La grande fotografa Giovanna Dal Magro si racconta. “Sono cinque fotografi in uno”


Ha visitato e fotografato i posti più remoti del mondo, ha documentato l’età della contestazione, è stata fotografa di Marina Abramovic e Dario Fo, ha conosciuto scrittori, artisti, intellettuali. Giovanna Dal Magro, tra le più grandi fotografe italiane, si racconta in questa intervista esclusiva.

Quando iniziamo a crescere ci viene sovente imposto di tracciare una sola linea retta e seguirla servilmente contenendo eventuali sbavature, ripensamenti o deviazioni. Ci viene insegnato che possiamo essere una cosa e una soltanto se pensiamo di prendere parte al mondo dell’eccellente, perché chi cambia fallisce e chi si rifiuta di inscatolarsi entro nettissimi e vincolanti confini è solo un sognatore. La fotografa Giovanna Dal Magro, nata e residente a Milano dove ha cominciato a lavorare negli anni Settanta, ha scelto, con precisa arguzia e grandissima tenacia, di ignorare e valicare tutti questi spaventosi e grigi confini, creando qualcosa a sua personalissima misura, una vita per sé stessa e che le somigliasse il più possibile. E si racconta in questa intervista.

Giovanna Dal Magro ritratta da Giorgio Colombo negli anni Settanta
Giovanna Dal Magro ritratta da Giorgio Colombo negli anni Settanta

FAG. Come ha iniziato a lavorare come fotografa e giornalista e cosa l’ha spinta ad approcciarsi alla fotografia dopo aver sperimentato la pittura?

GDM. Dopo aver frequentato l’Accademia di pittura del Castello Sforzesco di Milano avevo tante idee per il futuro, ma ho sempre ricercato l’eccellenza e vedevo le mie opere pittoriche come estremamente banali, inoltre ero diventata madre e ho deciso di lasciare questa strada con estrema naturalezza. Dopo circa due anni, in una semplicissima giornata, andai a trovare un’amica, la fotografa e grafica Aurelia Raffo, nella sua camera oscura e in fugacissimo momento vidi la fotografia salire dall’acido. Mi venne un colpo, rimasi folgorata e così come l’immagine si era rivelata dall’acido, anche io riemersi e da quel preciso giorno la fotografia divenne la mia fidata compagna di vita. Ho iniziato la mia formazione in uno studio fotografico partendo dalla stampa e la amavo così tanto che, molto spesso, tornavo a casa per mettere mio figlio a dormire e correvo nuovamente in studio per lavorare incessantemente e con ardente passione, fino alle due di notte. Ma la stampa e la fotografia sono due arti ben differenti e mi avvicinai alla mia vera, grandissima passione in punta di piedi, studiando tanto e sempre aiutata dai miei amici dell’Accademia, partecipando a ogni evento e soprattutto curiosando fra tutte le mostre presenti in città. Ero affamata e fu così che imparai l’arte della fotografia, intrappolando nel mio obiettivo tutto ciò che potevo senza mai specializzarmi in niente, nonostante i miei amici mi suggerissero di scegliere un solo tema e seguire quello per tutta la vita. Ma io sono una persona che non mangia mai lo stesso piatto del giorno prima e che cambia sempre profumo, quindi come potevo fossilizzarmi entro una sola tematica da seguire religiosamente tutta la vita? Impossibile per me, non è nella mia natura, ma penso che il tratto distintivo della mia arte sia proprio la libertà. Non sono una fotografa, sono cinque fotografi in un solo obiettivo. Amo cambiare e sperimentare sempre nuove vie e proprio per questo, intorno agli anni Ottanta, insieme all’artista Rosanna Veronesi ho deciso di avvicinarmi all’arte concettuale e siamo riuscite a realizzare numerosissime retrospettive. Fu un periodo davvero speciale in cui creammo moltissime installazioni, volevamo essere le Gilbert & George al femminile e ci divertimmo moltissimo fino alla fine del progetto.

Quali sono stati i momenti più significativi per Lei nei suoi reportage nei cinque continenti?

I luoghi che preferivo erano quelli che mi offrivano la possibilità di scoprire e conoscere la storia delle grandi culture. Uno dei miei primi viaggi fu quello alla scoperta del Messico, quando ancora non c’era il turismo di massa e si poteva salire a Chichén Itzá. Qui vidi la scultura di Chac-Mool, una figura umana maschile sdraiata sulla schiena, con le ginocchia piegate, i piedi ancorati sul pavimento e la testa rivolta ad angolo retto, che teneva fra le mani una specie di vassoio in cui si crede venissero posti i cuori e il sangue dei sacrificati e a me sembrò di avere delle visioni e sono convinta tuttora di aver visto quello stesso liquido fra le sue mani di pietra. Un altro luogo che mi rapì fu il Rajasthan e ogni volta che vedevo la dea Kali, così come altre statue di divinità induiste, sognavo ad occhi aperti tanto da non riuscire a distinguere la realtà dalla fantasia. Lo stesso accadde nell’Amazzonia venezuelana, dove volevo assolutamente fotografare il gruppo etnico degli Ye’Kuana ed ebbi la grande fortuna di imbattermi nell’indigenista Albert Valdez, che aiutò me e mio marito a noleggiare un piccolo aereo per entrare in quella comunità. Il viaggio in quel minuscolo aeroplano fu terribile e le viscere mi si contrassero per tutto il tempo, ma alla fine toccammo terra e scoprimmo uno spettacolo da togliere il fiato. Gli uomini stavano tornando dalla “grande festa della caccia”, un evento rarissimo e senza date precise che neanche il nostro nuovo amico etnologo era mai riuscito a vedere. Fu uno spettacolo unico. Gli uomini per cacciare si aiutavano con dei particolari pannelli solari e sotto tutte quelle luci mi incantai e scattai una quantità infinita di fotografie che furono poi esposte alla galleria milanese del Diaframma di Lanfranco Colombo. Piacquero moltissimo e, di conseguenza, uscirono anche molti articoli che, con orgoglio, inviai immediatamente ad Albert Valdez, il quale ci fece ottenere dei lasciapassare per salire sull’Autana, la montagna sacra degli Indios, dove nessun bianco era mai stato perché non se l’era meritato. Anche questo viaggio fu tremendo, colmo di intoppi, barche affondate, malattie contratte, fatica indicibile e una dilaniante paura di morire, ma ne valse la pena. Per arrivare al Monte Sacro dovevamo chiedere il permesso di proseguire a ogni capo villaggio che incontravamo sulla nostra strada e una volta raggiunto fu un’esperienza spettacolare vissuta intensamente e sul campo.

Giovanna Dal Magro, Indios Piaroa sul monte sacro Autana
Giovanna Dal Magro, Indios Piaroa sul monte sacro Autana
Giovanna Dal Magro, I cercatori d'oro nel Quibdo in Colombia
Giovanna Dal Magro, I cercatori d’oro nel Quibdo in Colombia
Giovanna Dal Magro, Leopardo dell'Amur
Giovanna Dal Magro, Leopardo dell’Amur
Giovanna Dal Magro, Donna di Aleppo
Giovanna Dal Magro, Donna di Aleppo
Giovanna Dal Magro, Bimba birmana
Giovanna Dal Magro, Bimba birmana
Giovanna Dal Magro, Installazione d'artista in Cina
Giovanna Dal Magro, Installazione d’artista in Cina

Come ha conosciuto e ritratto personaggi quali Marina Abramović, John Cage, Andy Warhol, Dario Fo e altri?

Erano cose che semplicemente accadevano in una città come Milano che offriva sempre innumerevoli occasioni e opportunità. Una giovane Marina Abramović arrivò alla galleria del Diagramma di Luciano Inga Pin nel 1974 per presentare Rhythm 4 e io, ovviamente, mi trovavo lì. Per l’occasione il pubblico dovette rimanere fuori e poté vedere la performance da appositi televisori, mentre io riuscii a infilarmi in un angolino della stanza per ritrarla al meglio. Marina s’inginocchiò, completamente nuda, davanti a un grosso ventilatore industriale con lo scopo di incamerare più aria possibile nei polmoni, fino a collassare. Era una durissima prova fisica e psicologica per la quale nessuno era preparato, nessuno se lo aspettava. Da quel giorno siamo diventate subito amiche e andavo a trovare molto spesso lei e Ulay in campagna dove vivevano e, proprio lì, scattai loro molte fotografie in compagnia del cagnolino e del camioncino. Conobbi Dario Fo in maniera molto simile, semplicemente andando a teatro alla Palazzina Liberty di Milano. L’incontro con Vittorio Sgarbi fu, invece, molto particolare e divertente, non poteva essere altrimenti. Mi trovavo a Venezia, ospitata da un’amica storica dell’arte che raccontò ad alcuni conoscenti che mi trovavo proprio in casa sua e, un giorno, mentre dormivo venni svegliata di soprassalto da un non ancora famoso Vittorio Sgarbi che mi scuoteva ridendo e dicendo che voleva delle foto. Terrorizzata e intontita dal sonno gli urlai “chi sei? Insomma, cosa vuoi?”, ma una volta calmata la buttammo sul ridere e scattai tutte le foto.

Quali sono i ricordi più preziosi che le hanno lasciato e quale personaggio ha trovato più interessante e perché?

Mi sono sempre sentita molto affine agli scrittori, erano anime divertenti, sovente fuori dagli schemi ed estremamente intelligenti. A Mosca fotografai Jurij M. Naghibin, un personaggio incredibile, molto conosciuto ed estremamente umile, in Perù immortalai Manuel Scorza che fu uno dei primi scrittori peruviani pubblicati da Feltrinelli. Un altro uomo che trovai particolarmente interessante fu Aldo Busi, che possedeva un’intelligenza stratosferica, fuori dall’umana comprensione e, proprio per questo, fotografarlo poteva essere un lavoro quasi impossibile. Odiava rimanere fermo, in posa rigida, in attesa dello scatto e mi apostrofava sempre di riprenderlo mentre parlava e si muoveva, ma io non lavoravo così e scattai delle foto poco soddisfacenti e, proprio mentre pensavo al gigantesco fallimento, capii di dover cambiare approccio: dovevo riuscire a fregarlo in qualche modo, intrappolarlo. Mi inventai di aver finito il lavoro, feci finta di mettere a posto tutta la mia attrezzatura e, non appena posai la macchina, lui si sdraiò serenamente sul divano bofonchiando qualcosa che suonava come uno stremato “finalmente”. Era lo scatto perfetto. Due foto, due soltanto, proprio quelle che mancavano per finire il rullino. Lo avvisai frettolosamente e fermai per sempre quel fugace e rilassatissimo istante. Era semplicemente lui, catturato dalla mia macchina e ad Aldo, quelle due sole foto, piacquero così tanto che iniziò a presentarmi come colei “che è riuscita a mettermi a nudo anche dentro”.

Ci deve essere sicuramente un talento innato e tantissimo lavoro per riuscire a capire le persone, leggerle e metterle a proprio agio per fermare per sempre quella caratteristica che Lei ha visto in loro e penso anche che questa sia la grande forza data dalla mancanza di confini netti nel suo lavoro.

Esattamente, alcune cose sono innate, insite in noi e solo grazie al duro lavoro si rafforzano e prendono forme più solide. Pur non avendo mai scelto una sola rigida strada tematica da seguire, i ritratti mi sono sempre piaciuti, soprattutto perché ho iniziato da lì e avranno sempre una carica emotiva molto forte per me. Da ragazza ero estremamente insicura e, tra i primi incarichi, mi trovai a dover fotografare il critico d’arte Gillo Dorfles. Mi presentai tremante, con una moltitudine di pensieri catastrofisti che ingombravano la mia mente e con la fermissima convinzione che, se avessi fatto il più piccolo errore, la mia carriera sarebbe finita per sempre, suicidandosi sul nascere. Ero il ritratto dell’agitazione e il malessere non fece che aumentare, affondando gli artigli nel mio stomaco quando lui mi ricevette nel suo studio con la faccia più scura che avessi mai visto: era già arrabbiato perché nessuno riusciva a fargli foto che lo soddisfacessero. Aveva aperto un piccolo cassetto e sventolava e lanciava fotografie che io trovavo meravigliose. Mi sentivo già finita ancora prima di iniziare, ma dovetti farmi coraggio e pensare velocemente. Decisi, in un attimo di fugace lucidità, di portarlo fuori ad ammirare i suoi amati edifici Liberty e ne fu estremamente entusiasta. Si sistemò sulla testa il Borsalino e fummo pronti per uscire e mentre era ipnotizzato dal suo stesso racconto, io mi nascosi e iniziai a ritrarlo. Rimase talmente elettrizzato degli scatti che, non solo mi citò in un articolo del Corriere della Sera dove parlava dei quattro fotografi italiani più interessanti, ma iniziò anche a mandarmi i cioccolatini a casa e, una volta, lasciò un bigliettino con su scritto “grazie per aver cercato di estetizzarmi”. Da quel momento capii che la fotografia, per me, era naturale come respirare, ma soprattutto che dovevo sempre essere io ad avere la meglio con i personaggi più difficili, specialmente quando questi mi davano poco credito per la giovane età. Un’altra esperienza, simile e contraria al tempo stesso, accadde a Manchester per fotografare il più grosso mercante d’armi del mondo che sembrava un vecchio nonno affettuoso ed estremamente sorridente. Ci trovavamo in una vecchia fabbrica piana di armi di ogni tipo, dove ogni parete trasudava morte e disperazione e io odiai ogni attimo chiusa tra quelle mura con un uomo che non faceva altro che ridere e pensare al Natale imminente. Cosa possiede di divertente la distruzione? Non lo capivo. Ero stanca e furiosa e mi arrabbiai così tanto per la situazione che gli feci impugnare il mitra stretto fra le mani e gli intimai di smettere immediatamente di ridere. Si offese e la foto venne perfetta.

Studiando il suo lavoro mi sono innamorata della fotografia di Kengiro Azuma seduto in una sua scultura, mi racconta come vi siete conosciuti e in particolare la storia dietro questo scatto?

Azuma era un personaggio incredibile, ogni volta che mi vedeva rideva di gusto e possedeva l’affettuosità tipicamente associata a un napoletano. Conobbi lo scultore grazie a un fotografo giapponese che avevo ospitato per un periodo nel mio vecchio studio in via Bramante e diventammo amici a prima vista, restavamo a parlare per ore raccontandoci ogni cosa. Ci siamo visti, per l’ultima volta, poco prima della sua morte per festeggiare il suo novantesimo compleanno e lo ricordo con gli occhi colmi della stessa gioia e dello stesso entusiasmo di quando era giovane. Fu una sincera e meravigliosa amicizia.

Giovanna Dal Magro, Marina Abramović in Rhythm 4 alla galleria Il Diagramma
Giovanna Dal Magro, Marina Abramović in Rhythm 4 alla galleria Il Diagramma
Giovanna Dal Magro, Gillo Dorfles
Giovanna Dal Magro, Gillo Dorfles
Giovanna Dal Magro, Pupi Avati
Giovanna Dal Magro, Pupi Avati
Giovanna Dal Magro, Kengiro Azuma
Giovanna Dal Magro, Kengiro Azuma
Giovanna Dal Magro, Maria Quasimodo
Giovanna Dal Magro, Maria Quasimodo

C’è un’esperienza particolare nella sua carriera che vuole condividere?

Sono sempre stata mossa da una sorta di slancio, una tensione verso la scoperta e l’esplorazione. Avevo bisogno di finire la giornata trascinandomi per la stanchezza e con la salda consapevolezza di aver visto quanto possibile. Per alcune cose ero letteralmente disastrosa: quando non funzionava una macchina fotografica non sapevo cosa fare per risolvere e quando prese prepotentemente piede il digitale dovetti imparare tutto da capo, ma compensavo le mie piccole mancanze con una sorta di “terzo occhio” che mi permette di vedere fulmineamente ciò che ai più superficiali sfugge. Quando sono stata a Cancún, dove dormimmo addirittura sulle amache per la mancanza di alberghi, mi sembrò di vedere dal finestrino del taxi una tigre al terzo piano di un palazzo. Dovevo sapere immediatamente se lo avessi solo immaginato, chiesi all’autista di fermarsi per andare a controllare meglio e fu così che conobbi Pepe, un uomo che aveva speso tutti i suoi soldi per salvare grandi felini. Di molte cose ho avuto paura nella mia vita, ma gli animali non sono mai stati fra queste, e quando scoprii che dietro quella porta si nascondeva un elegantissimo leopardo fui pervasa da un’eccitazione infinita che mi portò a scattare delle fotografie stupende e, in seguito, a diventare amica del felino che si fece accarezzare dolcemente sulla testa. Il mio terzo occhio si attivò anche in Cina durante un viaggio in pullman con un gruppo di giornalisti quando mi sembrò di vedere un campo di macchie di colore rosso vivo. Fortunatamente il giardino che intravidi si trovava vicino all’hotel dove alloggiavamo e l’indomani mattina mi svegliai all’alba, mentre il resto del nostro piccolo mondo ancora dormiva, per andare a indagare. Scoprii un’installazione spettacolare di ombrelli rossi e pregai in ginocchio il guardiano per farmi entrare e lui, probabilmente per sfinimento, acconsentì. Ma ci sono state anche esperienze orribili dalle quali ho dovuto cavare fuori la bellezza con le unghie, come quando recentemente mi sono rotta il femore e dovetti stare chiusa due mesi in ospedale. Mentre ero costretta a letto i giorni si susseguivano con noiosissima lentezza, ma fortunatamente una mattina arrivarono degli operai a fare dei lavori sul tetto della struttura di fronte alla mia finestra e io, con estrema cura, mi misi nuovamente a fotografare documentando il procedere dei lavori. Fu una boccata d’aria fresca e sentii nuovamente la vita scorrere dolcemente.

Nel mondo di oggi i social hanno un peso molto importante e sembra quasi che tutti possano essere fotografi più o meno improvvisati. Come pensa che questo lavoro sia cambiato e cambierà a causa di questo?

Sì, oggi tutti credono di poter diventare fotografi con i social e non è così, ma io non penso che la qualità sia peggiorata a causa di questi ultimi, quanto piuttosto alla ferocia del mercato. Questo mondo di oggi non sembra avere a cuore un lavoro fatto bene e giustamente retribuito, ma preferisce cose raffazzonate che possano essere pagate il meno possibile. È l’indescrivibile avidità dell’essere umano il vero problema e i social a volte sembrano solo esacerbarla. Per l’eccellenza bisogna studiare tanto, ma sono convinta che, in determinati luoghi e situazioni, la fotografia bella possa sempre capitare anche per caso e i cellulari rendono tutto molto più semplice. Se solo ci fossero stati anche quando ero una ragazza non mi sarei lasciata sfuggire moltissime occasioni, come quando incontrai De Chirico. Perché quando lasciavi la macchina fotografica in casa non ti era permesso tornare indietro mettendo in pausa tutto il mondo, ma questo continuava a correre veloce, quelle persone interessanti passavano, i fiori appassivano, il tempo scorreva e non potevi far altro che immortalare quell’istante nella tua mente.

Giovanna Dal Magro, Scioperanti arrampicati sul monumento a Vittorio Emanuele II
Giovanna Dal Magro, Scioperanti arrampicati sul monumento a Vittorio Emanuele II
Giovanna Dal Magro, Primo maggio 1974
Giovanna Dal Magro, Primo maggio 1974

Penso che la fotografia sia arte del presente che cristallizza per sempre il passato e così ha fatto Lei documentando chirurgicamente il decennio post ’68 con foto di cortei, manifestazioni politiche e festival dell’Unità. Cosa l’ha spinta a documentarlo e come ha scelto di farlo?

Il saggista Roland Barthes affermava esattamente il contrario, ovvero che la fotografia è la morte della storia, ma io non sono d’accordo: la fotografia permette alle persone di rivivere il passato anche se quel passato non è il loro e lo rende vero e tangibile. Ho scelto di documentare il decennio post ’68 perché faceva semplicemente parte della mia vita, del mio modo di essere e partecipavo a ogni evento con i miei più grandi amici dell’Accademia. Ci dirigevamo, sempre insieme e con un’infinita naturalezza, a vedere tutte le mostre e ogni minima cosa che accadeva in città, volevamo aderire attivamente agli scioperi e ai festival provando a non perderci niente. Abbiamo condiviso esperienze di vita importanti che ci hanno permesso di restare legati per sempre. Esperienze queste, che sono state esposte alla galleria “Il milione” per la mostra del 2018 curata da Alberto Maria Prina Anni 70. Quando pensavamo di cambiare il mondo e tra le foto, realizzate in studio, di Marina Abramović, John Cage, Andy Warhol, Franco Vaccari, Gillo Dorfles, Dario Fo e altri, svettavano le conseguenze, le speranze, i sogni e le lotte che ho congelato per sempre, tramite il mio obiettivo, in quei fugaci attimi di storia.

Quali sono le difficoltà che un aspirante fotografo deve affrontare e quali sono le sue raccomandazioni?

Quando si è molto giovani si possiede l’arroganza e la tenacia di chi vorrebbe conquistare tutto il mondo, ma è importantissimo essere umili e pronti a imparare qualcosa di nuovo da chi conosce la vita, non meglio, ma in modo diverso. Bisogna sperimentare e muovere i primi passi in questo strano lavoro con costanza e tenacia, ricordandosi di comportarsi allo stesso modo con tutti e senza fare distinzioni tra chi vive ai margini e chi, invece, è al vertice della società perché entrambi avranno storie importantissime ed egualmente arricchenti da narrare. Vorrei dire, alle ragazze e ragazzi che intraprenderanno o stanno già intraprendendo questo lavoro, di affrontarlo come un viaggio e di continuare a collezionare esperienze ascoltando ogni racconto di vita e imparando sempre da tutto e tutti, perché quando si parla di fotografia non si è mai veramente arrivati, si scopre sempre qualcosa di nuovo. Ma soprattutto vorrei dire loro di seguire il proprio sesto senso perché quello non sbaglia mai.


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