Perché è sbagliato ridurre tutto a chiusuristi vs. aperturisti. L'esempio della cultura


Il dibattito sul Covid sembra essere ormai ridotto a uno scontro tra “chiusuristi” e “aperturisti”. Ma si può davvero banalizzare così tanto il problema? L'esempio della cultura dimostra che le narrazioni troppo semplici non sono la risposta.

Anche tra chi s’occupa di cultura si percepisce, in queste ore, una forte ostilità alle riaperture del 26 aprile, viste da più parti come una cessione del governo alla “destra aperturista” (cito Tomaso Montanari). Credo che ridurre la questione nei termini dello scontro tra una presunta “destra aperturista” e un’ipotetica “sinistra chiusurista” sia un modo di banalizzare eccessivamente un problema estremamente complesso, che non è così netto, e che soprattutto dev’essere valutato in maniera equilibrata, con attenzione alle diverse componenti che agiscono sul “rischio ragionato” che il governo s’è assunto venerdì scorso. È vero che tendenzialmente i partiti che rappresentano le istanze di aziende e autonomi sono più a favore delle aperture, ma è anche vero che oltre le Alpi la situazione è molto più sfumata: in Francia, per esempio, il partito La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, che ha posizioni politiche simili a quelle di chi in Italia auspica chiusure a oltranza, da settimane chiede alternative al confinement, in Germania la capogruppo dei Verdi al Bundestag che ha criticato il coprifuoco dicendo che dovrebbe essere l’ultima spiaggia se il resto non funziona, in Belgio il Partito dei Lavoratori ha presentato un disegno di legge per abolire il coprifuoco, e così via (i politici più accorti non discutono di aperture contro chiusure: semmai, la mettono sul piano delle misure necessarie contro quelle esagerate). E ad ogni modo, se in Italia ci sono parti politiche che cavalcano la protesta credo sia anche perché chi dovrebbe proteggere le istanze di quanti ora se la passano male ha lasciato ampie praterie da cavalcare (personalmente faccio fatica a vedere, nel parrucchiere sotto casa o nell’estetista della via accanto o nel piccolo barista di paese, un pericoloso avversario politico).

Ma al di là delle posizioni, il problema delle riaperture deve tener conto di più fattori: la crisi sanitaria non è che una delle componenti della questione. Per una valutazione più completa del “rischio ragionato” (una “decisione politica” come si sono affrettati a rimarcare molti scienziati, e ci mancherebbe che non fosse così: la scienza fornisce pareri e consulenze alla politica, ma è quest’ultima che decide, sulla base di diversi altri elementi che incidono sulle nostre vite, e che non possono e non devono essere trascurati se l’obiettivo è quello di assumere scelte che hanno un impatto sull’esistenza di tutti), si potrebbe prendere a esempio ciò che succede nel nostro settore, dove esiste un fortissimo precariato: quello dei lavoratori dei concessionari dei musei, quello degli intermittenti dello spettacolo, quello dei lavoratori delle cooperative che si occupano di didattica. A questo precariato ormai strutturale va poi ad aggiungersi il lavoro di tantissimi autonomi (le guide turistiche, per esempio) o lavoratori a partita IVA che hanno visto azzerarsi quasi del tutto il lavoro. Un microcosmo che costituisce però l’ossatura fondamentale del settore della cultura: dai dati diffusi due settimane fa da Mi Riconosci, che ha sottoposto un questionario a una base di un migliaio di lavoratori della cultura, risulta che solo in 30 su 100 hanno mantenuto il lavoro esattamente come prima, e che c’è un 67% di chi, tra quanti lo hanno mantenuto in parte, ritiene insufficienti i sussidi (percentuale che sale al 79,5% se si tiene conto di quanti invece hanno perso il lavoro). Non ho idea di quali siano le proporzioni negli altri settori, ma non penso che la situazione sia tanto diversa. S’aggiunga poi che eravamo avvisati da mesi circa il rischio di forti tensioni sociali, che si stanno puntualmente presentando.

Visitatori alla Galleria Borghese il 18 maggio 2020, primo giorno di riapertura dopo il primo lockdown
Visitatori alla Galleria Borghese il 18 maggio 2020, primo giorno di riapertura dopo il primo lockdown

I temi su cui forse servirebbe discutere, e nel modo più unito e bilanciato possibile, credo siano essenzialmente tre. Primo: quanto, cosa e quanto a lungo possiamo aprire senza fare danni (e dunque, anche quanto e cosa possiamo riaprire in relazione all’andamento della campagna vaccinale). Secondo, quanto possiamo permetterci ulteriori chiusure. Terzo, quali modelli intendiamo perseguire per il post-pandemia: l’orizzonte di molti, purtroppo, è quello del giorno dopo, ma a questo punto, soprattutto nella cultura, un momento di discussione su cosa accadrà dopo il Covid è sempre più irrimandabile.

Sul primo punto occorrerà ricordare che il governo non ha dato il via libera a tutto, ma ha semplicemente ripristinato la situazione in essere prima di Pasqua, quando c’erano ancora le zone gialle, con in più la possibilità di aprire i ristoranti all’aperto e con una serie di scadenze che vanno ben oltre il 26 aprile. Pertanto, francamente, trovo sia esagerato parlare di grandi aperture e di “via libera” assortiti. Dalla nostra parte abbiamo poi la stagionalità (più s’alzano le temperature, meno circola il virus), e la campagna vaccinale che, pur tra le tante e note difficoltà, prosegue. Il mese scorso, il Corriere della Sera ha pubblicato un bel servizio di Milena Gabanelli in cui si calcolava la data di ritorno a un qualcosa di simile alla normalità basandosi sul presupposto di far arrivare il Covid a livelli di letalità simili a quelli dell’influenza (ovvero dagli attuali 11 casi per mille a 1 caso per mille, s’apprende dal servizio), continuando a vaccinare ai ritmi attuali e sperando che le dosi arrivino nei tempi stabiliti. Secondo questi calcoli, raggiungeremo l’obiettivo di 1 caso su 1000 il 25 giugno (e raggiungere l’obiettivo significa ridurre drasticamente il carico sugli ospedali che, da quanto mi risulta, dovrebbe essere il vero scopo delle misure restrittive: non è che si chiude per eradicare la malattia o per arrivare a un rischio zero, che ormai pare impossibile, ma si chiude per garantire a tutti livelli di assistenza adeguati). Di conseguenza, penso ci siano i presupposti per calcolare che la situazione andrà migliorando.

Occorrerà poi ribadire che la stessa comunità scientifica non è così nettamente schierata in favore di misure ultrarestrittive: a fronte dei malumori di un Crisanti o di un Galli ci sono, giusto per rimanere nell’ambito degli scienziati più mediatici, un Bassetti, un Vaia e addirittura un Burioni meglio disposti sul tema delle riaperture (le nuove decisioni del resto sono state prese anche sulla base di studi scientifici che dimostrano come all’aperto sia raro contrarre l’infezione). Anzi: mi fa piacere che Burioni abbia scritto che, ora che si riapre, è sua intenzione “tornare nei musei come una volta”. Ecco: quando si prospettano aperture, occorrerebbe anche domandarsi se abbia senso opporsi alle aperture in toto, o se ci siano delle aree che si possono riaprire in tranquillità. I musei e i luoghi della cultura in generale credo siano tra i luoghi che si possono riaprire senza aver timore di pentimenti: varrà la pena ricordare anche che in Spagna, dove la maggioranza è di centro-sinistra, la cultura ha chiuso molto poco e, anzi, il governo ha promosso una campagna per incentivare gli spagnoli ad andare al museo o a teatro. Anche in Italia si sarebbero potuti tenere sempre aperti i musei: in quelle poche settimane di riapertura, tra gennaio e febbraio, sono stati rispettosissimi dei protocolli e hanno fatto segnare ingressi a tassi men che dimezzati rispetto a quelli del 2019. Non dimentichiamo poi che, nelle situazioni più serie, saranno ancora in vigore le zone arancioni e le zone rosse.

Sul secondo punto, si può ripartire dal tema dei lavoratori della cultura: semplificando, ci sono 7 su 10 lavoratori che hanno mantenuto in parte il lavoro e che ritengono insufficienti i sussidi, e 8 su 10 che lo hanno perso li ritengono a loro volta non soddisfacenti. Il governo che ha calcolato il “rischio ragionato” probabilmente avrà anche considerato che i ristori non possono essere infiniti, perché pagare i lavoratori (poco e in modo insoddisfacente) per rimanere a casa significa aumentare fortemente il debito che qualcuno in futuro dovrà pagare (senza tener conto del fatto che si pone anche un serio problema di dignità del lavoratore). Ristori, casse integrazioni e sussidi vari sono al momento finanziati in deficit, e al momento abbiamo un debito pubblico che è arrivato a quasi il 160% del Pil (siamo a livelli di spese di guerra) e un deficit cresciuto all’11,8%. Evidentemente il governo, nel calcolo del “rischio ragionato”, avrà anche considerato se e quanto possiamo permetterci di indebitarci per pagare sussidi che dai più sono ritenuti insoddisfacenti (faccio l’esempio della cultura ma immagino che sia più o meno lo stesso anche in altri settori). È un argomento molto poco mainstream (tra i “volti noti” del milieu intellettuale del paese ne hanno parlato solo Cacciari, che peraltro già in ottobre proponeva una patrimoniale per appianare le disuguaglianze, e pochi altri) ma fondamentale nel calcolo del rischio.

La Banca d’Italia ha fatto sapere proprio stamani che il debito pubblico italiano è ancora sostenibile, ma occorrerà sostenere la ripresa con gli interventi previsti con i fondi Next Generation EU (il piano sarà reso noto nei prossimi giorni), e soprattutto servirà che questi interventi siano efficaci. Inoltre, ha dichiarato Eugenio Gaiotti, Capo del Dipartimento Economia e statistica di Banca d’Italia, far rimanere il debito pubblico su debiti molto elevati “lascerebbe il nostro Paese fortemente esposto a rischi derivanti da tensioni sui mercati finanziari o da nuovi shock economici. Per contrastarli, è essenziale che sia efficace lo stimolo alla crescita fornito da investimenti pubblici, da interventi che operino il necessario rafforzamento delle infrastrutture del paese e da riforme in grado di favorire produttività e investimenti privati”. Continuando sull’esempio del settore della cultura, ci sono aree che ancora per qualche tempo dovranno contare sui sussidi: si pensi, in particolare, a chi lavora con il turismo internazionale. La situazione però potrebbe essere diversa per chi invece lavora grazie ai consumi interni: la stessa Banca d’Italia ha rilevato come i consumi delle famiglie italiane siano fortemente condizionati dalla situazione epidemiologica, ma al contempo gli italiani sono disposti a riprenderli gradualmente se la contingenza sanitaria migliorerà (l’impatto della pandemia sui redditi, sottolinea Banca d’Italia, è stato fortemente eterogeneo).

Infine, sul terzo tema: siamo in grado di ragionare su modelli di sviluppo alternativo per la cultura? Su queste pagine, nei mesi “pandemici”, abbiamo sottolineato alcuni aspetti che potrebbero giovare alla discussione. Intanto, occorrerà tornare a domandarsi a che cosa serva la cultura (gli stessi istituti dovranno cominciare a riflettere su chi sono, cosa rappresentano, a chi intendono rivolgersi) e quali indicazioni possa fornire alla gestione delle città: come ha qui suggerito Paola Dubini, le politiche culturali post-Covid dovranno “esplorare con più decisione la relazione con la ricerca e con la salute, soprattutto mentale”. E ancora: sarà opportuno ripensare a nuovi modelli dei flussi turistici, pensare a una cultura più integrata nei tessuti delle nostre città, tentare di riorganizzare il settore in modo che sia più vicino alle esigenze dei cittadini, trovare modelli di gestione in grado di garantire una maggior sostenibilità agl’istituti. Di sicuro, possiamo per il momento evitare polarizzazioni che non servono a nessuno e che, al contrario, risultano solo dannose.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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