L’ormai sparuto, macilento, disossato drappello di destinatari di prodotti culturali ai quali interessa ancora conoscere una prospettiva argomentata e, possibilmente, valutativa sulle cose che vedono, avrà sicuramente notato che, negli ultimi mesi, s’è generato un interessante revival di quel rigagnolo della discussione sulla scomparsa della critica centrato sulla contrapposizione delle sedi che usualmente accolgono scambi e confronti sulla cultura: sedi “istituzionali”, per così dire, da una parte (principalmente giornali e riviste di settore) e social dall’altra. Si parla soprattutto di critica letteraria, l’unica forma di critica, assieme a quella cinematografica, che oggi pare avere ancora qualche sussulto, data la cronica stagnazione di altri generi di produzione argomentativo-valutativa, a cominciare dalla critica d’arte, ormai scomparsa praticamente ovunque. Interessante allora, tra gl’interventi più recenti, quello di Gianluigi Simonetti pubblicato sull’inserto Tuttolibri de La Stampa alcune settimane fa (L’età dell’insofferenza per i “discorsi secondi”), pezzo nel quale il critico letterario attribuisce la crescente intolleranza nei riguardi dello spirito critico in sé a quello che lui chiama il “dominio del pop”, intendendo con “pop” ogni produzione che imponga il consumo al centro dell’esperienza culturale, e di conseguenza “pop” significa a suo avviso “più semplificazione, più immediatezza, più narcisismo”, significa deterioramento in senso infantilistico dell’identità “di tutti i mediatori culturali – critici inclusi – ma anche degli scrittori, degli editori, e naturalmente dei lettori”.
Naturalmente, il prodotto di consumo necessita di comunicazione più che di critica, al prodotto di consumo serve il marketing più che la discussione competente, il prodotto di consumo cerca la pubblicità più che l’approfondimento. Ovvio, pertanto, che il prodotto di consumo trovi una dimensione sommamente congeniale tra le paludi dei social network, cui Simonetti attribuisce un ruolo d’attiva complicità in questo processo di lento ma costante soffocamento della critica: “niente distrugge le mediazioni della critica più della presa di parola generalizzata e schematica, niente affossa le singole voci accreditate più del flusso delle opinioni anonime o (all’opposto) degli interventi carismatici ma incompetenti di popolari e ignorantissimi influencer”. In letteratura, in arte, in politica: “l’ideologia non viene più forgiata nei giornali, nelle riviste o nelle istituzioni, ma nei social media e nella comunicazione di massa, spesso attraverso semplificazioni grossolane o fake news”. Non serve rimarcare quali siano le minacce che viviamo ogni giorno nell’epoca della disintermediazione, non serve rammentare gli enormi pericoli provocati da una politica che si piega alle stesse logiche d’una produzione culturale votata al consumo (se per le produzioni culturali il centro dell’esperienza è diventato il consumo, per la politica il centro dell’azione è diventato il consenso: si può dire, certo banalizzando, che i meccanismi, i modi, le dinamiche con cui da una parte si cerca il consumo e dall’altra il consenso non siano così dissimili, anzi), dacché gli effetti d’una politica che costruisce a mezzo social le proprie fondamenta ideologiche sono ormai parte della cronaca quotidiana d’ognuno.
È del tutto evidente che la disintermediazione ha provocato i danni più estesi nei settori più piccoli, più fragili, dove le interrelazioni sono più diffuse (su queste pagine, per esempio, s’è attivato qualche tempo fa un acceso dibattito sulle cause della pressoché totale scomparsa della critica d’arte in cui s’è discusso anche di questo aspetto), e i social hanno offerto a questo processo d’erosione della critica un sostentacolo efficace, invadente e pervasivo, stanti anche l’evoluzioni che le piattaforme hanno conosciuto negli ultimi anni, specialmente a seguito di due eventi che hanno rivoluzionato l’universo dei social media, ovvero la pandemia di Covid-19 e il successo di Tiktok, giunti in contemporanea: la pandemia è cominciata nella primavera del 2020, il social cinese ha raggiunto il miliardo di utenti nell’agosto dello stesso anno. La pandemia, anzitutto, ha aperto le porte dei social agli “ignorantissimi” di Simonetti che si son ritrovati da un giorno all’altro chiusi in casa e, non sapendo bene cosa fare dell’improvviso incremento di tempo libero, hanno cominciato a cimentarsi col public speaking a mezzo Instagram, cercando di trovare il modo per condividere con un pubblico più o meno largo la propria passione, qualunque essa fosse: i più abili a sfruttare i meccanismi dei social sono presto diventati “popolari influencer”, e quelli che già lo erano da prima hanno beneficiato d’un momento storico particolarmente favorevole, dacché il Covid ha sortito un altro effetto, ch’è stato peraltro oggetto d’una recente indagine condotta dal gruppo Hurrdat Marketing: i cambiamenti della vita quotidiana indotti dal morbo, su tutti l’aumento di consumo di contenuti prodotti sui social, hanno spinto le aziende a riallocare parte dei loro budget, al fine di cercare percorsi alternativi per promuovere i loro prodotti in un periodo del tutto anomalo.
Contestualmente, il successo di Tiktok ha spinto Instagram a lanciare i reel per cercare d’arginare la fortuna che i video brevi hanno cominciati a riscuotere in rete sulla scorta della popolarità del social cinese: dalla fine del 2020 in avanti, il mezzo privilegiato per ottenere successo su Instagram (ovvero sulla piattaforma del momento, sulla piattaforma che ha offerto e continua a offrire riparo ai transfughi di Facebook, sulla piattaforma ch’è diventata negli ultimi anni quello che Facebook era dieci-dodici anni fa) è stato dunque il reel, il video breve. E Instagram ha concesso più facilmente popolarità a chi era in grado di far leva sul nuovo mezzo per coinvolgere il pubblico: è quindi accaduto che tanti appassionati abbiano raggiunto la popolarità quasi da un giorno all’altro, con vertiginosi aumenti dei numeri di follower ottenuti proprio grazie a un sapiente utilizzo dei reel, che Instagram intendeva spingere al massimo per contrastare l’avanzata di Tiktok. Chi, in quel momento storico (grosso modo tra la data del lancio dei reel, ad agosto del 2020, fino all’incirca alla fine del 2022), ha saputo adoperare il mezzo con abilità, è stato assurto agli allori della popolarità. Chi è arrivato più tardi è stato costretto, tolte poche eccezioni, a rimanere a guardare. È accaduto in tutti i settori, l’arte non ha fatto eccezione: chi voglia avere un riscontro pensi a un influencer (intendendolo come chi, da definizione del Collins Dictionary, “usa i social media per promuovere ai propri follower scelte inerenti uno stile di vita, prodotti commerciali, ecc. ”) o a un content creator (ovvero chi, più in generale, s’è specializzato nella produzione e nella distribuzione di contenuti digitali tramite social) che segue abitualmente, apra il suo profilo e scorra all’indietro nel tempo la sua bacheca. Alta è la probabilità che sia partito in quel periodo, così come alta è la probabilità di trovare, su molti profili, dei picchi improvvisi di popolarità: parliamo di profili che sono passati da una media di quattro-cinquemila visualizzazioni per video quando andava bene, al superamento repentino della soglia dei centomila a fronte di qualche aggiustamento tecnico (una copertina graficamente più accattivante, una durata della clip meglio calibrata, un format più coinvolgente, un montaggio più efficace e incalzante, e così via). Ecco perché l’aggettivo “ignorantissimi” di Simonetti non dev’essere letto, mutuando un’espressione dal gergo calcistico, come una sorta di fallo di reazione: per quanto brutale, è diretta e semplice constatazione del fatto che, per ottenere successo su di un social che favorisce il consumo rapido, la qualità intrinseca del contenuto non è che uno dei tanti elementi della pozione magica per raggiungere l’agognatissima viralità. S’aggiunga poi che, in arte, in letteratura (e, soprattutto, in politica) i social hanno amplificato quel vecchio meccanismo di ricerca dell’autenticità che finisce per generare l’equivoco populista per cui l’immedesimazione (“è uno come noi”) conti più delle competenze: tuttavia, da un politico non m’aspetto che sia come me, pretendo che sia migliore di me. E allo stesso modo, da chi diffonde contenuti sui social (d’arte, di letteratura o di qualsiasi altro argomento), non m’aspetto che si rivolga a me col mio linguaggio, non m’aspetto che parli d’un libro che “gli è piaciuto”: pretendo che parli meglio di me, e che m’analizzi un prodotto culturale, possibilmente dandomi un giudizio oppure, in assenza di giudizio, fornendomi un contesto, perché ha le competenze per farlo. Non è, ovviamente, difesa di un inesistente principio d’autorità (ci sono creator che pur giungendo da percorsi non strutturati fanno cose egregie, e ci sono stimati luminari dall’esperienza pluridecennale la cui presenza sui social serve a poco o a niente, se non a ottenere consensi da chi già condivide la propria posizione o da chi è già informato su di un argomento: un Burioni, per dire, offre il preciso, esatto, puntuale esempio di ciò che il professionista stimato non dovrebbe fare sui social): è semplicemente l’idea che la competenza su di un argomento dovrebbe essere il terreno sul quale costruire una proposta culturale o politica, e i social, almeno sulla carta, offrono a tutti l’occasione di misurarsi con chi ha competenze (la critica ai social, ovviamente, è una critica alle piattaforme, non a chi le frequenta).
L’indagine Hurrdat ha messo agli atti quello che più o meno tutti, empiricamente, abbiamo osservato: i vuoti forzati che i confinamenti, le quarantene, i lockdown hanno generato nelle nostre vite sono stati colmati da influencer e content creator che, dalle loro case, si sono inventati video, dirette, contenuti disparati e, rileva l’articolo di Hurrdat, “sono stati in grado di realizzare contenuti di alta qualità senza l’aiuto di terzi durante la chiusura degli studi cinematografici”. Va da sé che per “alta qualità” riferita ai contenuti veicolati sui social in questo periodo storico s’intende la qualità tecnica più che quella dei contenuti. L’algoritmo di un social, almeno per il momento, non è in grado di capire se un influencer ha appena finito di pronunciare uno strafalcione su Leonardo da Vinci, che magari può sfuggire alla più parte del pubblico: è però in grado di misurare con efficacia la risoluzione di un video, il corretto timing della pubblicazione (ci sono momenti in cui il pubblico è più attivo e le piattaforme premiano chi è in grado d’intercettare quei momenti), il grado di partecipazione di un profilo ai commenti che giungono sotto ai propri contenuti (per questo ai creator in erba vien suggerito di rispondere sempre ai commenti, fossero anche semplici cuoricini), la quantità d’interazioni ricevute, la percentuale di tempo che un utente trascorre a vedere un video, ragion per cui i più privilegiano contenuti brevi e coinvolgenti rispetto ad analisi lunghe e approfondite (che peraltro, a causa della durata limitata dei reel, e a causa del limite di duemila caratteri imposto nelle didascalie dei singoli post, sono fisicamente impossibili).
Nel settore dell’arte, gli influencer e i creator hanno esplorato i generi più disparati inventandosi una divulgazione a rapido consumo (la durata dei video raramente supera i due minuti: è stato del resto osservato da molti che i video considerati addirittura “long-form”, quindi i contenuti che dovrebbero essere più approfonditi, sono più performanti se non superano il minuto di durata, ma c’è anche chi sostiene che i migliori risultati s’ottengano con video di durata ancor più breve), un tipo di produzione privo di qualsiasi precedente: rapidi consigli di viaggio nelle città d’arte, fulminee visite alle mostre, aneddotica varia sugli artisti, micro-pillole sulle opere d’arte, video emozionali dentro alle chiese. S’è già ampiamente discusso in questa sede di come queste professionalità hanno cambiato il modo di comunicare l’arte, quindi forse non è necessario dilungarsi oltre. Va però detto che chi ottiene successo lavora con professionalità, dal momento che occorrono qualità e competenze d’un certo tipo per ottenere successo coi social: sarebbe un grossolano errore ritenere che un influencer o un creator sia un improvvisato.
Manca all’appello la critica d’arte, benché, per inciso, non manchi chi si presenta come critico e si limita a descrivere le opere, senza fornire alcun contenuto di carattere argomentativo-valutativo, ma in questo i creator non si comportano diversamente da molti giornalisti. E la critica d’arte manca per ovvie ragioni d’incompatibilità: poiché gli influencer e i creator che esercitano queste attività per mestiere fondamentalmente campano vendendo i loro spazi alle aziende che intendono pubblicizzarsi tramite i loro canali, da un lato si potrebbe dire, un poco brutalmente, che non possono correre il rischio d’eliminarsi possibili datori di lavoro, e dall’altro non possono concedersi quelle stonature che sarebbero inevitabili dentro un mezzo dove il confine tra pubblicità e contenuto (pur in presenza di hashtag e marcatori assortiti che servono a distinguere un contenuto che il creator pensa e produce sua sponte e un contenuto pagato da un’azienda) di fatto non esiste, dacché il produttore di contenuto, il protagonista della narrazione, la voce del prodotto, è al contempo anche il testimonial pubblicitario del brand che lo retribuisce. È vero che i giornali non sono alieni da logiche commerciali altrettanto discutibili (e lo s’è scritto anche su queste pagine, rimarcando come spesso si configurino rapporti d’interrelazione tra soggetti che investono e soggetti che scrivono, per cui altrettanto spesso s’evita, quando tocca recensire una mostra, di formulare giudizi su di una rassegna organizzata da un soggetto che ha investito in pubblicità su di un giornale, e via dicendo) ma, almeno formalmente, su di un giornale esistono i modi per evitare la mescolanza tipica dei social, poiché la pubblicità e i contenuti viaggiano su canali distinti, separati, riconoscibili, e poiché ai giornalisti è fatto divieto di prestare il proprio volto per campagne pubblicitarie: un giornalista che dovesse fare quello che fa un influencer, ovvero un video in cui pubblicizza in prima persona una mostra bollandolo col marcatore “adv”, verrebbe sanzionato dall’Ordine.
C’è chi ritiene, correttamente sul piano astratto, che la critica dovrebbe esprimersi a mezzo social. Un critico di professione, dunque, dovrebbe esercitare la propria attività sui social per fare in modo che il mezzo sia presidiato. Il problema è che, oggi, la critica appare sempre più ontologicamente incompatibile coi social per il fatto che stiamo probabilmente attraversando un periodo storico di profonda decadenza delle piattaforme. Alcuni hanno parlato di enshittification per descrivere questo processo che conosce alcune fasi ben distinte (c’è chi ritiene che tutte le grandi piattaforme online, e non soltanto i social, stiano conoscendo questo progressivo deterioramento, dai motori di ricerca fino ai portali come Amazon e simili), e che trova le sue ragioni nella massimizzazione dei profitti da parte delle piattaforme. A chi frequenta Facebook dagli albori il processo apparirà piuttosto chiaro (tant’è che c’è chi ha definito Facebook “the king of enshittification”): all’inizio, la piattaforma t’induce a un utilizzo apparentemente piacevole e utile (raccontare la tua vita, vedere le fotografie degli amici, seguire la pagina del tuo giornale preferito, del cantante che ami, discutere sulle notizie del giorno). Dopodiché, la piattaforma sfrutta i suoi utenti per convincere le aziende che quello sia il posto adatto per un investimento pubblicitario: le bacheche degli utenti vengono progressivamente inondate di pubblicità, e gli inserzionisti investono nel mezzo perché i costi sono contenuti, a fronte della possibilità di raggiungere un’utenza profilata con una profondità fino a prima sconosciuta. Poi, la piattaforma sfrutta anche gli inserzionisti, abbassando la qualità del servizio e aumentando i costi per raggiungere quell’utenza alla quale prima s’arrivava a una frazione del costo. Infine, la qualità del servizio peggiora sempre più fino a che sia le aziende sia gli utenti non cominciano ad abbandonare la piattaforma, decretandone la crisi e poi la morte.
L’enshittification delle principali piattaforme social (Facebook e Instagram soprattutto: entrambe, com’è noto, appartenenti allo stesso soggetto) è transitata attraverso azioni facilmente rilevabili. Facebook, per esempio, ha cominciato a ridurre sempre più la portata dei link esterni (un utente che clicca su di un link esterno è un utente che sottrae tempo alla piattaforma, ed è un utente che andrà a vedere un annuncio pubblicitario da qualche altra parte, invece che dentro alla piattaforma), e ha parimenti ridotto progressivamente l’importanza, nelle logiche dell’algoritmo, di tutto ciò che proviene dal mondo dei giornali, tant’è che molti giornali hanno conosciuto pesantissimi cali di traffico in arrivo da Facebook (benché nelle ultime settimane paiano manifestarsi i primi segnali d’una leggera controtendenza). Successivamente, ha ridotto la portata delle pagine che l’utente decide di seguire volontariamente per puntare, piuttosto, sulle pagine suggerite, anche quando le raccomandazioni sono per l’utente poco soddisfacenti. Instagram, dal canto suo, non consente di pubblicare link esterni (se non nelle stories, ma il traffico che garantiscono verso un sito web solitamente è poco rilevante), e ha agito come s’è visto sopra, ovvero premiando contenuti di rapido consumo. Oggi, ai social, la qualità intrinseca interessa poco (semmai ci sia mai stato un periodo in cui davvero i social hanno avuto cura di promuovere contenuti realmente interessanti): interessa soprattutto il coinvolgimento, ragione per cui le piattaforme tendono a favorire lo scorrimento compulsivo di contenuti facilmente consumabili e coi quali si possa facilmente interagire: più tempo si trascorre sulla piattaforma, più si scorre, più si vedono pubblicità, più la piattaforma guadagna. La critica d’arte, la critica letteraria, la critica musicale, la critica cinematografica e via dicendo sono invece attività che necessitano di attenzione, metodo, analisi, tempo, accuratezza, profondità: caratteristiche inconciliabili con le dinamiche di una piattaforma social che sta conoscendo una fase d’involuzione, di decadimento. Un critico ovviamente può (e forse dovrebbe) fissare un suo presidio anche sui social: non potrà però raggiungere le folle che un influencer o un creator che adattano il proprio contenuto ai desiderata della piattaforma sono in grado di toccare. E non mancano, naturalmente, professionisti che esercitano anche sui social un’attività critica a corollario di quella che conducono tramite strumenti diversi (giornali, riviste di settore, attività accademica): il problema è che, per come sono strutturati oggi, il critico che intenda replicare sui social gli strumenti della critica tradizionale rischia di parlare agli stessi che lo leggerebbero tramite altri canali, dacché oggi è impossibile raggiungere un pubblico vasto senza produrre contenuti che possano sfruttare i meccanismi della viralità, o senza investire in advertising per arrivare a un pubblico diverso dal proprio (e riesce difficile immaginare un critico solitario che disponga dei budget necessari a raggiungere un pubblico ampio). Quanto agli stessi influencer o creator, qualora aspirino a fare dei social il loro mezzo di sostentamento, c’è poco da sperare in una critica che giunga da queste figure. Il ragionamento è il solito che, su queste pagine, s’era fatto per i giornali: tolti i temerari e tolti i fuoriclasse, rimane solo chiunque ritenga sostenibile correre gli eventuali rischi derivante dall’esercizio della propria facoltà di giudizio o che non debba legare le sorti della sua professione agli umori di chi lo deve leggere.
Rimane allora spazio per fare critica sui social? Se s’intende fare critica come la si farebbe su di un giornale, ovviamente no: se in passato tanti hanno ritenuto che il post pubblicato su di un social fosse il surrogato d’un articolo di giornale (col vantaggio di non avere l’incomodo d’una redazione che te lo deve approvare e pubblicare), è perché c’è stato un periodo in cui le modalità d’utilizzo del mezzo potevano apparire intercambiabili, ma oggi non è più così (sempre tenendo presente, ovviamente, l’obiettivo di rivolgersi a un pubblico vasto). È una strada certo percorribile, serbando tuttavia la consapevolezza che, nella stragrande maggioranza dei casi, si finirà col parlare probabilmente solo a chi già segue il critico su altri mezzi, o a pochi in più. Ma con un influencer o con un creator che padroneggiano adeguatamente il mezzo, allora non c’è competizione. Resta, certo, la facoltà d’inventarsi delle modalità innovative: l’unico che per ora sembrerebbe esserci riuscito con un certo successo di pubblico, nell’ambito della critica d’arte, è lo storico dell’arte Fabrizio Federici, titolare della pagina Mo(n)stre, nata su Facebook e poi accompagnata da un altrettanto fortunato profilo Instagram, capace di riscuotere successo al prezzo d’adattare gli strumenti propri della critica alle caratteristiche del mezzo, e facendo leva costante sull’esercizio d’un’ironia raffinata, intelligente e soprattutto coinvolgente. Si può citare poi la figura di Luca Rossi che da anni conduce sui social una sorta di guerrilla-criticism, verrebbe da definirlo, fatto d’interventi costanti, pervasivi, sulla sua e su altre bacheche, che hanno esplorato tutti i mezzi possibili (dal post testuale, lungo o corto, al reel, alla diretta e via dicendo). La critica di Mo(n)stre diretta ai prodotti culturali (Federici si concentra esclusivamente sulle mostre) e di Luca Rossi diretta all’arte contemporanea apparirebbero tuttavia meno incisive se entrambi non affiancassero alla loro presenza social una costante presenza sulle testate di settore, dove gli spunti lanciati sui social vengono poi approfonditi. E soprattutto, a oggi nessun critico (tra quei pochi che restano) ha dimostrato le stesse capacità di tenuta su più fronti.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).