Non lamentiamoci se non ci prendono sul serio: l'arte contemporanea e le social-performance in quarantena


Il mondo dell'arte contemporanea durante le misure restrittive per il coronavirus si è riversato sui social: ma i risultati delle performance su Instagram e piattaforme simili non sono stati così esaltanti.

Un rumore incessante ha pervaso la quarantena del magico mondo dell’arte saturando quotidianamente il social d’elezione del sistema, Instagram. Un brusio di fondo costante, che tutti i giorni alle 18 toccava il suo apice in un profluvio di rotelline rosse mormoranti (“storie” e “dirette”), che ammiccavano l’ignaro spettatore appropinquatosi al mezzo social. La reclusione domestica ha fatto emergere l’aulico sottobosco che pullula nel sistema dell’arte, lucciole dalle terga luminescenti attivatesi nella notte della pandemia. Quel settanta percento, ragionando per difetto, di nulla cosmico autoproclamatosi professionista del settore (fregiandosi dei titoli di art influencer, art lover, art blogger, art curator e tutte quelle propaggini di nulla che popolano l’arte contemporanea) trasformatosi in rotellina danzante e sibilante per tutta la quarantena, quando non era impegnato a esporre in luccicanti vetrine virtuali riproduzioni di opere d’arte, snaturandone così la potenza e appiattendone nello schermo la densa valenza. Vuote coazioni a ripetere.

Si narra che se non si ha nulla da dire o esibire, non è necessario raccontare o mostrare qualcosa. Se non si ha neppure la consapevolezza e la conoscenza dello strumento e del suo linguaggio, è buona abitudine lasciar perdere e fare silenzio. Comprendiamo comunque il meccanismo di difesa che scatta nell’essere umano per scampare alle trame dell’oblio e dell’irrilevanza, linfa di cui si nutrono i social (con relativa morbosità), esasperato dalla noia e dalla frustrazione indotte dalla reclusione. Il problema, difatti, non è stato (e non è) questo ludico e colorato contorno che si atteggia e crogiola nell’aura dell’arte per darsi un tono e un’identità, ma i professionisti veri e propri del sistema. Gallerie, musei, critici, curatori, giornalisti, artisti, lanciati in una ansiogena corsa al devo esserci anche io, guardatemi, esisto, scimmiotandosi a vicenda o peggio ancora lanciandosi in improvvide trovate performative. Una pioggia di gemiti digitali dispensati al popolo della rete secondo il Verbo dell’intrattenimento artistico, figlio di un protagonismo militante e anestetizzante. Ultima “perfomance” in questione è stata la 24 ore di esibizione non stop di Nico Vascellari su un canale YouTube dedicato. Chiunque abbia assistito alla maratona Vascellari sarà ancora rimbambito da quell’ipnotico e martellante “I trusted you”, cantato e danzato (torna l’atto della rotellina) per una giornata intera, senza sosta. Innegabile la resistenza psico-fisica dell’autore, la potenza comunicativa che su Instagram ha coinvolto “vips” e celebrità da tutto il mondo con cartellone pubblicitario “Do you trust me?”, e la comunità creatasi dagli spettatori connessi ad ogni ora del giorno per essere parti della “fiducia totale” dell’artista, molto meno però il valore artistico dell’opera che rasenta il gelido pavimento asettico del luogo dell’atto.

Nico Vascellari mentre ripete I trusted you durante la sua performance
Nico Vascellari mentre ripete I trusted you durante la sua performance

Non lamentiamoci poi se da fuori non prendono sul serio, o peggio, il magico mondo del contemporaneo, considerandolo alla stregua di un luna park sociopatico e stravagante o di un palcoscenico autoreferenziale, meglio se élitario e con la puzza sotto il naso, in cui si agitano onanisti in equilibrio tra speculazioni patologiche concettuali e puntine al muro (con aura). Hanno ragione. Ancor di più ora, con una tragedia globale in atto e la totale messa in discussione di un sistema vizioso che si avvita su se stesso (eccitandosi e fomentandosi da solo) e sulle bolle che crea e fagocita ossessivamente. Questo stravolgimento dei paradigmi esistenziali mondiali dovrebbe per prima cosa portarci a un enorme e trasversale bagno di umiltà, magari spazzando via tutti quegli atti masturbatori che “provocano” il sistema. A tal proposito, un altro progetto, appena inaugurato su Instagram, il 4 maggio, è Love Stories di Francesco Vezzoli, tra gli artisti italiani di maggior successo nel mondo, alla Fondazione Prada di Milano. L’artista “esplora attraverso il linguaggio dei social lo stato emotivo, amoroso e psicologico di una vasta comunità online”, forzando “la natura effimera e istantanea di Instagram trasformandolo in un luogo virtuale di indagine sociale, riflessione artistica e provocazione intellettuale”. Leggiamo che Vezzoli così facendo “si appropria delle strategie comunicative di Instagram, e in particolare della funzione sondaggio delle stories, per sperimentare un nuovo territorio di condivisione di idee, visioni e impressioni sull’amore, il sesso, l’identità, il corpo, la solitudine, l’appartenenza, l’alterità, il futuro. I follower di Fondazione Prada, e in più in generale gli utenti di Instagram, saranno invitati, story dopo story, a scegliere tra due possibili opzioni, a schierarsi a favore di una delle due affermazioni proposte, ad accettare la logica binaria, forzatamente semplificatoria, dei sondaggi, a partecipare a un gioco solo apparentemente leggero”.

Penso che il comunicato stampa parli da sé. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Vedremo se l’artista Cupido scardinerà la natura della piattaforma con questa “opera” virtuale in bilico tra arte, sociologia e posta del cuore. E soprattutto vedremo se davvero verranno spazzate via tutte queste effimere operazioni di marketing e spettacolo mascherate nell’arte. E si torni a ragionare sulla primaria essenza dell’arte. La peculiare capacità disvelativa, che permette di sottrarci al “potere della volontà”, e la sua valenza simbolica. Il potere di creare mondi, altre realtà, e di elevare la materia. E l’uomo.


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