A cosa serve Michelangelo? - di Tomaso Montanari


Recensione del libro A cosa serve Michelangelo di Tomaso Montanari, un libro molto utile per conoscere come funziona oggi il sistema della storia dell'arte in Italia

Questo che vi presento oggi è uno di quei libri che, una volta letti, non vi stancherete mai di rileggere e di apprezzare: io stesso l’ho letto tre volte. Stiamo parlando di A cosa serve Michelangelo? di Tomaso Montanari, storico dell’arte fiorentino, docente di storia dell’arte moderna all’Università Federico II di Napoli e da qualche tempo anche blogger per Il Fatto Quotidiano. Perché è un libro che non può mancare nella vostra collezione e perché ve lo consiglio così caldamente? Andiamo con ordine.

A cosa serve Michelangelo di Tomaso Montanari
A cosa serve Michelangelo? di Tomaso Montanari

Tanto per iniziare, uno dei principali meriti di Tomaso Montanari consiste nell’aver realizzato un libro davvero per ogni pubblico, per tutti, che non richiede una conoscenza dell’argomento ed è adatto a chiunque: appassionati, studenti, addetti ai lavori ma anche (e con una punta d’azzardo verrebbe da pensare soprattutto) cittadini che vogliono capire come funzionano un po’ di cose in Italia, la “patria dell’arte”, riguardo proprio al modo in cui si gestiscono i beni culturali (espressione che peraltro Montanari definisce fortunatissimo - quanto dannoso - sintagma e più avanti vedremo perché)... il tutto partendo da una storia esemplificativa, ovvero l’acquisto, da parte dello Stato italiano, di un Cristo attribuito niente meno che a Michelangelo Buonarroti, venduto dall’antiquario Giancarlo Gallino per la cifra di tre milioni e duecentocinquanta mila euro: secondo gli esperti in realtà si tratterebbe di un crocifisso ligneo prodotto da un atelier fiorentino del Quattrocento che realizzava opere simili quasi in serie (e di conseguenza la cifra spesa sarebbe spropositata).

Montanari utilizza la vicenda del Cristo Gallino per introdurci in un mondo fatto di storici dell’arte silenziosi, che oltretutto secondo Montanari “trovano molto comodo il proprio silenzio” (mancanza di autostima e opportunismo sono, secondo l’autore, i principali motivi), ma anche di giochi di potere che strumentalizzano l’arte ai fini della più bieca propaganda (il caso del Cristo attribuito a Michelangelo è esempio anche di questo), di opere d’arte trasformate in strumenti di marketing: ecco quindi, tra l’altro, il perché del “dannoso sintagma” bene culturale. Perché l’opera d’arte oggi non è più vista come un mezzo per produrre cultura, intelligenza, consapevolezza e rispetto, ma come un mezzo per fare cassa: secondo Montanari infatti “la rendita prodotta dalle opere d’arte non è economica, ma intellettuale e culturale”.

Un sistema, quello messo in atto negli ultimi anni, che a lungo andare rischia di diventare nocivo, perché il marketing ministeriale dimostra di puntare su pochi musei e su un novero ristretto di cosiddetti capolavori noti a tutti: il risultato consiste nel fatto che i complessi più gettonati sono congestionati e sovraffollati e realtà più piccole lottano ogni giorno contro la mancanza di mezzi e risorse. Un culto dei pochi capolavori ancor più nocivo in un paese la cui unicità, utilizzando le parole di Montanari, “consiste nella densità di un patrimonio diffuso e inseparabile dal paesaggio urbano e naturale in cui è andato infinitamente stratificandosi in millenni”.

E troviamo una diretta conseguenza di questo modo di vedere le opere d’arte nelle mostre: poche sono, secondo Montanari, quelle organizzate in base a seri criteri scientifici e filologici e che si pongono come obiettivo quello di portare a conoscenza nuove scoperte oppure quello di formare il pubblico su un artista (o su un gruppo di artisti). Vanno di moda mostre che di scientifico hanno poco o niente, che tirano in ballo i “grandi nomi” (individuati da Montanari in "Caravaggio, Leonardo, Van Gogh o l’etichetta taumaturgica degli impressionisti") oppure quelle che organizzate in base al format dell’"ostensione di un singolo capolavoro", o ancora peggio quelle prettamente propagandistiche (come quella organizzata a Napoli nella quale si è accostato un vero Michelangelo a quello presunto per far sembrare che l’attribuzione avesse un senso), o confessionali.

E se pensiamo alle mostre, nel campo della storia dell’arte il danno che mostre insensate fanno è non solo devastante (per l’ambiente, per gli storici dell’arte, per il pubblico, per noi tutti) ma è anche molto subdolo, perché in Italia vige la strana associazione di idee in base alla quale storia dell’arte è un’espressione sempre associata a cultura. Ma se pensiamo al cinema, parafrasando un esempio di Montanari, a nessuno verrebbe mai in mente di definire “prodotto culturale” una delle tante commedie natalizie volgarotte e ridanciane: è bene che si sappia che anche nel settore mostre ci sono esposizioni che hanno lo stesso spessore culturale dei cinepanettoni.

La critica di Montanari continua poi attraverso i giornali (dove non si trovano mai, per riallacciarsi al discorso mostre, recensioni negative) per arrivare all’università, che non viene risparmiata: il recente sistema del 3+2 viene accusato da Montanari di aver creato tutta una serie di lauree in beni culturali che non offrirebbero una preparazione completa e illuderebbero i ragazzi promettendo sbocchi occupazionali per un posto di lavoro che “non esiste nel mondo reale”.

Un libro di sole critiche? No, perché anche se si potrebbe rimproverare a Montanari il fatto che la pars destruens del suo volume occupa i 6/7 della trattazione, l’autore getta le basi per una pars construens provando a indicare una via d’uscita da questo sistema, e poi starà a noi dibattere e ampliare le sue proposte, che si rivolgono principalmente agli addetti ai lavori: l’idea di Montanari consiste principalmente nel restituire la storia dell’arte agli storici dell’arte, che dovrebbero iniziare a essere più presenti, per parlare al pubblico, per organizzare mostre valide, per far scoprire alle persone quel solido e inscindibile rapporto che esiste tra arte, ambiente e paesaggio e costituisce una “rete di relazioni” che gli storici dell’arte devono “rendere viva e parlante”. Quando noi ci avvicineremo con più consapevolezza a questo patrimonio, quando inizieremo a vederlo quasi come un’entità che, oltre a emozionarci, ci parla e ci insegna, allora probabilmente anche noi staremo contribuendo a cambiare il sistema e a salvare la nostra arte.

Quindi, in definitiva, a cosa serve Michelangelo, ovvero a cosa serve la storia dell’arte? A conoscere il nostro patrimonio per tutelarlo e salvarlo (perché non pensiamo che la tutela sia riservata solo agli addetti ai lavori: la tutela passa anche da noi, attraverso il nostro comportamento), a farci amare il bello, a condividere valori, a rispettare l’arte e di conseguenza il prossimo, a farci diventare cittadini consapevoli e intelligenti.

A cosa serve Michelangelo?
di Tomaso Montanari
Einaudi, 2011
129 pagine
10 €


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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