grazie al lascito dello storico dell’arte Giovanni Morelli nel 1891. Anche questa vicenda è narrata da Tito Livio e racconta dell’assassinio di Virginia, giovane e bella plebea di irreprensibile onestà, da parte del padre per preservarne l’onore, in quanto il decemviro Appio Claudio si era invaghito di lei e aveva incaricato Marco Claudio di fingersi padrone della ragazza, sostenendo che fosse in realtà una sua schiava. Davanti a un tribunale presieduto da Appio Claudio, la fanciulla viene dichiarata schiava. Il padre, richiamato dal campo miltare accorse disperato e resosi conto che non c’era modo per sottrarre la figlia al sopruso, per difendere l’onore della figlia, la uccide tra il dolore dei familiari e dei cittadini che cacciano da Roma i decemviri. Anche in questo caso quindi Botticelli porta in una sua opera la storia di una giovane che, pur pagando con la sua stessa vita, difende la virtù femminile e l’onore.
Oltre a ispirare William Shakespeare per il suo poema The Rape of Lucrece scritto nel 1594, molti altri artisti, come Filippino Lippi, hanno raffigurato la vicenda della matrona romana. Similarmente al dipinto di Botticelli, Lippi raffigurò qualche anno prima, tra il 1478 e il 1480 circa, la storia, in questo caso però attraverso due episodi cruciali nella stessa opera invece di tre. A sinistra si può vedere la giovane morente che viene sorretta sull’uscio di casa, mentre al centro della scena la si vede distesa, attorniata da molte persone accorse per il tragico avvenimento, nel momento in cui Bruto, in mezzo alla folla e sotto la colonna su cui si erge la statua di un giovane eroe, incita alla vendetta, alla ribellione e alla cacciata del re. Si tratta di un’opera giovanile di Filippino Lippi, che oggi è conservata alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti, ma che originariamente era parte della decorazione di una camera nuziale in un palazzo fiorentino rinascimentale insieme ad un’altra opera con le Storie du Virginia, custodita attualmente al Louvre di Parigi.
Tra le opere più famose che trattano questo soggetto vi è sicuramente quella di Tiziano conservata al Fitzwilliam Museum di Cambridge. Se nei dipinti citati finora, Botticelli e Filippino Lippi hanno raffigurato l’intera vicenda suddividendo la scena nei due o nei tre episodi principali, Tiziano, in Tarquinio e Lucrezia, rappresenta proprio il momento dello stupro, quando il figlio del re irrompe con violenza nella camera della giovane donna che giaceva nuda nel suo letto, vestita solo dei suoi gioielli. Tarquinio afferra per un braccio Lucrezia mentre con l’altra mano brandisce verso di lei la spada; la donna cerca di difendersi e di allontanare l’uomo spingendolo via con la sola forza di una mano contro il petto di lui. Lo sguardo è spaventato, la bocca semiaperta, le gote arrossate; sul suo volto il terrore di una violenza che tra poco si compirà e la consapevolezza di non riuscire a fermarla. Da dietro gli ampi tendaggi spunta un uomo, forse accorso per vedere cosa stia accadendo o forse a fare da palo a Tarquinio, ma in nessuno dei due casi è citato nel testo di Tito Livio. È comunque una presenza che appare secondaria e che non interviene in alcun modo per impedire il gesto. Realizzato nel 1571 circa, il dipinto rientra stilisticamente nella pittura veneziana cinquecentesca e probabilmente venne commissionata da Filippo II di Spagna per rimanere nella collezione reale spagnola fino al 1813, quando Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, la portò in Francia.
Tanti altri artisti l’hanno invece raffigurata nel momento del suicidio, sola e a seno scoperto, con il pugnale in mano, pronta per trafiggersi a morte, in un atteggiamento a seconda dei casi più impostato o più teatrale: da Lucas Cranach il Vecchio ad Albrecht Dürer, da Artemisia Gentileschi a Guido Reni a Parmigianino, da Guido Cagnacci a Leandro Bassano, da Carlo Maratta a Paolo Veronese.
Vittima innocente e allo stesso tempo artefice di un atto che avrebbe cambiato radicalmente la politica dell’antica Roma, Lucrezia si è impressa nell’immaginario collettivo come incarnazione della virtù coniugale e della purezza morale. Il suo mito ha attraversato i secoli irrompendo nei dipinti di grandi maestri, ciascuno attraverso la propria epoca e sensibilità. Il suo gesto ha generato uno scarto improvviso dal dolore privato alla rivolta; Lucrezia non è rimasta imprigionata nel ruolo della vittima sacrificale, ma si è fatta emblema di un’etica che antepone la verità di sé all’ingiustizia del potere, rifiutandosi di cedere al disonore.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.