Appena saliti al Belvedere di Albugnano, borgo di cinquecento abitanti annunciato dalle vigne che, finito l’hinterland di Torino, salgono da Chieri fino ai poggi calvi del Basso Monferrato, un cartello spiega che questa terrazza era uno dei luoghi preferiti di don Bosco. Ci veniva a passeggiare e alle volte teneva lezione all’ombra dell’olmo secolare, oggi seccato, ma che ha campato per due secoli e mezzo, dagli anni Venti del Settecento fino al 1981. La tradizione del paese racconta che l’incavo dell’albero accolse, in tempi più antichi, “la bottega ed il laboratorio di un povero ciabattino”, si legge in un bollettino ottocentesco, “che colà si riparava nei giorni buoni d’estate e d’autunno”, ed era “là quel valentuomo tra le sue ciabatte a lavorare”. Da qui si vede tutta la valle ai piedi del borgo, tra l’autunno inoltrato e l’inverno un arazzo d’ocra, di vermiglione e di tutti i toni del verde, che diventa un manto di felce quando, passate le quattro del pomeriggio, il sole comincia a calare. L’abbazia di Santa Maria di Vezzolano è giù, tra i boschi, e si racconta fosse una delle gite preferite di don Giovanni Bosco, e pare che anche lui si divertisse a raccontare ai suoi allievi la leggenda di Carlo Magno che avrebbe fondato il complesso monastico nel 773, dopo esser scampato a qualche non meglio precisato pericolo: l’abbazia sarebbe stata il suo modo di ringraziare la Madonna d’averlo salvato.
La realtà è però un po’ meno romantica, e basta veder la chiesa da fuori per capire che siamo al cospetto d’un edificio molto più tardo. Certo, potrebbe esser stato ricostruito: nel primo documento noto sull’abbazia, un’investitura del 27 febbraio 1095 di cui s’è perso l’originale (ne conosciamo i contenuti da trascrizioni settecentesche, ritenute affidabili), si parla di due religiosi, Teodolo ed Egidio, ai quali alcuni nobili locali donano una chiesa dedicata a Santa Maria e i beni in essa contenuti affinché fondino una comunità religiosa. Di quell’edificio preesistente però non è rimasto niente, e fino a che non si troverà qualche documento che possa chiarire come sia sorta questa chiesa, sarà molto difficile avanzare ipotesi attendibili sulla sua fondazione. Quel che è sicuro, è che le forme dell’edificio suggeriscono una ricostruzione totale cominciata verso la metà del XII secolo. La chiesa viene incontro a chi la vuol vedere quando si scende lungo il prato che digrada dalla collina soprastante, quella che poi si risale per tornare ad Albugnano: arrivando dal paese, Santa Maria di Vezzolano dà le spalle a chi arriva, lascia che s’ammirino prima la grande abside semicircolare, poi il robusto campanile, che nella parte alta è stato ricostruito, quindi la fiancata con quelle gallerie di monofore e archetti pensili che suggeriscono l’idea d’un cantiere andato avanti piuttosto per le lunghe, dacché l’uso degli archi a sesto acuto intrecciati diventa d’uso comune nel romanico lombardo verso la fine del XII secolo, e al contempo anche l’eventualità d’una progettazione seguita, almeno a partire da un certo punto della storia in avanti, da un architetto aggiornato e financo raffinato, e basta veder bene la facciata per rendersi conto dell’ordine che l’ideatore di questo edificio aveva inteso dare al prospetto della chiesa. Una grande facciata tripartita, coi tre corpi che corrispondono alle navate della chiesa (anche se la terza non c’è più, chiusa dal chiostro), con le fasce d’arenaria che si alternano a quelle di laterizio. Come in tutta la chiesa, sia dentro che fuori, ma in facciata con un’intenzione geometrica precisa e ordinata. Al centro, un grande, severo portale romanico in pietra, con massicce modanature che accompagnano il visitatore all’entrata, sovrastata dal rilievo con la Madonna in trono in mezzo a due angeli, lo Spirito Santo in forma di colomba che si rivolge direttamente a lei parlandole all’orecchio. Sopra al portale, tre ordini di loggiati ciechi (il secondo però solo parzialmente: al centro s’apre una splendida bifora con, al centro, la statua di Cristo benedicente e ai lati san Michele e san Raffaele, intenti a calpestare un drago e un diavolo, simboli del male che deve rimaner fuori dalla chiesa), e a coronare il tutto, sopra alla bifora, le statue di due angeli portaceri, intervallate da tre grossi piatti di ceramica di produzione araba (era in uso, al tempo, decorare le facciate delle chiese anche con l’inserimento di questi grandi, raffinati bacini decorati con motivi geometrici), due serafini le cui teste non sono però sopravvissute, e nella posizione più alta l’immagine, rigida e frontale, del Padreterno, al centro esatto della facciata.
Quando si entra, non si ha quell’impressione di rigore, di severità, di austerità, e alle volte financo di cupezza che si percepisce di solito ogni volta che s’entra in un edificio romanico, di quelli più antichi, di più stretta osservanza. In parte perché, alzando lo sguardo, le alte volte a crociera coi costoloni bicolori ci rinviano a una diversa fase costruttiva, coi caratteri del gotico di queste zone. In parte perché lo spettacolare pontile che ostruisce la vista dell’altare e che attraversa tutta la larghezza della navata principale muove tutti gli sguardi a stupore: è rarissimo vedere dentro una chiesa italiana costruzioni simili, uno jubé che doveva separare lo spazio dei fedeli, che stavano al di qua del pontile, da quello riservato ai monaci. Rarissimo, perché dopo le riforme liturgiche introdotte dal Concilio di Trento, queste strutture cominciarono a essere smontate ovunque in Italia: la Chiesa riformata voleva che fosse visibile a tutti il rito compiuto dall’officiante sull’altare, la celebrazione del mistero. Quello di Santa Maria di Vezzolano è scampato, non si sa perché, alla Controriforma. Si presenta come una voluminosa loggia messa di traverso, quasi fosse un corpo estraneo, un alieno interamente scolpito in arenaria monferrina, atterrato in mezzo alla chiesa, poggiato sopra un basamento anch’esso in arenaria, ormai consunta: cinque archi a sesto acuto sono sormontati da due fasce scolpite ad altorilievo, una con la genealogia di Cristo (i singoli personaggi, trentacinque quelli scolpiti, ma ce ne sono altri cinque dipinti sui pilastri laterali, tengono in mano dei cartigli col loro nome, impossibile dunque confonderli), e quella sopra con la scena della Dormitio Virginis, a sinistra, seguita dall’incoronazione della Vergine a opera di Cristo e dall’immagine della Madonna che si risveglia, chiamata, spiega la scritta in latino, “da colui che tu generasti”. L’iscrizione, oltre a riportare la data e il nome del prevosto sotto il quale venne completato il lavoro (“Anno ab incarnatione Domini MCLXXVIIII, regnante Frederico Imperatore, completum est opus istud sub preposito Vidone”, ovvero il 1189, durante il regno di Federico II, sotto il prevosto Guido), precisa il soggetto e chiarisce il concetto teologico che governa l’intero apparato decorativo: gli antenati di Cristo portarono al mondo Maria, che senza seme umano generò “veram Sophiam”, la vera Sapienza, ovvero Cristo che l’avrebbe poi chiamata con sé al di sopra degli astri: la Vergine è dunque esaltata come figura di mediazione tra gli antenati e Cristo stesso, ed è partecipe della sua natura tanto umana quanto divina.
La rarità dello jubé di Vezzolano sorprende non soltanto perché qui, in questa chiesa, s’è conservato un elemento che, dopo il Concilio di Trento, di solito veniva rimosso, ma anche perché è rimasto quasi intatto, si son conservate persino le cromie originali delle figure. Non è esattamente come lo si vedeva nel 1189, perché gli evidenti adattamenti dei due archi alle estremità e il fatto che cinque personaggi siano dipinti sui pilastri suggerisce l’ipotesi che, a un certo punto della storia, il pontile di Vezzolano sia stato leggermente mutilato sui lati, non sappiamo perché, e neppure quando, ma è comunque un miracolo che un’opera del genere sia arrivata pressoché intatta. Anche perché Vezzolano conobbe ulteriori modifiche nei secoli: si passa il pontile, e nella navata centrale si vedono due iscrizioni funerarie, in un latino sgrammaticato e farcito di piemontesismi che ricalcano le pronunce dialettali, che accompagnano due sepolture, una del 1558 e una del 1520, una d’un certo Tommaso Grisella, appartenente a una nobile famiglia locale, e l’altra di un Ottaviano della Porta, originario di Novara. Evidentemente per qualche tempo il suolo della chiesa ospitò delle inumazioni: queste sono le uniche due attestazioni superstiti, le altre sono probabilmente andate perse perché negli anni Sessanta del Settecento la chiesa avrebbe conosciuto ulteriori interventi di ristrutturazione.
Hanno conservato i loro colori anche i due bassorilievi, un Angelo annunciante e una Vergine annunciata, che ornano l’arco della monofora centrale dell’abside, che si sviluppa in un grande catino a fasce concentriche di cotto e d’arenaria, materiali resi ancor più vivi e ancor più ipnotici dalla pittura rossa e bianca stesa per esaltarne il colore: al centro, il grande retablo in terracotta dipinta di fine Quattrocento, d’autore ancora sconosciuto, in cui s’è voluto identificare l’omaggio di Carlo VIII, re di Francia sceso in Italia nel 1494 e poi ricacciato nelle sue terre, alla Vergine. Il sovrano francese, che soggiornò tra Asti e Chieri durante la sua discesa del 1494, è stato riconosciuto in virtù del collare dell’ordine di San Michele, istituito da suo padre, Luigi XI, che esibisce sotto al mantello decorato coi gigli di Francia, e nella scena è introdotto alla Vergine, accompagnata nello scomparto destro da sant’Agostino (i monaci di Vezzolano seguivano la regola agostiniana), da un santo apostolo, non sappiamo bene quale: verosimilmente si tratta d’un dono che la comunità locale volle fare al re in occasione d’una sua visita a Vezzolano. Giovanni Romano, storico dell’arte ch’è stato tra i massimi esperti del Rinascimento lombardo e piemontese, aveva definito questo trittico in terracotta un “simpatico vertice della plastica piemontese non infeudata alla Lombardia”: meno simpatica e più fiammeggiante è invece l’elaboratissima cornice, spettacolare coronamento che ha pochi altri eguali in zona.
Uscendo dalla chiesa e spostandosi nel chiostro, si posson perdere delle mezz’ore a guardare gli affreschi che, seppur lacunosi, offrono una testimonianza preziosa non soltanto della cultura pittorica piemontese del Trecento, soprattutto lungo le cappelle poste sul lato del chiostro che confina con la chiesa, lungo quel braccio che occupa lo spazio originariamente destinato alla terza navata della chiesa. Dati i temi degli affreschi, è probabile che quest’area fosse stata destinata ad accogliere le tombe delle famiglie che avevano scelto Santa Maria di Vezzolano come sede dei loro sepolcri: compare, e per ben due volte, caso unico a memoria di chi scrive, il tema dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti, di cui si rammenta un esempio altissimo, quello di Buonamico Buffalmacco nel Camposanto monumentale di Pisa, dove l’episodio annuncia l’inizio del Trionfo della morte. Nessuno dei due affreschi si scosta dalla raffigurazione tipica della scena (a meno di non considerare, nell’affresco meglio preservato, la figura del monaco che fa da mediatore, da guida, da ulteriore ammonitore): tre cavalieri, a passeggio per la campagna, s’imbattono in tre tombe scoperchiate, dove vedono tre cadaveri, uno d’una persona morto da poco, il secondo in avanzato stato di decomposizione e il terzo ormai ridotto a scheletro, che ricordano ai tre giovani, di solito riccamente vestiti sui loro cavalli elegantemente bardati (e in uno di questi due affreschi, quello peggio conservato, accompagnati anche da costosi falconi da caccia), che la vita è come un soffio. Nell’affresco più frammentario, sopra al quale si vede peraltro il lacerto d’una Crocifissione, dei morti si vede solo l’osso d’uno scheletro, ma si distinguono bene le tracce del cartiglio che ammonisce i giovani a cavallo, vistosamente spaventati: oggi ne vediamo soltanto la parte finale, ma la scritta intera ci è riferita dagli storici dell’Ottocento, che l’annotarono prima che l’affresco subisse ulteriori danni (“Pensate quod estis quod sumus hoc eritis quod minime vitare potestis”, che grosso modo potremmo tradurre con “Pensate a ciò che siete, noi siamo quello che voi sarete, e non potete farci niente”). Nella cappella meglio conservata, sopra alla scena dell’incontro, ecco invece un’Adorazione dei Magi e, ancor più sopra, il Padreterno in una mandorla accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti, e sulla sommità, nella cuspide, un san Gregorio magno in cattedra, con il trono dipinto secondo uno scorcio prospettico ancora intuitivo ma di vigorosa efficacia, unico superstite d’un insieme di dottori della Chiesa che dovevano stargli a fianco. Gli stemmi lungo la cappella consentono di far risalire la committenza alla famiglia Rivalba, che per lungo tempo resse, con la sua signoria, la vicina cittadina di Castelnuovo d’Asti, mentre i caratteri formali hanno portato gli studiosi ad assegnar le scene all’ancora anonimo Maestro di Montiglio, chiamato così in ragione della sua opera eponima, gli affreschi che adornano la cappella del castello di Montiglio, a poca distanza da qua. Le studiose Carla Travi e Maria Grazia Recanati hanno sottolineato quel “persistente sapore oltremontano” che s’avverte “nel profilo morbidamente frastagliato della veste di Maria nell’Adorazione dei Magi della tomba Rivalba, nella complessità del panneggio appuntito nel dolce angelo del Tetramorfo che attornia il Cristo in mandorla sovrastante, o infine nell’abbondanza dell’argento e dell’oro, completamente persi, che ancora si indovinano nelle vesti, nei paramenti dei cavalli, nelle armi (la scena straordinaria dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti [...] sul lato contiguo del chiostro)”. Nelle tre arcate successive, altri stemmi avvertono che stiamo entrando nell’area fatta decorare dalla famiglia De Radicata: un san Pietro con un reliquiario che vien presentato da un angelo alla Vergine, e sopra l’Agnello di Dio con gli angeli, e poi ancora un Cristo pantocratore pesantemente danneggiato, un’altra Madonna col Bambino in mezzo a san Pietro e a san Giovanni Battista, che presenta alla Vergine un devoto con indosso un’armatura in grado di consentire una datazione dell’opera, per via della sua foggia, al primo Trecento.
Non sappiamo bene a quali usi fossero destinate le sale da cui ancor oggi s’accede percorrendo il chiostro, ma possiamo arrivarci per deduzione. Nella sala capitolare e in quella che doveva essere la foresteria oggi sono allestite piccole mostre che spiegano il ruolo di Santa Maria di Vezzolano e la inseriscono nel contesto d’una vasta costellazione di pieve, chiesette, cappelle romaniche sparse per tutto l’Astigiano. Nel probabile refettorio monastico sono esposte le copie delle cosiddette “tavole di Vezzolano”, i dipinti di Antoine de Lohry e della sua scuola un tempo custodite nell’abbazia, e poi rimosse negli anni Cinquanta per ragioni di conservazione (oggi sono nella disponibilità della Direzione Regionale Musei del Ministero della Cultura, in attesa che, dopo il restauro concluso nel 2022, si trovi per loro una destinazione definitiva), e in una sala attigua due pareti sono ricolme di ex voto dipinti tra fine Ottocento e inizio del Novecento.
Si torna in chiesa passando sotto una lunetta che raffigura la Madonna col Bambino in trono, con due angeli ai lati, disposti in simmetria, ed è impossibile uscire dalla chiesa senza guardare di nuovo il pontile, magari passando, questa volta, dalla navata minore per vedere l’ottocentesco quadro di Giuseppe Rollini, da poco restaurato, con la Madonna di Vezzolano che venne fatto dipingere dagli abitanti di Castelnuovo d’Asti scampati nel 1868 a un’epidemia di colera, opera a cui la comunità tiene particolarmente, tanto da averle riservato un posto di rilievo nella chiesa, non lontana dallo jubé. A onor del vero, la Chiesa riformata cercò di far buttar giù anche il pontile di Vezzolano: i documenti riferiscono d’una visita pastorale del 1584, quando il vescovo Carlo Montiglio si fermò nella chiesa e prescrisse di far levare “il choro qual è in mezo la Chiesa, e li altari che vi sono sotto”. Per fortuna, nessuno avrebbe dato seguito agli ordini del prelato, stante anche il fatto che la chiesa era poco frequentata, e in una località che al tempo era quasi nascosta, difficilmente raggiungibile, con lunghe camminate sotto il sole d’estate o per vie impraticabili con la neve d’inverno. Don Bosco, quando parlava di Vezzolano, non mancava di far cenno ai monaci che, tra le vigne di queste colline, esercitavano la loro carità cristiana dando ospitalità ai fuggitivi che cercavano di scampare alla giustizia, incitandoli però a pentirsi della loro condotta. Anche il pontile di Vezzolano, nel Cinquecento, era una specie di ricercato della Chiesa post-conciliare. E anche lui riuscì a scampare alla giustizia, prima ancora che l’abbazia conoscesse il suo declino, prima che passasse in mani private dopo la soppressione napoleonica degli ordini religiosi, prima che diventasse disabitata e si ricordasse di lei solo qualche sporadico devoto giunto qui in solitario pellegrinaggio, prima che don Bosco la elevasse a meta delle sue sortite, prima che le moderne esigenze di tutela l’affidassero alle mani del demanio che, dal 1937, per mezzo della Soprintendenza, s’occupa della sua conservazione e che l’ha infine condotta a una scintillante, appartata, silenziosa rifioritura.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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