Dal Gruppo 63 al Gruppo 70: a Spezia in scena il commosso ritrovo di un gruppo di perdenti


Recensione della mostra Da un'avanguardia a un'altra. Esperienze verbo-visive tra Gruppo 63 e Gruppo 70 (La Spezia, CAMeC, 22 ottobre 2016 - 19 marzo 2017).

Che cos’è l’avanguardia? Per Nanni Balestrini (Milano, 1935), la definizione si può scomporre e poi sinteticamente riassumere con alcune parole fondamentali. La ricerca. Gli esperimenti. Magiche rivelazioni. Straordinari esperimenti. Del futuro. L’avvenire. Il tutto unito a un numero che funge da rivendicazione: 63. Un mosaico di caratteri serif presi da quotidiani e riviste, sparpagliato sopra alla Barca di Dante di Delacroix, elegge l’Alighieri primo avanguardista della storia e dà vita a una delle opere più significative tra quelle esposte alla mostra Da un’avanguardia a un’altra. Esperienze verbo-visive tra Gruppo 63 e Gruppo 70, in corso fino al 19 marzo 2017 al CAMeC (La Spezia). Una rassegna, curata da Renato Barilli, a metà tra la storia e l’attualità, dove le opere degli esordi e le ricerche attuali di un gruppo (anzi: due gruppi, che poi gruppi non erano) di avanguardisti degli anni Sessanta vengono unite in un mélange che alla fine un po’ racconta e un po’ fa riflettere. E magari riesce anche a commuovere.

Ingresso della mostra
Ingresso della mostra


Nanni Balestrini, L'Avanguardia
Nanni Balestrini, L’Avanguardia (2014; inkjet su tela; Firenze, Galleria Frittelli)

Perché guardare queste opere nel 2017 è un po’ come ballare su una canzone di Jesse Green: roba per chi c’era all’epoca, o per chi ama ripensare a un passato che non ha vissuto, o per maniaci, della disco degli anni Settanta come dell’arte del Novecento. Vedere ancora all’opera artisti-poeti degni d’ogni lode come Nanni Balestrini, Lamberto Pignotti (Firenze, 1926) e altri che, passati gli ottant’anni, oppongono anche oggi le loro poesie visive a una realtà fatta di video virali e social network (a proposito: ma i social network sono stati avanguardia?) conforta e sconforta allo stesso tempo. Conforta perché fare poesia visiva nel 2017 è quasi un atto eroico: una rapidità profonda e una sintesi intelligente contro l’idiozia della stragrande maggioranza dei tweet, contro la superficialità del populismo estetico (per usare un’efficace espressione di Gabriele Pedullà), contro l’arroganza dell’ex avanguardia che si è istituzionalizzata nel peggiore dei modi (basta fare qualche decina di metri a piedi per ritrovarsi di fronte al contestatissimo autolavaggio di Daniel Buren in piazza Verdi). Anche lo stesso Gruppo 63 si è istituzionalizzato (sennò non esporrebbe in un museo comunale col benestare delle autorità), benché questo sia lo scotto da pagare per essere entrati nella storia della letteratura e anche dell’arte. Ma conforta perché qualcuno dei membri originari di Gruppo 63 e Gruppo 70 è rimasto, come si suol dire, fedele alla linea, e non è scaduto nella tuttologia da articoletti per lettori sintonizzati sui finti approfondimenti culturali alla Fazio, nell’arte modellata a uso e consumo del mercato, o nella trombonistica di maniera magari affidata a mezzi tecnologici considerati nuovi ma che così nuovi poi non sono. Oppure, semplicemente, non è sparito dai radar della cultura, malgrado il segnale sia debole. Sconforta perché non solo le avanguardie oggi non esistono più (checché ne dicano taluni) ma, se è vero quanto asseriva Tomaso Montanari qualche giorno fa, ovvero che gli artisti oggi sono socialmente irrilevanti e che il potere è in mano al mercato, probabilmente non sono neanche più possibili. Si è insomma concretizzata quella specie di profezia che Pignotti aveva lanciato con la sua Fantastico del 1964: la foto di una casalinga e di un caffé con a fianco due ritagli che recitavano Gli uomini di cultura passano all’offensiva e Non succede mica niente.

Lamberto Pignotti, Fantastico
Lamberto Pignotti, Fantastico (1964; collage su cartone; Prato, Archivio Carlo Palli)

A Spezia va dunque in scena una mostra che sa di ritrovo. Ché poi, a dire il vero, il ritrovo c’è stato eccome: a ottobre i reduci del Gruppo si sono ritrovati per un convegno fatto di nostalgia e ricordi, che Barilli ha riassunto in uno dei pochi articoli del suo blog che possano ritenersi leggibili. E per raccontare al pubblico di come, esattamente cinquant’anni fa, il Gruppo avesse tenuto la sua quarta riunione proprio sulle rive del golfo dei Poeti: memoria che, tengono a precisare, non è celebrazione. Da quella riunione emersero, in particolare, le figure di Lamberto Pignotti e di Lucia Marcucci (Firenze, 1933), fondatori (nello stesso anno 1963 del Gruppo 63) di quel Gruppo 70 che si poneva ambizioni di più lungo termine e soprattutto tentava un approccio che, rispetto a quello dei colleghi, era meno cervellotico, più immediato, più attaccato alla realtà. Cultura bassa manipolata per dar vita a un risultato alto. Una via di mezzo tra arte e letteratura: un po’ come vedere un’opera di Lichtenstein piegata ai modi della poesia di Majakovskij. E non a caso, peraltro, la mostra spezzina espone un omaggio di Pignotti a Majakovskij, per render merito al poeta che, assieme a Rodcenko ma anche da solo, compose alcune tra le prime poesie visive della storia. Due delle quattro sale della mostra sono dedicate proprio a Pignotti e Marcucci. La prima invece è un sunto della produzione di Nanni Balestrini, uno dei fondatori del gruppo: ci troviamo un salto di cinquant’anni tra le prime poesie visive degli anni Sessanta, coeve alla fondazione del Gruppo, e le ultime ricerche, che vanno dal 2012 a oggi. L’ultima sala accoglie infine esperienze degli artisti forse più sofisticati del Gruppo, quelli che non andarono a rimpinguare le fila dei “70” e che si mantennero su una produzione che aveva più tratti in comune col lettrismo francese: Vincenzo Accame, Antonio Porta, Luigi Tola.

L’ambizione di questi artisti era portare la letteratura fuori dal libro: per abbandonare un luogo all’epoca ancora tipico della cultura alta e guidare la poesia verso il basso, sfruttando le strategie della comunicazione di massa. È questa la base che dà vita alle esperienze più interessanti e originali del Gruppo 70, e le prime opere di Nanni Balestrini hanno il compito d’introdurre il visitatore della mostra. “Se il pubblico non cerca la poesia, la poesia deve cercare il pubblico”, gli faceva eco Pignotti ribaltando nelle intenzioni, e anche nella pratica, un celebre assunto di Wilde. La serie Qualcosapertutti degli anni Sessanta, con la quale Balestrini cominciava a proporre le proprie poesie visive, “utilizza come sfondo le grandi foto a colori di settimanali rotocalco dell’epoca, quando la fotografia era un mezzo di comunicazione privilegiato” e sfrutta, per comunicare, la tecnica del collage: un attardato futurismo di ritorno per alcuni, una somma di Picasso, Mallarmé e Schwitters per lo stesso Balestrini ma anche per quanti hanno saputo cogliere la novità di questo approccio alla poesia. La voglia di sperimentare continua ancora oggi: il ciclo Maestri del colore rilegge alcuni capolavori del passato secondo i modi tipici del Gruppo 70. Arthur Danto diceva che l’opera d’arte, essendo frutto di un’intenzione, deve avere per forza di cose un oggetto, che va interpretato. Balestrini aggiunge ritagli di giornale alle opere, a volte per rileggerle in chiave ironica, a volte per elevarle a simbolo (lo abbiamo visto con l’opera di Delacroix di cui sopra), a volte per meglio estrinsecare un significato: nel San Martino del Greco due grandi lettere, una P (povero?) e una R (ricco?) vengono sistemate all’altezza del cuore dei due protagonisti del dipinto, e tutt’intorno ritagli di giornale che attualizzano la parabola di san Martino e il povero e forse ne rovesciano il senso, quasi che il gesto del cavaliere, da disinteressato, diventi un atto forzato, quasi da esibizionista. I Neri, ritagli di giornale su campiture bianche sporcate da macchie d’inchiostro nero, distruggono e ricompongono per dimostrare che, malgrado tutto, l’avanguardista nutre ancora una certa fiducia: Mi spezzo ma non mi piego. La rivoluzione non è finita. Via all’ultima rivoluzione.

La sala con le opere di Nanni Balestrini
La sala con le opere di Nanni Balestrini


Nanni Balestrini, Cavallo
Nanni Balestrini, Cavallo (2014; inkjet su tela; Firenze, Galleria Frittelli)


Nanni Balestrini, Mi spezzo
Nanni Balestrini, Mi spezzo (2013-2014; tecnica mista su tela; Firenze, Galleria Frittelli)


Nanni Balestrini, La rivoluzione
Nanni Balestrini, La rivoluzione (2014; tecnica mista su tela; Firenze, Galleria Frittelli)

Pignotti e Marcucci partono dalla pubblicità, il linguaggio forse più tipico della società di massa, nonché uno dei mezzi che potere e capitalismo adoperano per assoggettare i destinatari del messaggio: obiettivo è quello di “rispedire la merce al mittente”, per dirla con le parole di Pignotti, e trasformare in soggetto attivo (che non si limita a guardare, ma dopo aver guardato interpreta e pensa) il soggetto passivo che subisce il repertorio della comunicazione pubblicitaria (o del marketing, diremmo oggi). Pignotti utilizza il mezzo della parodia proponendo dissacranti rivisitazioni di immagini tipiche del repertorio visivo della pubblicità e che mirano a prendersi gioco di (ma anche a condannare) stereotipi, potere, consumismo, abuso dell’arte e della cultura. Utilizzare la pubblicità per far capire al pubblico quanto la pubblicità stessa sia ingannevole. Decomposizione è una burlesca protesta contro i canoni di bellezza femminili da pubblicità di cosmetici: una colata d’inchiostro scende dai capelli di una splendida modella rovinando il suo make up e svelando all’osservatore un inganno estetico. Cerca invece di dare una scossa il collage Siete ancora in tempo, che unisce immagini di folle a una cornice fatta di ritagli con modelle che indossano capi d’abbigliamento: Non scriverò per chi è povero senza una tendenza definita, sottolineano i ritagli di giornale. C’è tempo anche per una riflessione sul ruolo del poeta nella società contemporanea: in Il poeta “può” dire la verità? il titolo dell’opera, sempre ricavato da ritagli di quotidiani, è accompagnato dalla frase Certo, per la pace e il progresso la sconfitta era già segnata incollata vicino a cinque immagini (i tre moschettieri, una parata militare inglese, un membro del Ku Klux Klan, un personaggio riccamente abbigliato e una sparatoria).

Lamberto Pignotti, Majakovskij
Lamberto Pignotti, Majakovskij (1994; collage su cartoncino; Prato, Archivio Carlo Palli)


Lamberto Pignotti, Decomposizione
Lamberto Pignotti, Decomposizione (1976; tecnica mista su carta stampata; Prato, Archivio Carlo Palli)


Lamberto Pignotti, Un poeta può dire la verità
Lamberto Pignotti, Un poeta “può” dire la verità (1966; collage su cartoncino; Prato, Archivio Carlo Palli)


La critica di Lucia Marcucci è ancora più semplice e diretta. Pennarelli spessi e colori acrilici sono i mezzi attraverso cui l’artista esprime se stessa modificando immagini che diventano schiaffi in faccia all’osservatore: più che la struttura dell’insieme, ciò che conta è la forza del messaggio. Una ragazza nuda s’appogga a un muro: sembra un’immagine di quelle che nei quotidiani mettono per riempire gli articoli che parlano di violenza sulle donne. Guarda davanti a sé, sembra quasi intimorita. Ma davanti a lei c’è un fumetto rosso: Amore mio. Di segno totalmente opposto un’opera dello stesso anno: un’altra giovane (probabilmente la stessa, le somiglia molto) porta alla bocca un cucchiaio con sopra un uomo rannicchiato. Che stupenda, deliziosa creatura. Ma sta per mangiarselo. E poi riflessioni sull’amore e sulla sessualità, argomenti sempre striscianti nella pluridecennale produzione di Lucia Marcucci. O sul rapporto tra uomo e donna. I vizi della società che si riversano nell’intimità.

Lucia Marcucci, Amore mio
Lucia Marcucci, Amore mio (1972; smalti su tela emulsionata; Prato, Archivio Carlo Palli)


Lucia Marcucci, Che stupenda!
Lucia Marcucci, Che stupenda! (1972; arcilici su tela emulsionata; Prato, Archivio Carlo Palli)

L’ultima sala dell’esposizione scorre via piuttosto veloce: vi sono esposti i lavori dei membri del Gruppo 63 non più tra noi. Il visitatore rimane affascinato dalle opere di Luigi Tola (Genova, 1930 - 2014): una texture rozza, fatta di ritagli con caratteri minuscoli, è il tappeto sul quale il poeta sfoga la propria aggressiva creatività per proporre, paradossalmente, una lirica che, seppur non raffinata, è comunque lontana dalle ironiche parodie di Balestrini, Pignotti e Marcucci. Tola non va verso il pubblico utilizzando un linguaggio familiare al pubblico: il poeta genovese cita la Troade di Seneca (anche fisicamente: dal quadro fuoriesce un ritratto del grande drammaturgo romano) per ragionare sul tempo attraverso un testo che sembra scolpito con l’ascia, ma che trasuda passione da ogni singola lettera. L’opera di Vincenzo Accame (Loano, 1932 - Milano, 1999) è eccezionale esercizio chirografico con più di un debito nei confronti del lettrismo. Con la sua scrittura visiva ha fatto della parola un segno grafico che registra sensazioni sotto forma d’immagini che hanno un andamento pressoché musicale: osservare i segni di Vincenzo Accame equivale quasi ad ascoltare una sinfonia.

Luigi Tola, Vorace il tempo
Luigi Tola, Vorace il tempo (s.d.; collage e tecnica mista su compensato; collezione privata)


Opere di Vincenzo Accame in mostra
Opere di Vincenzo Accame in mostra

Che cos’è rimasto oggi del Gruppo 63 e del Gruppo 70, al di là di un gruppo di simpatici e lucidi ultraottantenni che dentro, per loro stessa ammissione, si sentono ancora giovani, sentono ancora la passione che avevano a venti, trenta, quarant’anni? Qual è l’eredità che hanno lasciato, oltre a quelle parole che fuggono dalle pagine e vanno ad appendersi a una parete rivolgendoci messaggi in una lingua che è ormai stata soppiantata da altre (ancor più elementari, sicuramente più infantili) forme di comunicazione? Probabilmente poco, verrebbe da pensare. Umberto Eco, in un’intervista che rilasciò a Repubblica poco prima di andarsene, lamentava il fatto che oggi, tra i letterati, manchi il gusto del confronto. In un’epoca in cui obiettivo primario di molti scrittori sembra essere diventato quello di perseguire il successo commerciale (un successo che, peraltro, arrise allo stesso Eco: sono convinto che avremmo fatto molto volentieri a meno della stragrande maggioranza della sua produzione), e possibilmente di perseguirlo in solitaria, è difficile immaginare gruppi di poeti e narratori che si riuniscano in gruppo, anche con un programma non definito, per provare a cambiare le sorti della letteratura o anche, più semplicemente, per fare critica sociale. L’editoria dei giorni nostri, che esacerba la competizione tra gli scrittori, semplicemente non lo permette. Quello che rimane oggi è, sostanzialmente, un gruppo di perdenti, ma di perdenti nel senso letterale del termine, perché il Gruppo 63 aveva tra i suoi ambiziosi obiettivi quello di cambiare il paese attraverso la letteratura. Ci hanno provato con una rivoluzione caotica, disordinata, durata poco, e velleitaria. Ma questo obiettivo oggi è andato perso, nel senso che si fa molta fatica a trovare qualcuno che ancora lo insegua convintamente, ed è praticamente impossibile trovare qualcuno che lo insegua e che al contempo riscuota successo. Si avverte insomma la mancanza di qualcuno che provi a sovvertire i canoni della letteratura, che inneschi delle rotture. Cosa sopravvive, dunque? I ricordi. Attaccati ai muri bianchi di una mostra che sembra quasi un lungo sospiro, e uniti a una certa capacità di spingere gli avversari alla polemica (anche a cinquanta e più anni di distanza, e su un’esperienza di fatto terminata). La voglia di continuare a produrre, pur nella consapevolezza che non siamo più nel ’63. La volontà di continuare a far riflettere. E magari un invito a cercare (ovviamente ai margini) e a riconoscere chi ancora oggi prova a sperimentare.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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