Banksy e l'opera tritata, quando l'arte contemporanea diventa caricatura di se stessa


Banksy e la sua “Love is in the bin”, l'opera andata distrutta durante un'asta da Sotheby's: colpo di genio o trovata pubblicitaria? Alcuni spunti di riflessione.

Il mai troppo compianto Tommaso Labranca, della cui dipartita ci s’è dimenticati alla velocità della luce, non nutriva grande apprezzamento per la figura di Banksy. Labranca aveva dedicato un capitolo del suo ultimo libro, Vraghinaroda, allo street artist inglese, ribattezzandolo “Banksyawn” con apprezzabile gioco di parole, e definendolo “il fenomeno più noioso del mondo”. “Non rappresenta alcuna eccezione”, scriveva lo scrittore milanese, “visto che tutti i divi dell’arte contemporanea sono noiosi, prevedibili”. E per Labranca, Banksy sta all’arte un po’ come Ariana Grande sta alla musica: “sopravvalutati entrambi, fastidiosi entrambi”.

Ora, l’occasione dell’esposizione in Germania di Love is in the bin, titolazione affibbiata alla “Ragazza col palloncino” tagliuzzata nel corso d’una vendita da Sotheby’s lo scorso ottobre, fornisce uno spunto utile per tornare a quei giorni d’autunno in cui tutto il mondo fu letteralmente catturato dalla trovata del graffitista inglese: e comunque la si voglia pensare circa il giudizio di Tommaso Labranca, e a prescindere dall’essere amanti o meno dell’opera di Banksy, tutti potremmo esser d’accordo sul fatto che, almeno in Italia, su quella vicenda siano quasi del tutto mancati punti di vista veramente alternativi, e si sia fatta una certa fatica a trovare sulla stampa articoli che s’allontanassero dal coro degli ammirati estimatori del congegno inserito da Banksy nella cornice per trasformare l’ignara ragazzina in un cumulo di tagliatelle. Rivisitazioni in chiave parodica a parte (alcune delle quali ci hanno, per l’appunto, restituito l’immagine della Balloon girl dentro macchine impastatrici), il marchingegno di Banksy ha raccolto quasi ovunque pareri positivi: c’è anche chi v’ha ravvisato una sorta di protesta contro la mercificazione dell’arte, con la bambina che, desiderosa di non tramutarsi in oggetto di scambio, decide di sminuzzarsi per evadere dalla cornice (senonché l’opera, secondo molti analisti, dopo aver subito un tale trattamento potrebbe aver conosciuto un considerevole aumento del suo valore economico, dacché da tela varie volte replicata s’è trasformata in un pezzo unico: insomma, se protesta contro la reificazione voleva essere, forse potrebbe non esser riuscita così bene).

Love is in the bin di Banksy
Love is in the bin di Banksy

Sarà pertanto utile, onde inquadrare meglio il fenomeno Banksy e la portata dell’episodio che ha stupito tutti lo scorso ottobre, ripartire da un paio di contributi apparsi l’uno in Italia, l’altro in Inghilterra, che hanno il pregio d’avanzare chiavi di lettura in grado d’aiutare a trarre conclusioni alternative su quanto s’è verificato da Sotheby’s. In un articolo apparso sulla testata Popmag a poche ore dalla vendita alla casa d’aste londinese, il giornalista Salvatore Patriarca ha sviluppato alcuni degli argomenti addotti dai sostenitori di Banksy finendo col rovesciarli: quanto al fatto che si sarebbe trattato d’un atto di distruzione artistica ed economica, potremmo asserire che la distruzione abbia in sé un suo valore significativo e abbia dunque prodotto un valore artistico inedito (tant’è che l’acquirente ha successivamente dichiarato d’esser stata ben contenta d’aver comperato l’opera, dal momento che adesso sarebbe diventata “un pezzo di storia dell’arte”). E lo stesso dicasi per il suo valore economico: non c’è stata alcuna distruzione, anzi, s’è detto di come per alcuni il valore dell’opera possa aver conosciuto un poderoso incremento per il fatto d’esser divenuta un unicum. Quanto invece alla presunta carica di negazione capitalistica che l’opera recherebbe con sé, Patriarca oppone l’argomento secondo cui per l’acquirente non c’è stato danno alcuno, in primis perché un’eventuale perdita avrebbe inciso poco sul conto di chi generalmente ha risorse economiche tali da procurarsi una tela di Banksy da un milione di sterline, e soprattutto perché l’opera potrebbe avere adesso un valore concreto molto più alto. Alla fine, piaccia o meno, l’opera non è stata distrutta in toto: s’è semplicemente trasformata. E come suole accadere a ogni oggetto che non finisce completamente distrutto, anche Love is in the bin ha un suo valore monetario e un suo prezzo.

Quanto ai risvolti pratici dell’accaduto, è interessante riferirsi all’articolo scritto da Thomas Marks per Apollo Magazine. È sicuramente affascinante, ha sottolineato il giornalista britannico, considerare l’intero espediente come una débacle per un’ignara Sotheby’s, che pure in una nota ufficiale ha dichiarato d’esser stata “banksyzzata” e che l’incidente era “inaspettato”. Occorre però fare i conti con le implicazioni del gesto: se davvero la casa d’aste fosse stata all’oscuro delle trame dello sfuggente Banksy, ha sottolineato Marks, le conseguenze per i suoi commerci sarebbero state altamente negative, perché il non sapere veramente che dentro una cornice si nasconde un congegno che distrugge un’opera condurrebbe a un necessario calo della fiducia dei consumatori, a una rapida crescita dei costi delle assicurazioni, e a una più che immediata verifica sui sistemi di controllo e sulle procedure di sicurezza interne. E al contrario, se Sotheby’s fosse stata al corrente dell’idea (cosa che a Marks appare più probabile), non sarebbe stata comunque immune dalle critiche per essersi deliberatamente fatta gioco della sua clientela. Ma in fin dei conti, poco importa: dentro un tritacarte non è finita una rara carta rinascimentale o una preziosa pala secentesca, ma una tela di Banksy, evenienza che da sola basta a derubricare il tutto a semplice burla e a portarci a valutare l’accaduto esclusivamente nei termini della pubblicità che ha procurato ad artista e casa d’aste. Ed è la ragione per cui Sotheby’s non subirà nessuna conseguenza (né alcun suo dipendente verrà licenziato, anzi: è presumibile che ci sian state delle promozioni). “S’è trattato”, ha concluso Marks, “di un inatteso colpo di teatro, ma del tipo di quelli che tutti ormai dovremmo aspettarci da Banksy”.

L’unica conseguenza è che, in questo bailamme, l’arte contemporanea (o se non altro quella ch’è ritenuta o percepita come tale) se n’è uscita come una caricatura di se stessa: esattamente ciò di cui non ha bisogno. E Banksy è passato semmai alle cronache come un abile prankster, come un troll eccessivamente alimentato dai media (specie quelli generalisti), come aggiornatissimo produttore di contenuti buoni per accaparrarsi like sui social network, come intelligente comunicatore e uomo di spettacolo, più che come artista. S’intenda che, ovviamente, tali caratteristiche lo rendono comunque personaggio degno di nota: uno scherzo che fa discutere il mondo intero per settimane, a suo modo, attesta che alla base v’è un’elevata dose d’ingegno. Ma alla fine, anche tutto ciò ha poco peso: in fin dei conti, ognuno degli attori protagonisti ha sicuramente tratto dall’operazione un ottimo ritorno.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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