Nel celebre capolavoro letterario di Philip Roth, Pastorale americana, si narrano le vicende di Seymour Levov e della sua famiglia, americani di seconda generazione, che con grande fatica riescono a costruirsi una posizione rispettabile nella società statunitense, incarnando il perfetto paradigma del sogno a stelle e strisce grazie a successi nel mondo dello sport e degli affari. Tuttavia, questi successi vengono improvvisamente sconvolti dalla figlia di Seymour, Merry, che, affascinata dalle proteste degli anni Sessanta, in particolare quelle contro la guerra del Vietnam, si radicalizza politicamente fino a compiere un atto terroristico: una bomba fatta esplodere in una piccola cittadina, che provoca la morte di una persona. Questo evento drammatico trascina la famiglia da un’esistenza tranquilla e soddisfacente – una pastorale – in un vortice di dolore, confusione e disgregazione.
Caposaldo della letteratura mondiale, il libro di Roth apparentemente non sembra aver avuto influenze sull’istallazione Pastorale, che l’artista Nico Vascellari ha proposto al Palazzo Reale di Milano, che si è inaugurata il 1° aprile e che resterà aperta fino al 2 giugno 2025. Nei testi che accompagnano la mostra, infatti, viene spiegato che il titolo Pastorale è stato suggerito all’artista dalla Sesta Sinfonia di Beethoven, realizzata tra il 1807 e il 1808, periodo in cui il compositore si lasciò influenzare dal suo amore per una vita bucolica spesa tra campagne e boschi. Il riferimento a un immaginario idilliaco e arcadico andrebbe quindi a collidere con la tenuta formale e il contesto in cui l’opera site specific di Vascellari si inserisce, la splendida Sala delle Cariatidi, che ancora mostra ferocemente i danni dei bombardamenti che nel 1943 colpirono Palazzo Reale. Qui, sotto gli occhi di cariatidi mutilate e abrase, è stato disteso un vastissimo tappeto di terra, mentre al centro domina un grosso corpo metallico, formato da due cilindri sovrapposti. A intervalli non regolari, il silenzio della sala viene scosso da un boato originato dalla scultura meccanizzata, che contestualmente spara in aria una grande quantità di semi che si riversano sulla distesa terrigna. Questi dovrebbero così trasformare quel desolato panorama in un rigoglioso prato, anche se a pochi giorni dalla chiusura la vegetazione sembra aver attecchito solo in minima parte.
Vascellari vorrebbe evocare un’atmosfera disorientante nell’ambiente neoclassico, seppur ormai vestigia di quello che fu un tempo: il corpo cromato e meccanizzato, come una realtà aliena o postumana, innesca il ciclo della vita, che neppure davanti ai drammi della guerra si arresta. Le sementi selezionate poi appartengono tutte a erbe infestanti, quelle che genericamente vengono chiamate erbacce e che quotidianamente vengono sradicate da giardini e campi per far posto a quelle selezionate. Pastorale diventa così nelle idee di Vascellari un “inno alla resistenze, poiché quello che viene estirpato trova sempre la necessità di manifestarsi”.
A questi ambiziosi intenti fan coro le parole del curatore Sergio Risaliti, che ormai da tempo collabora con l’artista e che ha parlato di “radicalità” nel lavoro di Vascellari, oltre che di “coraggio di affondare nella parte più oscura della natura umana e dei processi storici”. Non differentemente anche la stampa ha accolto l’intervento nella Sala delle Cariatidi come emblema della resilienza della vita umana, che davanti a devastazioni e guerre riesce sempre a ripartire. Tutti insomma sembrano essere concordi: Vascellari ha saputo inserirsi in Palazzo Reale con un’opera di grande livello e dai significati profondi. Dovrete perciò perdonarmi se il mio cinismo non mi permette di prendere parte a questo plauso, se più che le note della Pastorale di Beethoven, davanti a questa operazione mi risuonano nella testa le parole di quella di Roth, quando scriveva della “monotona cantilena degli indottrinati, ideologicamente corazzati da capo a piedi; la monotona, imbambolante cantilena di coloro la cui turbolenza può essere ingabbiata solo nella soffocante camicia di forza del più coerente dei sogni”. Va certo rintracciata nei miei limiti la difficoltà che ho ad apprezzare l’installazione di Vascellari, dove tutto mi appare desunto da un linguaggio formale stancamente derivativo e contenutisticamente sintonizzato su messaggi banali e omologanti.
Verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole”, e neppure sotto le luci dei led che riescono a malapena a far spuntare qualche filo d’erba; la tenuta formale dell’opera di Vascellari si muove sul già visto e già detto, non dissimile da certe soluzioni estetiche già ampiamente indagate dall’arte povera, in particolare nel dualismo tra le superfici asettiche e artificiali della scultura cilindrica che domina invece un tappeto di materia organica e viva. Al centro di questa opposizione tra artificiale e naturale si collocano numerose opere storicizzate che hanno già esplorato con profondità ed efficacia lo stesso terreno poetico. Basti pensare a Senza titolo (Struttura che mangia) di Giovanni Anselmo (1968), forse la sua scultura più celebre: due blocchi di granito tenuti in tensione dalla presenza di un cesto di lattuga, che marcendo interrompe l’equilibrio e attiva una riflessione sulla transitorietà della materia e sul ciclo vitale. O ancora agli alberi di Giuseppe Penone, dove l’artista “scava” travi industriali per farne emergere il cuore vegetale, oppure alla sua iconica Continuerà a crescere tranne che in quel punto, in cui una mano in bronzo ancorata a un albero condiziona la sua crescita, divenendo così interferenza fisica e simbolica nei processi naturali.
Anche l’idea stessa di riportare frammenti di natura all’interno di contesti antropici e museali non è affatto nuova. Ne è un esempio il lavoro di Pierre Huyghe, che costruisce ecosistemi semi-autonomi abitati da piante, animali e macchine, generando spazi ibridi, profondamente ambigui. Allo stesso modo da anni lo svedese Henrik Håkansson introduce all’interno dei musei porzioni di paesaggio vivo, destabilizzando la percezione del pubblico e mettendo in discussione i confini tra cultura e natura. Perfino il gesto del seminare mosso da un’attitudine naturalista è stato più volte affrontato, a partire dalle 7.000 querce di Joseph Beuys, piantate a Kassel nel 1982 come azione di rigenerazione ecologica e sociale, fino a Tree Mountain – A Living Time Capsule di Agnes Denes (1992–1996), un’immensa montagna artificiale in Finlandia dove furono piantati 11.000 alberi secondo uno schema basato sulla sezione aurea, dando origine a una vera e propria foresta concepita come scultura vivente.
A questo filone si aggiunge anche il fenomeno del guerrilla gardening, che vede artisti e cittadini trasformare spazi abbandonati in orti urbani e aiuole. E neanche il fondale marino è stato “risparmiato” dalle amorevoli cure degli artisti: si pensi al lavoro di Jason deCaires Taylor, che realizza sculture pensate apposta per favorire la ricrescita di praterie marine e coralli, mentre Marco Barotti, per niente estraneo alle poetiche di Pastorale, dota le sue sculture subacquee di tecnologie sonore per incentivare lo sviluppo della vita sottomarina.
Peraltro, per quanto anche queste operazioni storiche non fossero esenti da una certa quota di retorica, avevano però il coraggio – e l’ambizione – di produrre effetti reali, tangibili, duraturi. Si sono imposte come interventi permanenti, capaci di generare ambienti fruibili dalla collettività, o quantomeno di offrire un contributo concreto, per quanto simbolico, al discorso ecologista. Al confronto, il tappeto spelacchiato di Vascellari è destinato con ogni probabilità a finire nella spazzatura nel giro di pochi giorni. Più che atto pastorale, un gesto effimero mascherato da consapevolezza green.
Ma ciò che più affatica in Pastorale non è tanto la riproposizione stanca di formule visive già viste, quanto la costruzione di una narrazione retorica, scollegata da ogni reale urgenza o spinta innovativa. Qual è il messaggio davvero? Se vuole dirsi ambientalista, siamo di fronte all’ennesima estetizzazione di un discorso già ampiamente metabolizzato dall’arte contemporanea, fino alla nausea. Se invece vuole ammiccare alla ciclicità della vita che resiste ai traumi, basta visitare qualunque premio per giovani artisti per ritrovarsi di fronte all’ennesima piantina che cresce dal cemento. Pastorale non aggiunge nulla a questo immaginario. E, di certo, non regge il confronto con la lucidità brutale di un’opera come A Thousand Years di Damien Hirst del 1989, dove, dentro una teca di vetro, larve nate da una testa mozzata di mucca diventano mosche solo per morire fulminate da una lampada antizanzare. Altro che resilienza: quella sì che è una visione implacabile del ciclo della vita, non una patinata metafora da catalogo. Ancora più preoccupante, infine, è l’ipotesi – suggerita dalle parole del curatore e dal contesto stesso della Sala delle Cariatidi – che Pastorale voglia proporsi come allegoria dell’instabilità geopolitica contemporanea, un grido contro la guerra. Se così fosse, l’operazione fallisce clamorosamente. Perché l’arte, quando decide di confrontarsi con la brutalità del presente, non può accontentarsi di allusioni vaghe o di estetiche evocative: deve ambire a incidere, scuotere, generare una trasformazione – anche minima – nella coscienza individuale o collettiva. Parlare di guerra e ingiustizia con l’arte significa dare voce a chi non ce l’ha, creare dissenso, costruire visioni alternative, non gettare qualche segnale criptico in una sala storica, confidando nella reverenza del luogo. In certi casi, l’arte diventa simbolo, rinnova i miti fondativi, crea una memoria condivisa. Ma Pastorale non riesce né a denunciare, né a resistere. Non genera riflessione, né sdegno, né empatia. Non è Guernica, che proprio in quella sala nel 1953 seppe dare forma all’orrore della violenza fratricida. Né riesce ad assorbire e restituire la memoria profonda della Sala stessa, che con le sue pareti ferite è già di per sé un’opera più potente di qualsiasi istallazione. Neppure come atto di resistenza culturale, come invece suggerisce Vascellari, l’opera sembra reggere. Perché se c’è un simbolo di riscatto, di rinascita dopo la distruzione, è proprio Palazzo Reale, luogo martoriato dalla guerra e oggi restituito alla città come spazio di cultura internazionale. Pastorale, al confronto, è una presenza fugace, un gesto evanescente che rischia di dissolversi nel vuoto che pretende di denunciare.
Pastorale poi non si pone neanche come gesto costruttivo. La si confronti, per esempio, con l’operazione dell’artista messicano Juan Pablo Macías, che nel 2014 dà vita nel paesino abruzzese di Guilmi alla BAS – Banca Autonoma di Sementi Liberi da Usura, un progetto anarchico, che promuove lo scambio di semi antichi – non manipolati dall’industria chimica e non soggetti a obsolescenza programmata – per mostrare ai contadini che sì, esistono forme di resistenza concreta al dominio del capitalismo predatorio. Insieme ai semi si scambiavano anche conoscenze, tempo, relazioni. Un’arte che si faceva azione, incontro, politica dal basso.
Tutt’altra cosa rispetto a operazioni come Pastorale, che si limitano a sfiorare grandi traumi della contemporaneità: guerra, ecologia, ingiustizie sociali, senza osare alcuna proposta, senza costruire nessuna vera riflessione. Così facendo, diventano solo un comodo esercizio per benpensanti annoiati, un balsamo ideologico per anime tiepide. Per dirla con Pastorale americana di Roth: “È incontestabile che, nella vita, non c’è nulla che dia più sollievo di uno scatto di legittima indignazione”.
Parlare di guerra, ingiustizia sociale, disuguaglianze economiche o crisi ambientale senza mai rischiare davvero, senza mai sporcarsi le mani, significa partecipare a quella forma di intrattenimento impegnato che tanto piace oggi al sistema dell’arte. Una retorica vuota che consola chi può permettersi il lusso di indignarsi da lontano, di sentirsi meno colpevole, di convincersi – senza fatica – di star facendo la propria parte. E davanti a queste costose messinscene travestite da impegno civile, così rassicuranti, così perfettamente allineate con le opinioni più condivise e mai scomode, viene spontaneo urlare l’accusa che nel romanzo di Roth viene rivolta a Seymour Levov, il protagonista incapace di una scelta autentica, sempre alla ricerca del consenso, sempre dalla parte “giusta”: “Tu ti nascondi. Non scegli mai.”
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio. Cresciuto giornalisticamente dentro Finestre sull'Arte, nel 2025 ha vinto il Premio Margutta54 come miglior giornalista d'arte under 40 in Italia.