Non toccate Achille Bonito Oliva: è un artista, e l'opera d'arte sono i suoi testi


L’opera d’arte è marginale rispetto al sistema dell’arte? La realtà è ancor più estrema di come l’ha dipinta Achille Bonito Oliva, e una dimostrazione può giungere dai suoi testi, sui quali il critico spesso compie interessanti operazioni di auto-riciclo che si possono considerare vere opere d’arte.

Ha ragione Achille Bonito Oliva quando, nella sua “Lezione” pubblicata sul Robinson dello scorso 18 febbraio, asserisce con solida convinzione che l’opera d’arte non esiste in quanto monade, ma in quanto porzione d’un sistema che si completa col plusvalore garantito dai collegamenti che il prodotto della mente e della mano dell’artista intesse “con la critica, il mercato, il collezionismo, il museo, il pubblico e i media”. Potrebbe aver ragione anche quando dice che l’arte “è l’insieme di tutte le opere pubblicate nei libri di storia dell’arte” (assioma che va ripetendo nella stessa forma almeno dal 1999), anche se non avanza alcuna considerazione nuova e non fa altro che riassumere, per il lettore di Repubblica, la teoria istituzionale dell’arte che George Dickie formulò più di mezzo secolo fa, alla fine degli anni Sessanta, quando, rifiutando de facto l’idea che un’opera d’arte possa avere delle caratteristiche che prescindono dalla sua evidenza tangibile, definì l’opera stessa come un artefatto al quale un particolare genere d’istituzione sociale (quella che Bonito Oliva chiama “il sistema dell’arte”), o un suo sottogruppo, ha conferito lo status di candidato a un certo tipo d’apprezzamento. E sicuramente ha ragione anche chi gli ha fatto notare che, in fin dei conti, per quanto residuale possa esser considerato il suo apporto, senza l’opera d’arte neppure esisterebbe il sistema dell’arte (evidenza sulla quale, tuttavia, siamo certi di poter scommettere che anche lo stesso Bonito Oliva sia d’accordo).

Non è però il caso di aprire discussioni ontologiche che andrebbero oltre il pezzo di Bonito Oliva: piuttosto, a cogliere in maniera viva e pungente il target sul quale sarebbe più utile che s’indirizzasse il dibattimento aperto da Massimo Mattioli, è stato Roberto Gramiccia, che in un post pubblico scritto sul suo profilo Facebook ha giustamente evidenziato che il cosiddetto “sistema dell’arte” altro non è che “una forma particolare di quell’industria culturale che segue le leggi del mercato e del sistema capitalistico”, e che in quanto tale “si disinteressa totalmente della qualità e si occupa esclusivamente del business e dell’accumulazione fino a teorizzare che tutto può essere arte”.

Ora, prendendo le mosse da un intervento di Luca Zuccala che abbiamo pubblicato su queste pagine, si potrebbe affermare, schematizzando all’estremo (ma in maniera utile per dare un’idea), che l’attuale industria culturale muove essenzialmente verso due tipi di pubblico: quello che acquista opere d’arte e quello che visita musei, mostre ed eventi. Ambedue i pubblici vengono raggiunti da una proposta che soggiace a leggi stabilite dal mercato (sempre col fine di vendere merce, di piazzare un prodotto, si tratti di un’opera d’arte o del titolo d’accesso a una mostra), ma scontano il fatto che sia sempre meno presente il “garante” (chiamiamolo così) di questo mercato, ovvero la critica. Sulle cause di questa graduale uscita di scena della critica si è discusso a lungo, si continua a discutere e si dovrà continuare a discutere. La conseguenza coincide col problema principale: non tanto l’esistenza d’un “sistema dell’arte”, più o meno esteso, più o meno storicamente accertato, più o meno frammentato e più o meno riconoscibile, quanto piuttosto la qualità che un simile sistema è capace d’esprimere, riconoscere, sostenere, trasmettere e valorizzare.

Achille Bonito Oliva
Achille Bonito Oliva
Achille Bonito Oliva nel 1989
Achille Bonito Oliva nel 1989

Potrebbero esser chiamati in causa tanti segnali in grado di fornire utili indicazioni su questa “crisi della qualità”, per così dire: osservando solo gli aspetti più evidenti, si va dalle mostre che il pubblico visita in massa ai libri che acquista, dalla merce che si trova nelle fiere ai soggetti che a ogni stagione stabiliscono le regole con cui si comunica l’arte (vale soprattutto per l’intricata palude dei social network, ma il discorso potrebbe essere esteso anche ai media tradizionali). Visto che però si è partiti da Bonito Oliva, ci si potrebbe limitare a un unico esempio: Bonito Oliva da anni compie una sistematica, continua e costante operazione di auto-riciclo dei propri testi, che vengono accomodati alla bisogna, anche a distanza di anni, per parlare d’un artista totalmente diverso rispetto a quello ch’era stato oggetto del testo critico redatto anni prima. Il procedimento è semplice: si parte da un contributo critico scritto in precedenza, si cambia il soggetto e il nuovo testo critico è bell’e pronto per essere somministrato al pubblico plaudente e ai curators estasiati dinnanzi alle immagini che ABO sventaglia nella sua produzione, dal “chiarore interno che denota un percorso di elaborazione accrescitiva in quanto sposta non soltanto la collocazione del reale dalla propria statica iniziale ma ne valorizza anche la capacità di relazione” all’immagine che è “il portato di un campo di segni disseminati fuori da qualsiasi idea di percorso e tutti pronti a rientrare dentro se stessi a sognare la propria esilità ombratile”. Non importa che ci sia continuità estetica, umana, simbolica tra l’artista per cui era stato scritto il testo e quello per cui viene riutilizzato. È arte, punto.

Qualche esempio: un testo scritto per Gillo Dorfles riattato (senza modifiche, se non nel cambio del titolo e del soggetto) a saggio per Daniela Perego, oppure il “fenomeno di coesistenza e di osmosi” per cui “quotidiano ed esistenzialità si coniugano in un incessante rapporto di scambio”, buono addirittura per tre artisti, ovvero Joaquim Falcò (2006), Alessandro Papetti (2009) e Paolo De Cuarto (2014). Un esempio particolarmente interessante è il testo critico di una mostra dedicata alla produzione grafica della stamperia 2RC di Roma (2007), dove Bonito Oliva scrive, riferendosi all’arte di Alexander Calder, che “il sogno è costellato e disseminato da frammenti che vivono all’incrocio di molti cieli, che gravitano a diverse altezze. I frammenti sono sempre sottili e mai corposi, la leggerezza permette loro di vagare velocemente e di sostare tranquillamente senza ingombro e senza squilibri”. Bonito Oliva dà prova di eccezionali doti di scrittura, perché le due frasi appena riportate, per quanto eteree (qualcuno magari potrebbe trovarle pure fumose: voglion dire tutto e niente), hanno il pregio di portare chi ha presente le opere di Calder a immaginarsele e magari anche a trovare lo scritto calzante. Tre anni dopo, in un catalogo di Matteo Basilè, la frase riferita a Calder viene cambiata in “il sogno DI BASILÈ è costellato e disseminato da frammenti che vivono all’incrocio di molti cieli”. E più sotto vengono riferite a Basilè persino qualità che nel 2007 Bonito Oliva attribuiva a Burri (basta confrontare i due testi). Talvolta i testi risultano infatti da collage che mettono insieme brani relativi ad artisti anche diversi e distanti, spesso pure separati di svariati decenni l’uno dall’altro. Succede con Antonia Di Giulio, artista che, scriveva Bonito Oliva nel 2019, “cerca sempre di ricreare un disorientamento lineare capace di rimandare alle forze interne ed occulte delle cose, di un tavolo che trattiene sulla propria levigata superficie lo spessore fantasmatico di un universo in bilico tra lo svelamento e l’occultamento” (qualunque cosa voglia dire), esattamente come faceva Paul Klee (così scriveva Bonito Oliva nel 2007 su Repubblica), ma non solo: Antonia Di Giulio infatti “non teme l’incontro con il proprio fantasma che abita dentro il linguaggio, dentro le sue profondità”, e neppure Giorgio De Chirico aveva questo timore per l’occulto. Neppure ai più grandi, peraltro, viene risparmiato il copia-incolla: Nanni Balestrini (2019) “individua la possibilità di fondare un luogo dell’arte non circoscritto ai generi tradizionali, non ancorato al semplice riferimento della poesia, pittura, della scultura, del disegno e della pura architettura”, esattamente come Renato Mambor dieci anni prima (per Balestrini il critico ha solo aggiunto la parola “poesia”, com’era del resto inevitabile se si voleva dare rendere più credibile il testo). E non si parla solo di frasi singole che trasmigrano da un testo all’altro: si parla di pezzi che spesso tornano quasi per intero.

Si potrebbe seguitare a oltranza, perché gli esempi sono numerosi. Achille Bonito Oliva fa qualcosa d’illegittimo? Assolutamente no: non sta copiando da altri, e se ritiene che un suo testo scritto per Calder possa essere utile anche per descrivere l’arte di Basilè, questa sensibilità è tutta sua ed è un suo diritto riciclare interamente un testo limitandosi a cambiare i nomi se lo ritiene adatto, per quanto tutto ciò possa risultare almeno discutibile. Fa qualcosa di sbagliato? Neanche: finché esisterà un luccicante art world che continuerà a frequentare le mostre (e segnatamente le inaugurazioni delle mostre) per mettersi in posa o per intrattenere relazioni, senza badare troppo a quello che sta osservando (in altre parole, senza preoccuparsi troppo dei contenuti), Bonito Oliva farà benissimo a lavorare come ha lavorato negli ultimi tempi. Tanto chi è che avrà l’ardire di alzare la mano per dire qualcosa? Ci sarà qualcuno che oserà sottolineare che un testo critico di Achille Bonito Oliva è illeggibile oppure che fatica a esprimere un concetto concreto? Mica si vorrà fare la figura del filisteo! Oppure ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di dire “non ho capito”, azzardandosi a pronunciare una frase che, nello scintillante circo dell’arte, da una parte espone al mortale pericolo del dileggio e dall’altra rischia di mettere in imbarazzo chi poi deve spiegare quello che ha scritto? Conviene far finta di niente e sarà meglio per tutti.

Si possono dunque avere dubbi su quanto Achille Bonito Oliva ha espresso su Robinson? Per niente, anzi, verrebbe da aggiungere che il vero artista è proprio Achille Bonito Oliva. E l’opera d’arte sono i suoi testi, imitati in maniera più o meno pedestre, come accade a tutte le vere opere d’arte, da un copiosissimo stuolo di curators sempre inclini a riverire il maestro, anche soltanto idealmente. Del resto il metodo per scrivere testi graditi all’art world è ormai assodato, e lo si potrebbe riassumere, con Tommaso Labranca, nella triade “sfoggio di nomi, riferimenti deleuziani e fuffa filosofica”. Certo: spesso quando non si comprende un testo critico è perché mancano gli strumenti adeguati, che si ottengono solo con lo studio e con la pratica. Ma altrettanto spesso, se leggi un testo critico e non ci hai capito una mazza, potrebbe non essere un problema tuo, perché un sistema dell’arte che “si disinteressa totalmente della qualità”, che bada più all’apparenza che alla sostanza, non sempre è in grado di produrre contenuto. E di approfondire il contenuto non ci si preoccupa: è sufficiente fidarsi.

E se uno dei critici d’arte più influenti del secondo Novecento può permettersi il riciclo dei propri testi, è proprio perché l’attualità è forse ancor più estrema di come l’ha dipinta: non soltanto un mondo in cui il “prodotto della fantasia individuale dell’artista” assume un valore che non di rado travalica la sua qualità in virtù dei collegamenti che l’opera e l’artista riescono a stabilire con il “sistema dell’arte”, ma anche un mondo in cui questo prodotto della fantasia diventa spesso secondario, marginale, trascurabile rispetto a tutto ciò che l’accompagna. Come suggerisce un amico, i testi di Achille Bonito Oliva sono un po’ come la Merda d’artista di Piero Manzoni: tutti li amano, tutti li vogliono e tutti ritengono che nella scatoletta ci sia il contenuto indicato dall’artista, ma nell’impossibilità di verificarlo l’opera presuppone una sorta di atto di fede. Poi quando arriverà il Bonalumi di turno che aprirà la scatoletta, gli si suggerirà che è meglio non dire a voce alta che dentro potrebbe esserci solo del gesso: si romperebbe la magia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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