Dieci anni di riforma Franceschini: una riforma a metà


Che quella di Franceschini sia stata una riforma perfettibile lo si sa. Che non sia molto amata, anche; che nel bene e nel male, poi, abbia smosso il sistema, e che abbia avuto delle intuizioni positive, in pochi lo hanno notato, e ancor meno ammesso. Una valutazione sulla riforma dieci anni dopo.

Che quella di Franceschini sia stata una riforma perfettibile lo si sa: “una riforma a metà”, direi. Che non sia molto amata, anche, va detto; che nel bene e nel male, poi, abbia smosso il sistema, e che abbia avuto delle intuizioni positive, in pochi lo hanno notato, e ancor meno ammesso (più che altro per campanilismo spicciolo).

Sicuramente il suo più grande pregio è che, nel tempo, e nella lunga stagione che ha caratterizzato la passata gestione del MIC, prima MiBACT, poi MiBAC ecc, è sempre restata incardinata ad una prospettiva: voler rendere il sistema museale nazionale innanzitutto un sistema contemporaneo e compiuto, realmente sostenibile. Ed in parte vi è riuscita: se oggi possiamo considerare il futuro del sistema museale in chiave di sviluppo tutto sommato positivo, lo si deve anche a quella riforma.

Tuttavia ai buoni intenti talvolta è mancata una lucida attuazione: come per esempio con le “Domeniche Gratis al Museo” che, se da un lato hanno creato (volevano creare) una occasione favorevole di accessibilità per ravvivare i consumi culturali, oggi troppo spesso sono interpretate tout court come LA soluzione ad un problema più radicale di attrattività dei pubblici, e non intese come parte di una strategia (ad esempio unite ad una deregulation sugli orari d apertura, o una rimodulazione di biglietteria implementata da un sistema di “card/abbonamenti”), finendo così per promuovere ed enfatizzare solo una forte rivalità tra istituti di cultura basata sui numeri e sulla quantità, a scapito di una fruizione di qualità, amplificando le condizioni affinché i pubblici -soprattutto italiani- di musei e parchi archeologici diventino tali (quasi) solo nei giorni di gratuità, appunto, lasciando poco spazio (o nulla) agli altri giorni del mese. Trovo ci sia qualcosa di profondamente distorto in questo.

Ad ogni buon conto alcune mosse giuste sono state fatte e bisogna concederlo. A cominciare dal riconoscimento del principio proprio di valorizzazione e del suo rapporto propedeutico (e necessario) tra tutela del patrimonio e la sua gestione, fino all’idea delle autonomie di alcuni istituti museali particolarmente rappresentativi, scissi dalle soprintendenze, attuata con l’idea di modernizzare i nostri gradi musei nazionali rendendone il profilo più europeo. Una intuizione che ancor oggi, in nuce, si muove su dei principi buoni come: facilitare la sussidiarietà gestionale del patrimonio e delle collezioni che custodiscono, sburocratizzarne l’organizzazione, implementare e snellirne la capacità propositiva e decisionale su interventi di comunicazione e marketing, ma anche su interventi didattici, scientifici e di ricerca, toccando esposizioni, prestiti, restauri, acquisizioni ecc… , ponendo le specificità dei singoli istituti al centro delle loro politiche gestionali (di contro una generalista centralizzazione statale), quindi, di fatto, arginando la perdita di competitività del “sistema cultura” dell’Italia nel mondo.

Visitatori ammirano il Tondo Doni agli Uffizi
Visitatori ammirano il Tondo Doni agli Uffizi

In questo senso nel tempo le autonomie, hanno oggettivamente cambiato una certa idea di museo, e creato delle opportunità per alcuni istituti che in dieci anni sono cresciuti molto e bene, attestandosi posti di rilievo nel panorama europeo (pensiamo a Pompei o agli Uffizi, su tutti). Purtroppo la crescita cui si è sempre più guardato in questi 10 anni è stata sostanzialmente quella dell’efficienza economica degli istituti, e della loro capacità di generare incassi data dal numero di ingressi. Ma davvero per individuare il “successo” (o meno) di un museo e di una intera riforma basta questo? Non sarebbe stato meglio (molto) se partendo da quei numeri “positivi” si fosse iniziata, ad esempio, anche una ridefinizione di nuove metriche, adeguate e condivise per la valutazione anche degli impatti extra-economici che i musei possono generare (in gran parte intangibili e soggettivi) che li rendono attori economici e attivatori di differenti filiere? Ma su questo punto la riforma è stata manchevole, continuando a non intendere la cultura quale infrastruttura complessa con impatti che vanno al di là dell’apprezzamento, facendo si che il nostro sistema culturale non sia ancora realmente un “sistema” maturo.

Quindi esistono diversi “rovesci della medaglia” della riforma: come detto sopra, si tratta di una riforma a metà. Che, ancora, nonostante dica di dare libertà agli istituti, non è mai concretamente riuscita ad intervenire in maniera sostanziale su problematiche complesse ed ancor più su urgenze e storture (alcune ataviche) dell’intero sistema museale. Come ad esempio ovviare al fabbisogno di nuovo di personale, ad esempio non modificando le metodologie di reclutamento, ancora vincolate ai dettami ministeriali che immutabilmente rispondono ancora alle stesse prospettive del secolo scorso, con, da un lato, pochi maxi-concorsi rigidamente standardizzati, in soluzione unica, con migliaia di nuovi assunti ma in ruoli generali, spesso di basso profilo, e comunque insufficienti a tamponare le carenze di organico; e dall’altro, con poche (pochissime) aperture tecniche che comunque guardano a professionalità storicamente assodate e ammesse, spesso costrette alla tuttologia, ignorando che le evoluzioni nel settore siano state tali e tante (anche solo negli ultimi 5anni) da creare quotidianamente nuove opportunità e necessità professionali cui dover rispondere prontamente.

Inoltre, nel tempo, proprio grazie (o a questo punto, a causa) delle autonomie dei grandi musei nazionali, si sono andate ad amplificare differenze e contrapposizioni geografiche nel paese, acuendo una già grave polarizzazione di investimenti, risorse (anche del poco personale) e interventi su poche aree che definiremmo main stream, con conseguenti fratture nei tessuti culturali locali. Una rischiosa tendenza che non pare oggi aver trovato soluzione, anzi: oggi i musei autonomi, da 20, arriveranno ad essere 60, ognuno col suo logo e brand. Ed è qui che il modello delle autonomie museali voluto da Franceschini trova molti dei suoi limiti: il principio di autonomia basata sulla “eccezionalità” funziona se considerata extra-ordinaria, appunto. Invece oggi proprio questa eccezionalità viene derubricata ad ordinarietà amministrativa diffusa, diluendone la portata fino a renderla sistemica, quindi senza alcuna eccezionalità propria: se ecumenicamente pian piano tutti gli istituti diventeranno “autonomi”, oggettivamente nessuno lo sarà più secondo le prerogative d’origine ma semplicemente lo sarà per demandare responsabilità di gestione, creando molte “monadi” operanti sempre più in affanno, secondo una “valorizzazione a tutti i costi”, quindi senza una applicazione organica e regolata da una visione di “paese”, piegandosi sempre più verso un esercizio di sola commercializzazione, senza strategia, o peggio con una strategia solo competitiva, effimeramente campanilistica.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 21 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.


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