Il Cristo morto di Mantegna, capolavoro alla Pinacoteca di Brera


Il Cristo morto di Andrea Mantegna è una delle opere più sconvolgenti e rivoluzionarie della storia dell'arte. Un dipinto intriso di grande umanità. Storia, datazione, vicende, influenze.

Il 2 ottobre del 1506, Ludovico Mantegna, figlio del grande artista Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 - Mantova, 1506), inviò una lettera al marchese di Mantova, Francesco II Gonzaga (Mantova, 1466 - 1519), nella quale l’erede del pittore (ed egli a sua volta pittore) proponeva al sovrano l’acquisto di un’opera rimasta tra i beni del padre dopo la sua scomparsa, così che la sua famiglia potesse estinguere un certo debito. L’opera citata era un Cristo in scurto, ovvero un “Cristo in scorcio”, e sarebbe finita l’anno successivo nelle collezioni del fratello minore di Francesco II, il cardinale Sigismondo Gonzaga: c’è un’altra lettera di Ludovico Mantegna, inviata a Isabella d’Este il 12 novembre del 1507, che documenta il passaggio (anche se le modalità rimangono tuttora poco chiare). Non abbiamo certezze solide e prove definitive e inoppugnabili, ma quel Cristo in scurto menzionato da Ludovico potrebbe essere l’opera passata alla storia dell’arte come il Cristo morto di Andrea Mantegna, uno dei dipinti più drammatici e rivoluzionarî del Rinascimento.

Nessuno, prima di Mantegna, aveva raffigurato un Cristo morto così ferocemente drammatico, così straordinariamente umano: un freddo cadavere appena deposto dalla croce, più che il figlio di Dio in attesa della resurrezione. Il corpo di Cristo è infatti adagiato su di una lastra di marmo rosso (è la cosiddetta Pietra dell’Unzione, dove secondo la tradizione cristiana la salma di Gesù sarebbe stata preparata per la sepoltura: lo intuiamo anche dal vaso d’unguento che vediamo sul bordo), ed è a malapena coperto dal suo sudario che, fatta eccezione per le gambe, lascia scoperto tutto il resto. Il riguardante può così osservare i segni delle ferite lasciati dai chiodi, che hanno bucato e lacerato la pelle delle mani e dei piedi. Sul lato sinistro del dipinto compaiono tre dolenti, dai volti solcati dalle rughe e caratterizzati dal segno duro e aspro di Mantegna, che versano copiose lacrime: sono la Madonna, che con un fazzoletto si sta asciugando gli occhi, san Giovanni, che piange con le mani giunte (particolare che accresce la tragicità della sua figura), e una donna che apre la bocca disperandosi, presumibilmente si tratta di Maria Maddalena. Ma forse, al di là dei personaggi che osserviamo nella scena, i veri protagonisti della composizione sono due elementi: la luce e la prospettiva. La luce proviene da destra e fa risaltare le pieghe rigide del sudario, creando forti contrasti con le ombre, così che l’attenzione dell’osservatore si possa concentrare sui dettagli più crudi del dipinto, a cominciare dalle stesse ferite di Gesù: è una luce che ha quasi uno scopo narrativo e che contribuisce ad alimentare il dramma e la partecipazione emotiva di chi guarda l’opera mantegnesca. Lo stesso si può dire per la prospettiva. Mantegna è stato uno dei più grandi maestri dell’illusionismo prospettico, e dà prova delle sue eccezionali abilità anche con il Cristo morto.

Rompendo totalmente con la tradizione, Mantegna offrì una rappresentazione inedita del tema del Compianto sul Cristo morto, sperimentando un punto di vista che nessuno prima di lui s’era spinto a osare. È come se noi entrassimo nell’ambiente in cui il cadavere di Gesù è stato trasportato e Mantegna avesse voluto renderci testimoni diretti di quello che sta accadendo, ponendoci di fronte a Cristo, per vederlo frontalmente, con punto di vista leggermente rialzato. Il corpo di Cristo, tuttavia, non ci appare deformato, come risulterebbe da un’immagine veridica, da una fotografia: per ottenere gli effetti ch’è stato in grado di raggiungere, Mantegna ha dovuto discostarsi dai canoni della prospettiva albertiana per sottometterli alla sua volontà di creare un artificio onde evitare che il corpo di Gesù assumesse contorni grotteschi. Se l’artista infatti si fosse attenuto in maniera ligia alle regole della prospettiva, i piedi sarebbero stati molto più grandi, la testa più piccola e il corpo più compresso: al contrario, Mantegna è “arrivato a realizzare l’adattamento delle proporzioni per via empirica, al fine di mantenere la dovuta dignità alla figura di Cristo” (così lo storico dell’arte Peter Humfrey che riprende le considerazioni dello studioso Robert Smith, autore di importanti pagine sull’opera dell’artista veneto).

Andrea Mantegna, Cristo morto (1475-1485 circa; tempera su tela, 68 x 81 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Andrea Mantegna, Cristo morto (1475-1485 circa; tempera su tela, 68 x 81 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

Su questi elementi si è concentrato anche uno dei più grandi storici dell’arte di sempre, Cesare Brandi, che ha dedicato uno scritto anche al Cristo morto, da lui definito una “tela straordinaria” che “sfiora l’assoluto senza nessun lenocinio, con una schiacciante severità, da costituire la pittura meno decorativa e quasi repulsiva”. Una tela capace di provocare nello spettatore un “cozzo” di “sentimenti diversi”, che “assicura una recezione contrastata e quasi timorosa, senza tuttavia suscitare pietismo di sorta”. Per Brandi, di fronte all’opera di Mantegna “si può addirittura parlare di straniamento, come per un attore”. Così la descriveva il sommo studioso: “la pittura è quasi un monocromo e si costituisce normale allo spettatore: ma singolare è il fatto che, nel poderoso scorcio [...], non ci sia nessun illusionismo: è come se l’artista non ci facesse più caso che a una raffigurazione parallela, invece che normale, alla tela. La struttura del dipinto è per altro laboriosissima: il Mantegna ha inteso graduare la penetrazione del corpo nella profondità, e per questo si è servito delle pieghe del sudario aderente al corpo come fosse umido. Queste pieghe creano come dei piani secanti e paralleli alla pianta dei piedi e allontanano gradatamente, per così dire, il corpo dallo spazio. A questo risultato concorre la luce; laterale come in Piero e in Masaccio, che per altro vale più per le ombre che come luce: queste affondano modellando il corpo che così non appare rattrappito come un po’ accadeva ai corpi di Paolo Uccello nelle Battaglie, normali anch’essi alla superficie del quadro, ma, nell’audace sintesi volumetrica e nella rinuncia al chiaroscuro, compressi in loro stessi, come il soffietto di un mantice. Le mani del Cristo, non stese ma col polso rialzato, aiutano lo scorcio dell’avambraccio, mentre il lieve sostegno dato alla testa dal cuscino rosso antico non la riduce a una schematica infilata di narici e di globi oculari. Insomma tutto il corpo è come segmentato da sapienti cesure che rallentano la fuga nella profondità, ed è come se lo allungassero: alla fine non appare costretto in uno spazio di troppo esiguo spessore. [...] Restano in margine le due figure delle dolenti (ma certamente la tela è stata rifilata), tanto in margine che il Mantegna non ha creduto neppure di dotarle di un risalto plastico maggiore: nel profilo si laminano come giacendo nei piani delle cesure che suggeriscono orizzontalmente le pieghe del sudario. Così il quadro si chiude senza scampo, come un componimento poetico, in cui il gioco ribattuto delle rime si svolge come lo snodo delle piastre soprammesse di una corazza: e il corpo del Cristo è veramente assimilato a un corpo nella corazza. Che è quanto toglie ogni vaghezza e contribuisce a dare quel senso di assoluto”.

Il Cristo morto è stato peraltro oggetto di particolare attenzione negli ultimi anni, dal momento che la Pinacoteca di Brera a Milano, il museo in cui l’opera è attualmente conservata, ha voluto rendere giustizia alla sua unicità superando la collocazione che il dipinto ha mantenuto fino al 2013: il capolavoro di Mantegna, infatti, si trovava esposto, assieme ad altri dipinti, sulla parete di destra della sala VI, il lungo corridoio dedicato alla pittura veneta del Quattrocento, dal quale poi s’accede ai saloni napoleonici. Il museo ha optato per soluzioni che potessero dare risalto all’opera. L’allestimento del 2013 fu affidato dalla soprintendente Sandrina Bandera al grande regista Ermanno Olmi (Bergamo, 1931 - Asiago, 2018), che per il Cristo morto immaginò una saletta appartata, buia, allestita alla fine del corridoio, che avesse al suo centro il solo dipinto mantegnesco, posto a pochi centimetri d’altezza dal pavimento (67, per l’esattezza). Per la Pinacoteca, il progetto di Olmi, si leggeva in una nota ufficiale, era “il risultato di una profonda ricerca intellettuale”, era volto a isolare e distanziare il dipinto “per consentire la corretta visione della particolare forzatura prospettica e cromatica che lo caratterizza”, e intendeva garantirne la visione a piccoli gruppi di visitatori, che si sarebbero sistemati dietro un distanziatore curvilineo “affinché la percezione prospettica” risultasse “corretta” e “l’incontro con l’opera” fosse “emozionale”. E lo stesso Ermanno Olmi, in un’intervista pubblicata da La Stampa il 3 dicembre del 2013, sosteneva di aver collocato l’opera “nella prospettiva voluta dall’artista, come del resto lo stesso Mantegna indica nelle volontà testamentarie, all’altezza in cui il corpo si trovava, come doveva essere guardato”. “Osservarlo in alto, com’era prima secondo i consueti criteri museale”, aggiungeva, “è un ossimoro, una contraddizione che farebbe ribellare anche i chiodi. Io l’ho affogato nel nero, nello spazio infinito, nell’assoluto”. L’allestimento del regista bergamasco, tuttavia, subì dure critiche: secondo alcuni critici poneva l’opera a serio rischio di feticizzazione, rendeva la Pietà di Giovanni Bellini (sistemata sulla parete opposta a mo’ d’introduzione) quasi un suo accessorio, faceva sì che il pubblico instaurasse un rapporto che cercava più la sorpresa che l’approfondimento e la conoscenza, e si avvaleva d’una sorta di “scenografia” ritenuta inappropriata. Inoltre, secondo alcuni il Cristo morto, così collocato, dava l’idea d’essere più un’icona religiosa da venerare che un testo figurativo d’estrema importanza per gli sviluppi dell’arte italiana, situazione poco adatta a un museo di uno Stato laico, e per di più museo di origine napoleonica.

Nell’estate del 2016 l’allestimento Bandera-Olmi è stato smantellato e il Cristo morto ha conosciuto una risistemazione: si tratta dell’attuale allestimento, curato dallo storico dell’arte Giovanni Agosti che ricevette l’incarico dal direttore della Pinacoteca, James M. Bradburne. In particolare, l’opera è stata collocata su di un pannello inserito al centro della sala VI, posto a conclusione della sezione sul Quattrocento per introdurre il secolo seguente: una soluzione che, al contrario di quella ideata da Ermanno Olmi, ha ottenuto maggiori approvazioni.

Il vecchio allestimento (fotogramma da un filmato del 1999 dell'Opificio delle Pietre Dure)
Il vecchio allestimento (fotogramma da un filmato del 1999 dell’Opificio delle Pietre Dure)


L'allestimento Bandera-Olmi
L’allestimento Bandera-Olmi


L'allestimento Bradburne-Agosti. Ph. Credit James O'Mara
L’allestimento Bradburne-Agosti. Ph. Credit James O’Mara


L'allestimento Bradburne-Agosti. Ph. Credit James O'Mara
L’allestimento Bradburne-Agosti. Ph. Credit James O’Mara

Occorre comunque sottolineare che del Cristo morto di Andrea Mantegna sappiamo pochissimo. Non conosciamo neppure la data di esecuzione, e al riguardo gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi. Alcune similitudini stilistiche condivise con certi elementi della Camera degli Sposi hanno portato molti storici dell’arte a immaginare una collocazione del Cristo morto poco dopo l’impresa mantovana, che sappiamo essersi conclusa nel 1474: il capolavoro oggi a Brera potrebbe dunque collocarsi attorno al 1475-1480. Questa era l’opinione di studiosi come Giovanni Battista Cavalcaselle (che la riteneva opera eseguita immediatamente dopo la Camera degli Sposi), Roberto Longhi (per lui era collocabile nell’ottavo decennio del Quattrocento), Ettore Camesasca (che la immaginò eseguita tra il 1478 e il 1485) e molti altri. Altra proposta che ha un certo riscontro è quella secondo cui l’opera si può collocare tra il 1470 e il 1474, periodo in cui Mantegna attese alla realizzazione della scena dell’incontro tra Ludovico e Francesco Gonzaga nella Camera degli Sposi (per via di similitudini stilistiche). Non ebbero successo altre proposte, come quelle degli studiosi d’inizio Novecento (su tutti Paul Kristeller) che la ritenevano opera degli anni padovani, o quella di Rodolfo Pallucchini, secondo il quale il dipinto era da fissare al ritorno dai soggiorni fiorentini di Andrea Mantegna, nel 1467. Altri ancora hanno immaginato una datazione tarda, ai primi del Cinquecento, ritenendola un’opera che l’artista eseguì per la propria personale devozione privata (infatti non abbiamo neppure idea di chi fosse il committente, qualora ci sia stato). Di recente s’è fatta strada l’ipotesi, formulata da Stefano L’Occaso, che vorrebbe il dipinto eseguito nel 1483, in occasione dell’arrivo d’un frammento della Pietra dell’Unzione a Mantova: vi fu portato dal frate Paolo Arrivabene da Canneto, che tra il 1481 e il 1484 fu custode di Terra Santa (ovvero il superiore della Custodia di Terra Santa, ente che si occupa dei Frati minori che vivono e predicano nel Medio Oriente, e curano l’accoglienza dei pellegrini che giungono in Terra Santa: una carica che esiste ancora oggi). È probabile che Mantegna sia stato affascinato dall’importante reliquia e abbia deciso d’omaggiarla a suo modo: non ci sono comunque prove certe, e la datazione del Cristo morto rimane un tema oltremodo complesso.

La datazione è resa complessa anche dal fatto che è molto difficile trovare opere simili, che possano fornire indicazioni per fissare una data non già incontrovertibile, ma almeno realistica: occorre ribadire che la forbice s’estende su di un periodo lungo cinquant’anni, e quasi tutte le collocazioni temporali sembrano plausibili. È, insomma, un’opera senza precedenti, anche se nella storia dell’arte più antica non mancano artisti che si cimentarono con scorci simili. Occorre ricordare Paolo Uccello (vero nome Paolo di Dono, Pratovecchio, 1397 - Firenze, 1475), che nelle Storie di Noè di Santa Maria Novella e nella Battaglia di San Romano inserì figure scorciate frontalmente, come sarebbe stato poi il Cristo morto di Mantegna. Sappiamo, del resto, che Mantegna conobbe l’artista fiorentino quando questi lavorò a Padova, nel 1445, anno in cui anche il pittore veneto si trovava nella città del Santo: a Padova, Paolo Uccello realizzò alcuni affreschi in Palazzo Vitaliani (oggi sono andati perduti), che raffiguravano giganti “tanto belli”, come scrisse Vasari nelle sue Vite, “che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto”. Certo è che la volontà di sperimentare scorci arditi non è mai mancata nell’arte di Mantegna: dagli anni padovani, con il corpo di san Cristoforo negli affreschi della cappella Ovetari, fino alla Camera degli Sposi con il suo sorprendente oculo, per giungere infine al Cristo morto, al quale, peraltro, sono stati associati due disegni conservati al British Museum (uno con un ulteriore Cristo morto, preso da un’angolazione leggermente diversa, e un altro con un Uomo giacente su di una lastra), che potrebbero costituire studi preparatorî per il dipinto di Brera.

Paolo Uccello, Storie di Noè, La Recessione delle acque (1447-1448 circa; affresco; Firenze, Santa Maria Novella)
Paolo Uccello, Storie di Noè, La Recessione delle acque, dettaglio (1447-1448 circa; affresco; Firenze, Santa Maria Novella)


Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini, dettaglio (1438; tecnica mista su tavola, 180 x 316 cm; Londra, National Gallery)
Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini, dettaglio (1438; tecnica mista su tavola, 180 x 316 cm; Londra, National Gallery)


Mantegna, Trasporto del corpo di San Cristoforo, dettaglio (1454-1457; affresco; Padova, Chiesa degli Eremitani, Cappella Ovetari)
Mantegna, Trasporto del corpo di San Cristoforo, dettaglio (1454-1457; affresco; Padova, Chiesa degli Eremitani, Cappella Ovetari)


Andrea Mantegna, Oculo della Camera degli Sposi (1465-1474; affresco; Mantova, Castello di San Giorgio)
Andrea Mantegna, Oculo della Camera degli Sposi (1465-1474; affresco; Mantova, Castello di San Giorgio)


Andrea Mantegna, Tre studi per il Cristo morto (1475-1485 circa; inchiostro bruno su carta, 122 x 88 mm; Londra, British Museum)
Andrea Mantegna, Tre studi per il Cristo morto (1475-1485 circa; inchiostro bruno su carta, 122 x 88 mm; Londra, British Museum)


Andrea Mantegna, Uomo giacente su lastra (1475-1485 circa; inchiostro bruno e gessetto nero su carta, 203 x 139 mm; Londra, British Museum)
Andrea Mantegna, Uomo giacente su lastra (1475-1485 circa; inchiostro bruno e gessetto nero su carta, 203 x 139 mm; Londra, British Museum)

Risulta molto più facile elencare gli artisti che hanno guardato al Cristo morto di Andrea Mantegna e ne hanno tratto ispirazione per la loro arte. L’elenco è molto lungo: il primo a recepire la novità mantegnesca, con ogni probabilità, fu Giovanni Antonio Bazzi, meglio noto come il Sodoma (Vercelli, 1477 - Siena, 1549), che con il suo Compianto sul Cristo morto di privata collezione milanese, eseguito attorno al 1503, compì un “omaggio oltranzista ai capolavori prospettici” (Roberto Bartalini) del grande artista veneto. E anche nel Cinquecento si registrarono svariati omaggi al capolavoro mantegnesco: occorre citare la Deposizione eseguita ad affresco dal Pordenone (vero nome Giovanni Antonio de’ Sacchis, Pordenone, 1483 - Ferrara, 1539) sulla controfacciata del Duomo di Cremona, nonché il singolare Cristo morto tra la carità e la giustizia di Lelio Orsi (Novellara, 1511 - 1587), piccola tela conservata a Modena e realizzata negli anni Settanta del XVI secolo, e soprattutto il Cristo morto con gli strumenti della Passione di Annibale Carracci (Bologna, 1560 - Roma, 1609), capolavoro giovanile del pittore emiliano, realizzato probabilmente attorno al 1582-1584. L’opera di Carracci è particolarmente importante in quanto si tratterebbe della prima meditazione su Mantegna che si concentra esclusivamente sul corpo di Cristo: in particolare, l’artista bolognese volle accrescere la tragicità del precedente mantegnesco aumentando la quantità di sangue, proponendo un corpo ancor più straziato e in una posa meno decorosa (la salma di Cristo è infatti piegata all’altezza dei fianchi), e con gli oggetti del suo martirio poggiati ai suoi piedi. L’eco delle novità di Mantegna arrivò fino al Seicento: fu Orazio Borgianni (Roma, 1576 - 1616), caravaggesco della prima ora, a inserire nuovamente i dolenti e a dare un’interpretazione intima e toccante del Cristo morto, lontana anni luce dalla violenza carraccesca e pervasa da un’atmosfera di mesta malinconia, con la scena illuminata da una luce tenue, fioca, che addolcisce le asprezze mantegnesche pur replicando in maniera pressoché identica la composizione.

A distanza di secoli, Mantegna ha fornito suggestioni anche al cinema. Al di là del Pasolini di Mamma Roma, dove nelle scene finali s’assiste alla morte di uno dei protagonisti (il giovanissimo Ettore che spira legato a un tavolaccio di una prigione nell’indifferenza dei secondini) nella quale s’è voluto vedere un riferimento al Cristo morto (negato però da Pasolini, che scrivendo sulla rivista Vie nuove si rivolse direttamente a Roberto Longhi, di cui era stato allievo: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici?”), altri registi si sono espressamente ispirati al dipinto di Mantegna per girare alcune scene dei loro film: tra questi è possibile citare Il bacio di giuda di Paolo Benvenuti (1988) e Il ritorno di Andrej Zvjagincev (2003). Nel campo della fotografia, sia il critico d’arte e scrittore John Berger e il sociologo Eduard Grüner, in due loro saggi (rispettivamente Che Guevara dead e Iconografías malditas), hanno indicato nel Cristo morto il riferimento a una celebre fotografia del 1967 di Freddy Alborta che ritrae Che Guevara dopo la sua esecuzione (il lavoro di Alborta è stato peraltro al centro di un documentario del 1997, El día que me quieras, diretto da Leandro Katz).

Sodoma, Compianto sul Cristo morto (1503 circa; olio su tela; Milano, Collezione privata)
Sodoma, Compianto sul Cristo morto (1503 circa; olio su tela; Milano, Collezione privata)


Pordenone, Deposizione (1520-1521; affresco; Cremona, Duomo)
Pordenone, Deposizione (1520-1521; affresco; Cremona, Duomo)


Lelio Orsi, Cristo morto tra la Carità e la Giustizia (1570-1579 circa; olio su tela, 48 x 39,5 cm; Modena, Galleria Estense)
Lelio Orsi, Cristo morto tra la Carità e la Giustizia (1570-1579 circa; olio su tela, 48 x 39,5 cm; Modena, Galleria Estense). Ph. Credit Francesco Bini


Annibale Carracci, Cristo morto e strumenti della Passione (1583-1585; olio su tela, 70,7 x 88,8 cm; Stoccarda, Staatsgalerie Stuttgart)
Annibale Carracci, Cristo morto e strumenti della Passione (1583-1585; olio su tela, 70,7 x 88,8 cm; Stoccarda, Staatsgalerie Stuttgart)


Orazio Borgianni, Compianto sul Cristo morto (1615 circa; olio su tela, 55 x 77 cm; Roma, Galleria Spada)
Orazio Borgianni, Compianto sul Cristo morto (1615 circa; olio su tela, 55 x 77 cm; Roma, Galleria Spada)


Un fotogramma dal film Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini
Un fotogramma dal film Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini


Un fotogramma dal film Il bacio di Giuda di Paolo Benvenuti
Un fotogramma dal film Il bacio di Giuda di Paolo Benvenuti


Un fotogramma dal film Il ritorno di Andrej Zvjagincev
Un fotogramma dal film Il ritorno di Andrej Zvjagincev


La fotografia di Freddy Alborta
La fotografia di Freddy Alborta

Sono gli ultimi capitoli di una lunga storia cominciata con la lettera di Ludovico Mantegna di cui s’è parlato in apertura. Poi, per almeno tre secoli, le vicende del dipinto si fanno alquanto complesse, e a un certo momento della storia si sdoppiano, perché sappiamo di una replica molto simile, oggi in collezione privata, tanto che ci sono passaggi in cui le vicissitudini delle due tele si confondono. Sappiamo che l’opera, nel 1531, era ancora tra i beni appartenenti ai Gonzaga: quell’anno, un segretario della corte gonzaghesca, Ippolito Calandra, scriveva al duca Federico II che occorreva portare, in quello che sarebbe divenuto l’appartamento della sua moglie, Margherita Paleologa (che avrebbe sposato il duca nel novembre del 1531), almeno sei dipinti, uno dei quali “come quello quadro che fece el Mantegna de quello Cristo ch’è in scurto”. Per settant’anni si perdono le tracce dell’opera: ricompare nel 1603, elencata nell’inventario dei quadri che il cardinale romano Pietro Aldobrandini aveva acquisito dopo le spoliazioni che seguirono la devoluzione di Ferrara allo Stato della Chiesa (sembra dunque che, a un certo periodo della storia, il Cristo morto fosse passato agli Este). Nel 1626 l’opera figura nell’inventario della collezione di Olimpia Aldobrandini, e per diversi decennî sarebbe rimasto a Roma. Parallelamente, nel 1627 negl’inventarî dei Gonzaga compare un “N.S. deposto sopra il sepolcro in scurzo con cornici fregiate d’oro di mano del Mantegna”: possibile che si trattasse della copia, che sarebbe stata poi venduta nel 1628, insieme a gran parte della Celeste Galeria (la spettacolare collezione dei Gonzaga) a Carlo I d’Inghilterra, per poi finire sul mercato antiquario. L’altro esemplare, invece, restò a Roma fino ai primi dell’Ottocento. Il 17 dicembre del 1806, Giuseppe Bossi (Busto Arsizio, 1777 – Milano, 1815), allora segretario dell’Accademia di Brera, scrisse una lettera ad Antonio Canova chiedendogli un aiuto per fargli avere il suo “desiderato Mantegna”: lo scultore effettivamente aiutò l’amico e acquistò il Cristo morto sul mercato romano. Il dipinto sarebbe poi confluito nelle collezioni della Pinacoteca, così come tante altre opere della raccolta di Bossi, successivamente, per l’esattezza nel 1824. Da allora non ha più lasciato il museo milanese.

Oggetto di continui studî, al centro di accesi dibattiti, opera tra le più ammirate del museo milanese, il Cristo morto di Andrea Mantegna è uno dei capisaldi del Rinascimento, sia dal punto di vista tecnico, sia per ciò che riguarda i suoi contenuti. Forse è con questo dipinto che per la prima volta vengono sottolineate e poste senza indugio davanti agli occhi dell’osservatore tutta la fragilità e tutta l’umanità di Cristo. Lo ha sottolineato lo stesso James Bradburne in occasione della presentazione del più recente allestimento: “Mantegna ha saputo che più importante della scienza e più importante della prospettiva stessa era rendere la sofferenza di Cristo visibile, e rendere la sua morte assoluta. Sottolineare l’umanità di Cristo: se Cristo non fosse stato capace di morire, tutte le basi della religione cristiana sarebbero venute meno”. E Andrea Mantegna è riuscito in questo scopo con una tela capace di sconvolgere la storia dell’arte.

Bibliografia di riferimento

  • Giovanni Agosti, Dominique Thiébaut (a cura di), Mantegna 1431-1506, Officina Libraria, 2008
  • Mauro Lucco (a cura di), Mantegna a Mantova 1460-1506, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, dal 16 settembre 2006 al 14 gennaio 2007), Skira, 2006
  • Sergio Marinelli, Paola Marini, Mantegna e le arti a Verona 1450-1500, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, dal 16 settembre 2006 al 14 gennaio 2007), Marsilio, 2006
  • Roberto Bartalini, Le Occasioni del Sodoma, Donzelli, 1996
  • Claudia Cieri Via, Mantegna, Giunti, 1991
  • Peter Humfrey, La pittura veneta del Rinascimento a Brera, Cantini, 1990


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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