Mi sono trovata recentemente a riflettere su quanto l’animo tormentato di certi artisti eserciti tuttora dopo secoli un certo fascino, spesso in misura maggiore rispetto a quegli artisti la cui arte esprime perfezione. E su quanto questo fascino si eserciti in particolare su quelle persone che a loro volta definiscono se stesse “tormentate” perché estremamente riflessive, tendenti al malinconico, che si pongono mille domande di natura esistenziale e filosofica sulla propria individualità e sulla società in cui vivono. Sembrerebbe più logico se una persona con questa indole fosse più attratta da un’arte che tende alla perfezione, come ad esempio dalle opere di Raffaello o di Canova, l’uno maestro dell’armonia e della bellezza ideale, l’altro tra i maggiori esponenti del Neoclassicismo, che unisce un’estrema grazia all’equilibrio e alla compostezza, ma spesso invece si verifica il contrario. Premetto che non mi intendo di psicologia dell’arte, nonostante sia un aspetto legato al mondo dell’arte che mi affascina molto, ovvero come le emozioni e la psiche interagiscano con l’opera d’arte, ma credo che funzioni in un modo simile a quando siamo tristi e tendiamo ad ascoltare canzoni che ci fanno piangere, mentre quando sprizziamo felicità da tutti i pori tendiamo ad ascoltare musica allegra che ci fa ballare, cantare e aumentare così la nostra contentezza.
Penso che di fronte a un’opera che è espressione del tormento di un artista si crei una sorta di risonanza emotiva, d’identificazione, perché è come se l’animo tormentato dell’artista diventasse uno specchio dei tormenti esistenziali dell’osservatore, che in lui si riconosce, sentendosi meno solo. Quando una persona vive uno stato interiore di confusione, di malinconia, di disagio o di sofferenza, spesso si sente isolata, incompresa, “fuori posto” nel mondo e incontrare un artista che esprime quel dolore in una forma tangibile, che può essere un’opera d’arte, una poesia, una canzone, mette in moto una serie di sensazioni e di emozioni che portano a provare un legame profondo e intimo con ciò che queste trasmettono, forse perché in quel dipinto, in quella poesia o in quella canzone la persona trova piena espressione concreta di ciò che magari lei prova ma non riesce ad esternare. È come se le corde interne dell’anima di chi osserva, legge o ascolta vibrassero insieme alle opere, e idealmente insieme all’anima di chi le ha create. E spesso questo ha un effetto liberatorio per chi condivide in silenzio.
Può essere inoltre che opere che portano dentro un tormento, una sofferenza riconoscibile e condivisibile possa sembrare più autentica, più vera. Come se queste fossero testimonianza di un artista che ha scavato così a fondo dentro di sé da arrivare a toccare qualcosa di universale, generando un’equazione del tipo sofferenza interiore = profondità = arte vera. Seguendo questo ragionamento, quindi, un artista tormentato potrebbe venire percepito come più autentico, più interessante, più profondo, poiché nella vita reale e quotidiana nessuno è perfetto.
Un altro motivo, secondo me, è la capacità che hanno queste opere di far riflettere in profondità, di far emergere verità che spesso restano nascoste dietro la frenesia e la routine della vita quotidiana. Ci obbligano a fermarci, a sentire, a confrontarci con le nostre parti più vulnerabili. Attraverso la sofferenza o la fragilità dell’artista, veniamo messi di fronte a temi universali come l’imperfezione, il dolore, il mancato raggiungimento della felicità o il senso di disadattamento rispetto al mondo. Ed è proprio questa capacità di scavare sotto la patina del quotidiano, di toccare corde intime, che conferisce a questo tipo di arte una profondità affascinante. È un’arte che non permette l’indifferenza perché costringe a sentire, a pensare, a guardare dentro di sé. In un mondo che spesso ci invita alla superficialità, alla distrazione, queste opere riescono a dar voce a ciò che tendiamo a tenerci dentro, rendendolo visibile, condivisibile e persino bello nella sua cruda verità.
Quando penso ad artisti dall’animo tormentato penso ad esempio a Caravaggio, a Michelangelo, a Van Gogh, a Munch, a Frida Kahlo, Jean-Michel Basquiat o a poeti come Leopardi: le loro opere sono piene espressioni dei loro tormenti, dei loro drammi esistenziali e le loro stesse vite hanno contribuito ad alimentare quell’aura di fascino di cui tuttora godono. Le loro biografie sono infatti altrettanto celebri quanto le opere che hanno creato. Si potrebbe obiettare che questi tuttavia non siano gli unici artisti ad avere avuto vite non proprio tranquille e caratteri difficili nel corso della storia dell’arte (si pensi a Borromini, che morì suicida, o a Guido Reni, molto schivo, collerico e con il vizio del gioco), ma fatto sta che questi più di altri sono diventati emblemi dell’artista tormentato, probabilmente perché in essi vi è una straordinaria combinazione tra la vita travagliata e l’inquietudine espressa nella loro arte.
È da specificare ovviamente che quella sorta d’identificazione a cui si accennava non è da intendersi come un’identificazione nelle vicende biografiche dell’artista. È chiaro che chi è affascinato dall’arte di Caravaggio non andrà a ubriacarsi e a fare risse o ad uccidere qualcuno in un’accesa lite o a fuggire di città in città a seguito di una condanna. Ci s’identifica invece con il più generale concetto d’inquietudine e di tormento che scaturisce dalle opere e che Caravaggio esprime attraverso il potente contrasto tra luci e ombre o attraverso la crudezza di alcune scene splatter come la Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini a Roma, dove il sangue copioso che schizza dalla testa del generale assiro tagliata dall’eroina biblica disegna addirittura linee rette che si prolungano fino alle bianche lenzuola, o come nel Davide con la testa di Golia della Galleria Borghese dove, parimenti, il sangue sgorga in grande quantità dalla testa mozzata del gigante (un autoritratto dello stesso Merisi) sorretta per i capelli dal giovane eroe. E lo stesso vale per gli altri artisti citati: è un’identificazione in ciò che le loro opere esprimono.
Michelangelo Buonarroti rappresentava la propria sofferenza esistenziale attraverso la tecnica del non-finito: una sofferenza che nasceva dalla consapevolezza della fragilità dell’essere umano, ma soprattutto dal contrasto tra la tensione verso la perfezione e la consapevolezza di non poterla raggiungere poiché riteneva impossibile rappresentare con la materia qualcosa di perfetto e di incorruttibile come la perfezione divina di un’idea. Oltre ai Prigioni, opera simbolo della tecnica del non-finito è considerata la Pietà Bandini, che venne presa addirittura a martellate dallo stesso Michelangelo a seguito della sua solita insoddisfazione.
Nei cieli dipinti da Van Gogh si riflettono tutte le sue inquietudini interiori, i suoi drammi psichici e i suoi stati d’animo più tormentati. I suoi cieli sembrano agitarsi come la sua anima: tra i quadri più esemplificativi è sicuramente Il Campo di grano con volo di corvi, dipinto poco prima della morte del pittore. Il cielo scuro e turbolento, il campo agitato e il volo disordinato dei corvi, spesso letto come simbolo di presagio di morte, creano un’atmosfera cupa, minacciosa. È un vero paesaggio dell’anima tormentata di Van Gogh. Come non citare poi L’Urlo di Munch, il pittore norvegese che forse più di qualsiasi altro artista ha fatto del tormento il tema centrale della sua opera. Il suo Urlo è l’urlo universale di fronte all’angoscia esistenziale. Nessuno prima di lui aveva deformato in quel modo la figura umana, come deforme risulta qui anche lo stesso paesaggio su cui il disperato grido si riverbera.
E ancora, Frida Kahlo trasformava il dolore fisico e psicologico in arte. Dopo un incidente che la segnò per tutta la vita, cominciò a dipingere se stessa come simbolo del corpo e dell’identità ferita, come ne Il cervo ferito o ne La colonna rotta. Sono i suoi numerosi autoritratti, le opere in cui Frida ha rappresentato tutto il caos interiore e il travaglio esistenziale causato dai molti interventi e dai tradimenti del marito. Basquiat rappresentava la realtà, anche se cruda. La sua arte è un grido visivo, pieno di dolore personale, ma anche di denuncia. È un grido che parla delle ingiustizie nei confronti degli afroamericani, di violenza insita nella società, di disagio, attraverso la ricorrenza di parole scarabocchiate, colori contrastanti e composizioni caotiche.
Ciascuno di questi artisti ha saputo raffigurare il suo animo tormentato utilizzando il proprio linguaggio espressivo. Attraverso la pittura e la scultura, hanno dato forma visiva alle loro ferite, alle loro paure, alle loro inquietudini più profonde, come Giacomo Leopardi lo ha fatto in poesia: anche lui ha dato voce a sentimenti universali come il dolore, la solitudine, la malinconia, l’infelicità, facendo del pessimismo (addirittura in tre fasi) il concetto fondamentale della sua poetica.
Come Leopardi ha usato le parole per esprimere il disagio dell’esistenza, questi artisti hanno usato il colore, la forma, il segno. In modi diversi hanno reso l’arte un riflesso sincero della propria interiorità tormentata. Le loro opere ci parlano ancora oggi, a distanza di secoli, perché toccano corde profonde e universali. Di fronte a loro ci sentiamo più imperfetti, ma più umani. È così che, anche nella fragilità e nel tormento, l’arte ci unisce e ci ricorda che, a volte, proprio dalle ferite può emergere la voce più sincera dell’anima.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.
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