“L'arte è l'ultimo avamposto del dialogo”: i curatori della Biennale di Belgrado sul caso Halilaj


Ilaria Marotta e Andrea Baccin, curatori della Biennale di Belgrado 2020, intervengono sul caso Petrit Halilaj, l'artista kosovaro ritiratosi dall'esposizione perché non è stata riconosciuta la sua nazionalità. Le loro note sulla vicenda in una lunga lettera che pubblichiamo integralmente.

I curatori dell’edizione 2020 della Biennale di Belgrado, gli italiani Ilaria Marotta e Andrea Baccin, intervengono sulla vicenda Petrit Halilaj: come raccontavamo su queste pagine la scorsa settimana, l’artista kosovaro classe 1986, inizialmente invitato a prender parte al “Salone di Ottobre” (questo il nome ufficiale dell’esposizione serba), che quest’anno arriva all’edizione numero 58, aveva deciso di ritirarsi in quanto impossibilitato, per ragioni politiche, a partecipare vedendo riconosciuta la propria nazionalità (com’è noto, la Serbia è uno dei paesi che, nel contesto delle relazioni internazionali, non riconoscono l’indipendenza del Kosovo). Halilaj aveva espresso le sue motivazioni in una lunga lettera, raccontando come si sono svolti i fatti, sottolineando che quella che emergeva dalle sue parole era ovviamente la sua versione dei fatti, e domandandosi se le istituzioni artistiche siano ancora in grado di sognare, dal momento che The Dreamers è il tema di questa Biennale di Belgrado (che peraltro è stata rinviata al 2021 a causa del perdurare dell’emergenza sanitaria Covid-19).

Halilaj avrebbe dovuto presentare un video intitolato Shkrepëtima (Flash of Light), che racconta della rinascita della Casa della Cultura di Runik, in Kosovo, dopo i disastri della guerra, attraverso una performance teatrale tenutasi proprio a Runik, tra le rovine della Casa: la concretizzazione di un sogno che, secondo l’artista, era molto calzante col tema della rassegna, in quanto, ha scritto Halilaj stesso, “dedicata ai sogni dei cittadini di Runik”. “In un parallelismo tra dimensione artistica e mondo reale”, si legge invece nel testo dei due curatori nel catalogo della Biennale di Belgrado, “l’opera Shkrepëtima (2018) di Petrit Halilaj diviene il palco di una performance concertata attorno alla figura di un sognatore, attorno al quale si muove un’orchestrazione onirica, rituale e propiziatoria, di rinascita e di resurrezione della casa della cultura della città di Runik in Kosovo, riportata quindi alle sue originarie funzioni. È un sogno nel sogno. L’opera di Petrit Halilaj, ritirata dalla mostra, racconta di un sogno ancora non realizzato, il pieno riconoscimento della propria storia, della propria identità politica e culturale”. La decisione di ritirarsi dalla mostra è stata presa dopo un lungo dialogo con l’organizzazione del Salone e con gli stessi Marotta e Baccin, che nelle scorse ore hanno pubblicato a loro volta una lettera in inglese sulla home page della rivista CURA., di cui i due sono direttori. Pubblichiamo di seguito la versione integrale in italiano della missiva.

Ci sono due termini che ricorrono nelle nostre menti in questi giorni e in queste ultime settimane: real / presence.

Non ce ne vorranno Biljana Tomic e Dobrila Denegri se ci appropriamo alla lontana del titolo della manifestazione artistica e culturale,
Real Presence, da loro inaugurata a inizio degli anni Duemila e che dopo la lunga e dolorosa Guerra dei Balcani e i bombardamenti del 1999 ha segnato la rinascita della vita culturale della città di Belgrado. Quando Real Presence aprì le porte nel 2001 Harald Szeemann, invitato dalle due curatrici, diceva: “Ricordo che in occasione de La Biennale di Venezia nel 1999, i bombardamenti di Belgrado cessarono la sera prima dell’opening. Eravamo tutti sollevati. Ora assistendo all’apertura di Real Presence – altra fortunata iniziativa di Biljana e della sua meravigliosa figlia Dobrila – ho visto cosa le stupide bombe intelligenti avevano fatto alla città nel 1999. Ciò che Biljana e Dobrila volevano realizzare non era aggiungere un ennesimo evento alla già sovraffollata agenda dell’arte, ma regalare un pezzo di vita alla capitale di una nazione in cambiamento. È stato fantastico vedere le centinaia di studenti e di giovani artisti da tutto il mondo adunarsi attorno al Museo di Tito, vicino al suo mausoleo, con le loro borse e i loro zaini, pronti dopo un primo incontro a occupare i diversi luoghi della città, un terreno ideale per i loro lavori, le loro azioni, performance ed eventi. Ero fortunato a trovarmi lì. La Biennale più vecchia al mondo, La Biennale di Venezia, è oggi non solo una mostra d’arte ma l’occasione e la possibilità per molte nazioni vecchie e nuove di mostrare il loro interesse per una Europa complessa e stratificata. Ma la Biennale non può solo passivamente attendere gli altri. Deve andare dove sono le Presenze Reali ed essere parte delle loro energie. Grazie Biljana e Dobrila per ciò che avete offerto a questi 300 giovani artisti e per aver mostrato che Belgrado è viva”. (testimonianza tratta dal sito di Real Presence http://www.ica-realpresence.org/texts.html)

Vent’anni dopo queste parole, la rinuncia di Petrit Halilaj alla propria partecipazione al
58th October Salon I Belgrade Biennale 2020 è un fatto grave e radicale, e ancor più rappresenta un dispiacere umano e professionale per noi che abbiamo tentato nei mesi passati di essere mediatori culturali tra l’artista e il Cultural Center di Belgrado.

Petrit Halilaj è un artista che abbiamo sempre stimato, e di cui abbiamo sempre apprezzato il rigore e insieme quella vena di leggerezza e di poesia, che è solo dei grandi artisti. Pubblicato su uno dei primi numeri della rivista nel 2009, lo abbiamo quindi conosciuto l’anno successivo, quando un collezionista di Roma, che attraverso la rivista aveva intercettato e acquisito il suo lavoro, ce lo presentò a una cena a Basilea.

La voce di Petrit Halilaj nella mostra, o la sua
real presence, aveva e avrebbe avuto un peso importante, perché proprio di un sognatore o di sognatori parla tutta la sua opera, e proprio un dreamer è il personaggio centrale del lavoro Shkrepëtima che lo avrebbe rappresentato in tale contesto.

Le affinità avvisate non erano poche. Non solo per il tema che la mostra intende esplorare, ma perché la Casa della Cultura di Runik, riattivata e riportata in funzione grazie al lavoro di Petrit nell’ambito di un’opera totale, è paragonabile per molti aspetti al centro nevralgico della comunità rappresentata dal Cultural Center di Belgrado, che è il cuore della vita culturale della città serba.

Il sognatore di Petrit ha rappresentato nella nostra idea un po’ la figura emblematica del rovesciamento tra sogno e realtà, tra l’arte e il suo potere trasformativo, un cittadino ad honorem di quel metaforico spazio di libertà che solo l’arte sa essere. In quanto curatori del
58th October Salon I Belgrade Biennale 2020 – che già posticipata una volta è ora stata rimandata al 2021, a causa dell’emergenza sanitaria in Serbia – siamo stati invitati dal Board dell’October Salon a concepire una mostra che sulla scia della lunga tradizione di questa manifestazione potesse rappresentare la scena artistica della Serbia in un dialogo aperto con un contesto internazionale. Per mesi abbiamo lavorato al fianco di un team professionale, collaborativo, curioso e aperto, all’insegna di una fiducia reciproca, di interesse per tutti gli artisti invitati, prima condivisi con loro, attraverso cui offrire uno sguardo quanto più ampio e complesso della contemporaneità, una pluralità di voci e di sguardi rispetto alla complessità dei tempi in cui viviamo.

Questo ha incluso artisti da ogni parte del mondo, molti dell’area dei Balcani, giovani artisti serbi, cui viene data una prima platea internazionale, altri artisti provenienti o originari di Bosnia, Croazia, Kosovo, Albania, consapevoli di trovarci in un’area geopolitica che nell’ultimo secolo è stata epicentro della storia europea e che ancora oggi convive con le proprie contraddizioni e lotta per sanare e metabolizzare ferite ancora aperte.

Ci piacerebbe poter dire che i fatti raccontati non siano reali, ma sono fatti con i quali noi tutti abbiamo dovuto fare i conti e rispetto ai quali, da persone libere, prendere decisioni. Elezioni politiche svolte nelle stesse settimane dei fatti narrati, proteste cittadine e una recrudescenza dell’emergenza sanitaria hanno lasciato poco spazio agli ultimi tentativi di mediazione.

Mai come oggi abbiamo avvertito quanto la libertà sia un traguardo da difendere. Una storia travagliata e recentissima ne è testimone, e ancor più per questo avremmo immaginato con Petrit un’azione più incisiva, costruttiva, reale.

In una città come Belgrado, ancora afflitta da una pesante eredità politica e culturale, l’opportunità di una presentazione del lavoro di Petrit Halilaj avrebbe avuto un senso quasi rivoluzionario, e certamente liberatorio, per una città in cui oggi sta montando uno spirito di libertà, di emancipazione, e di verità, che viene rivendicata a più livelli, per sdoganarsi dalla storia, pur senza rinnegarla, perché le colpe dei padri non debbano continuare a ricadere sui figli, generazione dopo generazione. Siamo infatti convinti che la storia abbia bisogno di un momento di svolta, di una seconda opportunità e in quanto curatori abbiamo tentato di offrire tale opportunità a entrambe le parti, attraverso l’arte, le opere, e la mostra stessa. È stato il tentativo di un nuovo dialogo, dove non solo l’opera di Petrit avrebbe avuto un impatto particolarmente significativo, ma altresì il lavoro degli altri artisti invitati, per la forza visionaria del loro pensiero, in un mondo in rapido cambiamento.

Naturalmente portare il Kosovo nel cuore di una città che politicamente non riconosce il Kosovo come nazione indipendente avrebbe creato quello spazio di espressione, dibattito e confronto che le mostre come questa devono essere in grado di offrire, creando concretamente e in maniera costruttiva quel ponte di cui a lungo abbiamo parlato. Così come peraltro Petrit ha fatto di recente in una bellissima mostra inaugurata al Museo Reina Sofía di Madrid, dove un’altra istituzione è riuscita a ottenere l’inserimento del suo Paese di origine accanto al suo nome, malgrado anche la Spagna non riconosca il Kosovo come stato indipendente.

Se persino la diplomazia internazionale non riesce a ottenere un dialogo tra Serbia e Kosovo (si vedano gli ultimi incontri falliti di Bruxelles e di Washington), noi crediamo, e ne siamo convinti, che l’ultimo avamposto sia proprio l’arte.

Come curatori della mostra, abbiamo tentato di mediare tra quello che secondo noi era un evidente diritto di Petrit, e il rispetto verso l’istituzione che ci ha invitati, nonché rispettosi di altri punti di vista, e di altre prospettive. Petrit ha riflettuto molto prima di prendere la sua decisione, ma ha pensato di non avere lo spazio opportuno per presentare la sua opera, in risposta a ciò che era avvenuto e, non certo di come avrebbe potuto rispondere con forza, come un uccello libero ha deciso di volare via.

Il team curatoriale del Cultural Center di Belgrado non ha mai censurato il lavoro di Petrit Halilaj, non avrebbe mai permesso che vi fosse una ‘lettura sbagliata’ di
Shkrepëtima, né una ‘strumentalizzazione’ dell’opera. Ha piuttosto insistito perché Petrit Halilaj portasse avanti la propria partecipazione, e ancora oggi rinnova a Petrit il proprio invito. Il Cultural Center of Belgrade è un’organizzazione che, con tutte le difficoltà del caso, ha tentato una mediazione, non riuscita ma tentata. Il progresso è fatto anche di tentativi non riusciti.

Anche la lettera di Petrit intendeva aprire un dialogo. Questo è stato dunque il suo tentativo, che speriamo possa offrire a tutti noi una importante opportunità di costruire qualcosa di concreto, malgrado il rischio di andare incontro a inevitabili reazioni da ogni parte, acuire rancore e disappunto, innalzare barriere che sarà difficile abbattere per le persone coinvolte da un lato e dall’altro. Siamo infatti convinti che il suo tentativo avrebbe dovuto essere rivolto a un’azione concreta nel campo dell’arte, possibilità che gli è stata offerta in tutti i modi, cercando il proprio pubblico nella nuova generazione serba, che rappresenta forse l’unico interlocutore significativo in questo contesto, che avrebbe davvero meritato di potersi confrontare con nuove voci e prospettive.

Perché se crediamo al potere trasformativo dell’arte, è qui che il lavoro di Petrit Halilaj avrebbe avuto veramente un senso. Sarebbe stato importante altresì perché in una città come Belgrado l’arte non è ciò che è diventata nei paesi in cui viviamo – socialità, status-symbol, potere, mercato – ma è un baluardo di libertà e di confronto attraverso cui favorire un dibattito che vada oltre la politica, in quell’ambito di espressione che l’arte a tutti i livelli rappresenta. Ed è proprio in tale contesto che il Cultural Center di Belgrado rappresenta un avamposto di resistenza culturale, producendo quattro mostre al mese nelle quattro gallerie del centro, e animando il cuore vitale della comunità di Belgrado, con ampia e sentita partecipazione di pubblico.

Non pensiamo che il Cultural Center di Belgrado possa essere definita un’istituzione “che non permette agli artisti di sognare.” Gli artisti sognano a prescindere dalle istituzioni. Hanno la meravigliosa capacità di farlo e di porsi anche contro le istituzioni stesse.

È vero la Serbia non riconosce il Kosovo come nazione indipendente, insieme ad altri 96 paesi dei 193 membri delle Nazione Unite, tra queste Spagna, Grecia, Romania... Ma se non pensiamo che l’arte possa andare oltre i limiti geografici, politici, di genere, di razza e di religione allora tutti dovremmo interrogarci sul nostro fallimento. Che non è un fallimento personale o professionale, non è il fallimento di una mostra, di un’istituzione, o di un caso specifico ma è un fallimento strutturale.

L’omissione dei paesi d’origine, sebbene abbia tolto qualcosa alla complessità delle voci in campo, è stata una decisione discussa e condivisa, non successiva bensì precedente il ritiro di Petrit Halilaj e non legata alla sua assenza ma alla volontà di una sua
real presence, tanto da essere mantenuta anche dopo, a sottolineare una traccia, un passaggio, un possibile dialogo futuro, in linea con l’idea della mostra dove i dreamers diventano gli abitanti della “zona di passaggio” che Walter Benjamin definiva “soglia”, distinguendola dall’idea di “confine”.

Much love,
Ilaria, Andrea

Nell’immagine, Petrit Halilaj, Shkrepëtima (2018; fotogramma da video, video mono canale singolo, sonoro, durata 37’10”). Prodotto da Fondazione Merz e Hajde! Foundation. Courtesy l’artista; Fondazione Merz, Torino; ChertLüdde, Berlino; e kamel mennour, Parigi / Londra.

“L'arte è l'ultimo avamposto del dialogo”: i curatori della Biennale di Belgrado sul caso Halilaj
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