C’è un’opera di Canova, in mezzo ai marmi colorati della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi a Roma. Non s’annovera, certo, tra i suoi capolavori, tanto meno s’elenca tra le sue opere più note, e i più neppure ne conoscono l’esistenza. La stele funeraria di Alexandre de Sousa Holstein è frutto d’una produzione che potremmo dire quasi seriale, è uno dei tanti corpi che punteggiano una larghissima costellazione di monumenti che Antonio Canova variava con pochi dettagli: nella basilica dei Santi Apostoli, a poca distanza da Sant’Antonio dei Portoghesi, si vede un’altra stele, quella dell’amico Giovanni Volpato, che si considera il modello per quella di Sousa Holstein. Il figlio del diplomatico portoghese, Pedro de Sousa Holstein, l’aveva vista poco dopo la scomparsa del padre e aveva chiesto a Canova d’eseguirne una simile per il genitore. Sempre con lo stesso schema: la pietas seduta, drappeggiata con un lungo peplo, è seduta su di uno sgabello a piangere il defunto davanti al suo ritratto, un busto appoggiato su di un’alta colonna.
Forse è anche merito di Canova e delle sue opere funerarie se nel primo Ottocento s’era diffusa, per tutta Europa, un’immagine della morte completamente diversa rispetto a quella che avvolgeva la Roma del Seicento. Nella mente di Canova, il monumento funebre è opera fedele alla sua accezione classica ed etimologica di testimonianza che perpetua il ricordo di chi non c’è più, e la meditazione sulla morte diventa memoria laica, affettuosa, privata, diventa momento di raccoglimento in cui prevale un sentimento della scomparsa inteso come, ha scritto Francesco Leone, “senso della corrispondenza di amorosi sensi che lega i familiari rimasti ai loro cari scomparsi, dando sollievo e un senso al dolore”. Canova, con tutta probabilità, aveva ragionato sui Sepolcri di Foscolo, curiosamente pubblicati mentre il veneto stava per finire la stele per il diplomatico, terminata nel 1808 e installata nella chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi molto più tardi, in data 16 novembre 1816. Canova forse aveva potuto meditare a lungo sulla poesia che sconfigge la morte, sull’armonia che “vince di mille secoli il silenzio”. Una riflessione rivolta non tanto a quello che sarà dopo, quanto piuttosto a quello ch’è stato, e a quello che continua a essere per chi è vivo. È qualcosa di completamente diverso rispetto a quel che si vede pochi passi più avanti, nella cappella di San Giovanni Battista, a fianco della grande pala col Battesimo di Cristo di Giacinto Calandrucci, dove il facoltoso profumiere Giovanni Battista Cimini, che aveva costruito le sue fortune sulle forniture d’essenze alla corte pontificia e che aveva ottenuto il giuspatronato della cappella, aveva voluto far sistemare il ritratto suo e quello della moglie Caterina Raimondi, attribuiti a uno scultore carrarese, Andrea Fucigna. La lapide che ricorda la scomparsa di Cimini, morto nel 1682, è una coltre di marmo nero, un velo funereo che reca impressa l’effigie lugubre d’un teschio poggiato su due ossa incrociate, con le orbite rivolte ai nostri occhi, come a ricordarci che quel destino è ineluttabile. Diventeremo come lui.
Non s’avverte però alcuno stridio con la festa di marmi che circonda la lapide di Cimini e quella di sua moglie, sistemata esattamente di fronte. Nel Seicento la morte era vissuta e celebrata anzitutto come un vibrante attimo di passaggio verso la vita eterna, era considerata il momento “dell’assunzione in cielo del miles christianus”, ha scritto Marcello Fagiolo. E l’assunzione andava celebrata in via solenne, c’era quasi da esultare, si pensava alla luce che avrebbe accolto il defunto. Non c’è allora alcuna incoerenza tra quelle lapidi nere e la parata trionfale di marmi della chiesa. Al contrario, la stele di Alexandre de Sousa Holstein s’apre agli occhi del fedele ch’entra in Sant’Antonio dei Portoghesi quasi come un elemento di disturbo. Un barlume candido in mezzo a un tripudio di macchie colorate. Un luccichio di purezza, di biancore, di quiete che interrompe la fantasiosa frenesia d’un architetto che aveva fatto della chiesa nazionale della comunità lusitana a Roma una baldoria di marmi policromi.
Una guida ottocentesca a Roma e ai suoi dintorni, pubblicata nel 1861, si soffermava su Sant’Antonio dei Portoghesi senza troppo indugio, non mancando però di lodarne il suo interno come uno “dei più vaghi e ricchi, per la quantità di marmi di colore che le danno un piacevole e svelto aspetto”, e d’esaltare “l’oro e gli stucchi” che “vi sono profusi senza risparmio”. La chiesa sorge su di uno slargo dove in epoca antica si trovava un convento che ospitava i pellegrini portoghesi di passaggio a Roma. Siamo tra le vene della Roma medievale che cerca d’ammodernarsi, siamo dietro Palazzo Altemps, dietro alla via dei Coronari, dietro a Piazza Navona, non lontani dalla via del Governo Vecchio, la “via Papalis” dove in antico passavano i cortei dei pontefici che s’insediavano sul soglio di Pietro, e dove pertanto sorgevano i palazzi della nobiltà romana del Rinascimento, in mezzo a quella vasta rete di edifici di culto che tutte le comunità nazionali di Roma dedicavano ai loro santi. Da qui, in cinque minuti di passeggiata, si può arrivare a San Luigi dei Francesi, a Santa Maria in Monserrato, a San Girolamo degli Schiavoni, a pressoché tutte le principali chiese nazionali della città. Quella dei portoghesi è una delle più ricche, malgrado le dimensioni contenute. Era stata fondata nel 1440, con autorizzazione di papa Paolo II, dal cardinale Antão Martins de Chaves, vescovo di Porto, e poi, nel Seicento, la comunità portoghese aveva deciso che quell’edificio era troppo piccolo e troppo poco sontuoso per trasmettere in Roma una degna immagine del regno del Portogallo: l’ambasciatore aveva pertanto dato mandato a Martino Longhi il Giovane di rifarla praticamente daccapo, a spese della corona portoghese.
Sarebbe difficile comprendere lo sfavillio dei marmi di Sant’Antonio dei Portoghesi senza pensare a quella Roma internazionale che ospitava folte comunità d’immigrati stranieri dediti alle più varie attività, a quella Roma “Gran Teatro del Mondo” capace d’attirare gente da ogni parte del pianeta che andava a insediarsi vicino alle ambasciate, ai palazzi, ai centri dove i diplomatici, gli agenti, i cardinali, i dignitarî dei loro paesi esercitavano il proprio potere. E le chiese nazionali erano forse l’arma più efficace che le potenze straniere potevano dispiegare in quella “simbolica guerra”, come l’ha chiamata Claudio Strinati, “fatta di giochi pirotecnici, immagini e macchine festive” nella quale tutte le comunità nazionali della Roma cinque-seicentesca erano impegnate. Le chiese, allora, non erano solo riflesso della gloria di Dio, non erano solo gli edifici di culto che dovevano suscitare meraviglia tra i fedeli: erano, forse davanti a tutto, testimoni della ricchezza, del prestigio, della devozione delle loro comunità. A Martino Longhi il Giovane, dunque, il compito di progettare una chiesa che fosse bella più di San Luigi dei Francesi, più di San Giacomo degli Spagnoli, più di tutte le altre chiese nazionali. I lavori durarono quattordici anni, dal 1624 al 1638, ma altri cantieri si sarebbero trascinati anche dopo la scomparsa di Longhi, tant’è che la cupola sarebbe stata terminata decennî più tardi da Carlo Rainaldi, e l’abside trovò una forma compiuta sotto la direzione di Cristoforo Schor quasi alla fine del secolo.
Oggi, chi entra in Sant’Antonio dei Portoghesi vien quasi sopraffatto da quella straripante sinfonia di marmi d’ogni colore. Nella cappella della Natività, bande alternate di serpentino e rosso di Francia incorniciano le tre tele settecentesche di Antonio Concioli, con la Natività sovrastata da un timpano spezzato in giallo di Siena, invaso da una cascata d’angeli e putti che si riversano sulla trabeazione. Nella cappella di Santa Caterina, la stele di Canova si staglia su di un sorprendente fondo in nero antico, e guarda dirimpetto la stele funeraria dell’ambasciatore João Pedro Migueis de Carvalho, datata 1853, in alabastro orientale lavorato a specchiatura e sistemata su di una base di giallo antico. I marmi nella cappella di sant’Antonio Abate esaltano il fondo oro della pala, ch’è forse il dipinto più prezioso della chiesa, la Madonna col Bambino e i santi Francesco d’Assisi e Antonio da Padova di Antoniazzo Romano, il più grande artista romano del Rinascimento, che oltretutto è piuttosto raro da vedere nelle chiese della città: solo la possibilità d’ammirare questo lavoro (che in origine non si trovava qui: viene da un’altra chiesa di proprietà portoghese, Santa Maria della Neve a Palazzolo, sui Colli Albani) varrebbe da sé una visita alla chiesa. Attorno al dipinto di Antoniazzo, oltre le due colonne in nero venato, è un frastuono di alabastri, di giallo di Siena che imperversa su tutte le pareti, di rosso di Francia a separare gli elementi, con spruzzate di candido statuario di Carrara alle basi delle colonne, nei capitelli, nella balaustra.
E poi l’altare maggiore, dove la pala, la Vergine che porge il Bambino a sant’Antonio, opera di Giacinto Calandrucci del 1692, è levata in trionfo dalla rutilante decorazione marmorea progettata dall’architetto Francesco Navone e messa in opera dallo scalpellino Francesco Ferrari che finì il lavoro nel 1774, in tempo per il giubileo dell’anno dopo. Qui, grandi lesene in diaspro di Sicilia, lavorato a macchia quadrupla specchiata, conducono l’occhio verso i riquadri di bardiglio, giallo antico e fior di pesco che scortano sui due lati l’altare maggiore, con le sue colonne di rosso di Francia, i plinti coi quadri d’alabastro, il timpano spezzato con gli angeli che reggono la croce dorata, i raggi di luce che s’irradiano verso la volta in stucco dipinto e dorato, opera di Pompeo Gentili.
E anche in mezzo a questa esibizione, a quest’apoteosi di colori, a questo giubilo caotico e ridondante, abbondano le immagini di morte, come in tutte le chiese romane del Seicento. Quasi tutte le cappelle serbano il ricordo d’un defunto, una memoria funebre, una lastra sul pavimento, e c’è persino un ritratto, quello dell’economista navarro Martín de Azpilcueta, che sbigottisce per il suo ostentato realismo. E poi c’è un monumento che pare quasi fermarsi a mezza via tra l’idea di morte secentesca e quello che sarà dopo. Nel 1750, era venuto a mancare l’ambasciatore portoghese presso la Santa Sede, Manuel Pereira Sampaio, che aveva ottenuto la titolarità d’una cappella in Sant’Antonio dei Portoghesi: aveva deciso di dedicarla all’Immacolata Concezione e farla riprogettare affidando l’incarico a Luigi Vanvitelli. Dunque qui dentro, tra i tanti, c’è anche l’architetto della Reggia di Caserta.
La costruzione fu un poco tribolata, ma la cappella era del resto di concezione nuova, più ordinata, più rigorosa, pur senza rinunciare al solito sfoggio di marmi, alle colonne scanalate in fior di pesco con tanto di capitelli dorati, alla mensa in serpentino, ai plinti in giallo di Francia: per l’ambasciatore venne così realizzato un monumento diviso sui due lati della cappella, a fianco della pala con l’Immacolata Concezione dipinta da Giacomo Zoboli. Era opera d’uno dei maggiori scultori della Roma del Settecento, Filippo Della Valle, che aveva immaginato per Pereira Sampaio un monumento in grado di celebrarlo in due modi. E che sarebbe stato lodato come uno dei migliori cenotafi del suo tempo. Da un lato, sopra la sua urna in marmo nero, la celebrazione della persona: il ritratto di Manuel Pereira Sampaio racchiuso entro un grosso medaglione, la figura della virtù alata che lo sorregge, i libri a dar conto dei suoi interessi. Dall’altro, la celebrazione del professionista: ecco allora la fama che fa squillare la sua tromba portando in gloria l’impresa dell’ambasciatore, un caduceo, simbolo legato alla diplomazia in quanto attributo di Mercurio messaggero degli dèi, ch’è tenuto stretto da due mani, col motto “Fide et consilio”. E basta. Non ci sono immagini macabre di morte. Non ci sono lunghi necrologi. Non c’è uno slancio verso l’aldilà. C’è solo il ricordo d’un uomo che la fama s’industrierà per far arrivare ovunque, nel mondo terreno. C’è un’idea della morte che sta assumendo contorni diversi, contorni moderni. C’è una sensibilità nuova, quella stessa sensibilità che condurrà a Canova, a Foscolo. A quel bagliore candido in mezzo al corteo chiassoso dei colori barocchi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).