È giusto prestare a pagamento i beni nei depositi dei musei siciliani? I pareri degli esperti


All'indomani dell'approvazione della Carta di Catania, il decreto con cui la Sicilia concede il prestito a pagamento dei beni culturali dei suoi depositi, abbiamo sentito gli esperti per capire cosa ne pensano.

Una soluzione per l’annosa questione dei depositi o, al contrario, la scorciatoia più breve per lo svilimento e la commercializzazione di beni tutelati dalla Costituzione e dal Codice? Stiamo parlando del decreto del 30 novembre scorso, ribattezzato “Carta di Catania”, in omaggio alla sua artefice, la soprintendente Rosalba Panvini (appena andata in pensione). Il provvedimento riguarda la concessione in uso dei beni culturali appartenenti al Demanio e Patrimonio della Regione Siciliana “che si trovano in giacenza nei depositi regionali”, col fine di valorizzarli “attraverso l’esposizione in luoghi pubblici o privati aperti al pubblico che rispondano ai requisiti di legge”. Gli istituti che li possiedono saranno tenuti a redigere gli elenchi di tali beni; la concessione è subordinata al pagamento di un corrispettivo in denaro o sotto forma di beni e servizi (restauro, analisi archeometriche, catalogazione, pubblicazione e marketing, etc.); mentre a garantire la sorveglianza sui beni concessi in prestito sarà la soprintendenza competente per territorio.

Tutto bene quindi? Chi potrebbe mai non essere d’accordo con la “valorizzazione” dei depositi? Certo, ma solo nel mondo dei sogni di un sistema dei beni culturali perfetto, con soprintendenti coscienziosi e indipendenti dalla politica, e politici responsabili e rispettosi delle competenze dei tecnici, e tecnici in numero sufficiente e ben pagati. Peccato che la realtà sia ben altra, e così, dopo la bocciatura senza appello di Salvatore Settis nell’intervista che ci ha rilasciato e il suo nuovo intervento sul Fatto Quotidiano di sabato, non si sono fatte attendere le reazioni degli specialisti e delle Associazioni in difesa del patrimonio culturale, che hanno voluto dire la loro a Finestre sull’Arte.

A dire il vero anche quella dell’Assessore siciliano dei beni culturali Alberto Samonà, che appena due giorni dopo la nostra intervista, il 10 dicembre, è corso ai ripari firmando delle “linee guida” per l’applicazione della Carta. Riuscendo, se possibile, ad “aumentare la confusione”, a detta di Michele Campisi (Italia Nostra). Come lui la pensano anche Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia (“proposta del tutto inutile”), Alessandro Garrisi, presidente Ana, Associazione Nazionale Archeologi (“allarma il riferimento al coinvolgimento di “volontari” non retribuiti); Rita Paris, presidente Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli (“si crea una lista di beni di serie ‘B’ per la quale si può procedere con maggiore ‘libertà’ ”); Andrea Incorvaia e Leonardo Bison del gruppo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali (“utilizzo propagandistico-politico del patrimonio culturale pubblico”), Maurizio Michelucci, già direttore della scuola di Alta formazione dell’Opd, Opificio delle Pietre Dure (“operazione pericolosa”).

Sul tavolo ci sono questioni assai spinose. E se tutti si sono soffermati sui contenuti, con un’operazione di smantellamento del provvedimento più o meno dettagliata, dal punto di vista formale ci sembra che il decreto sia viziato da una contraddizione tra i richiami normativi in premessa, che rinviano a decreti assessoriali che disciplinano la materia dei prestiti (del 2013 e 2019, a loro volta normative opache di cui ci siamo occupati), quando l’oggetto del decreto è, invece, la concessione in uso dei beni culturali. Che in fase di applicazione possa ingenerare sovrapposizioni tra due istituti distinti e separati, quello del prestito e quello della concessione in uso, disciplinati da altrettanto distinti articoli del Codice dei beni culturali, sembra trovare, peraltro, conferma nel comunicato stampa dell’Assessore, in cui si legge che: “con la ‘Carta di Catania’ si ottiene, finalmente, una deroga al decreto n. 1771 del 2013 che regolamenta l’uscita dal territorio della Regione Siciliana dei beni culturali facenti parte delle collezioni di musei, pinacoteche, gallerie, archivi e biblioteche”.

Confusione, dicevamo. Sebbene le evochi nella altisonante denominazione, nulla ha a che vedere questo provvedimento con le storiche “carte del restauro”, come quella di Atene (1931) o di Cracovia (2000), che codificano e incorporano principi e prescrizioni atti a guidare gli interventi, frutto di complesse e graduali elaborazioni maturate a seguito di confronti internazionali. Ma nulla ha a che vedere nemmeno con quell’altra “Carta di Catania” del 2007, sugli ecomusei (iniziativa di un altro soprintendente dell’epoca, Gesualdo Campo), tradotta in legge nel 2014, rimasta inattuata per cinque anni e sbloccata proprio dal presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci l’anno scorso. Per un capriccio della sorte in quello stesso 10 dicembre scorso l’assessore Samonà firmava da una parte le linee guida per questa “Carta di Catania”, e dall’altra il decreto che riconosce due nuovi ecomusei, in forza della legge partorita da quell’altra “Carta di Catania”. Confusione, appunto.

E se i depositi nell’immaginario collettivo rinviano a immagini di polvere e accatastamenti, proprio in Sicilia c’è un museo in cui si potrebbero invertire le coordinate a cui si è abituati quando si pensa all’ordinamento museologico e museografico, e riguarda proprio il tema dei depositi, collegato alla “personalità” museale. Se tutti i musei nascono per esorcizzare la morte, per sottrarre gli oggetti alla vita e al tempo che scorre inesorabile, nel Museo regionale di Messina, nato dalle macerie del sisma del 1908, il visitatore avrebbe potuto essere indotto a elaborare il lutto che ha colpito un’intera società se si fosse pensato a un percorso tra i depositi, straordinari, perché è lì, in quei frammenti d’un immenso patrimonio, che palpita ancora il dramma della catastrofe che l’ha ferito. Questi depositi sono (sarebbero) molto più entusiasmanti di qualsiasi sala ben ordinata.

Deposito del Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa
Deposito del Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa

I pareri di specialisti e Associazioni

Per Maurizio Michelucci, ex direttore della scuola di Alta formazione dell’Opd, Opificio delle Pietre Dure, “il principio non è male, tuttavia rimangono zone oscure importanti per quanto riguarda la tutela e la valorizzazione: sono rimandate tutte all’art. 5, ad atti di competenza del direttore generale. Molto pericoloso e foriero di possibili danni e ‘svalorizzazioni’. E poi, tutta l’operazione a costo zero? La catalogazione ed il raggruppamento per ‘gruppi omogenei’ sono operazioni delicate e che richiedono competenze e chi ne è preposto deve essere retribuito! Mi sembra un’operazione pericolosa, senza i presupposti che ho elencato”.

Taglia corto Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia: “E chi non potrebbe essere d’accordo ad una proposta di questo tipo: svuotare i magazzini dei musei e rendere fruibili reperti che nessuno conosce. A maggior ragione quando poi c’è qualcuno che afferma che l’operazione riguarda addirittura l’80% del nostro patrimonio. Ma le domande sorgono spontanee: ma dove sono stati lor signori? Cosa hanno fatto in tutti questi anni mentre occupavano importanti ruoli nella gestione dei Beni culturali in Sicilia? Si sono accorti solo adesso di tutto ciò? Ora pensano di aver trovato l’uovo di Colombo. La proposta ha, ripeto, il suo fascino ma sarà del tutto inutile. Non sarà mai attivata, viste le condizioni che prevede il decreto assessoriale e non immagino quelle che saranno scritte nel possibile bando per l’assegnazione, se mai si farà. Resta solo una buona dose di propaganda, ma i nostri assetati e asfissiati Beni culturali hanno bisogno di altro”.

Anche Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali condivide l’assunto di partenza, ma non si va oltre: “Per quanto sia interessante un ragionamento sui depositi, poiché tantissimi giacciono in situazioni di semi oblio senza alcuna possibilità di valorizzazione, il metodo e il merito della proposta rischiano di generare un effetto boomerang potenzialmente pericoloso sul patrimonio siciliano”, spiega Andrea Incorvaia. “Tutto è molto generico, non sono chiari i criteri che porteranno i privati ad ottenere il patrimonio da esporre, non è chiaro chi possa esporre (centri commerciali? ristoranti?). Mentre è chiaro, perché citato, che si possa anche trattare di beni confiscati”.

“Dato che possono essere esposti per 14 anni (!!) pagando un decimo del loro valore, non sembra un sistema totalmente esente da abusi o, peggio, utilizzo propagandistico-politico del patrimonio culturale pubblico”, aggiunge Leonardo Bison. “L’altra cosa chiara è l’appalto a una società partecipata e l’utilizzo di studenti tirocinanti: insomma, la certezza che questa operazione non andrà a creare lavoro di qualità. Quando una legge è così generica nella struttura e così precisa in alcuni specifici punti, non può lasciarci tranquilli. Se una collaborazione pubblico-privato per le esposizioni può essere auspicabile, certo non con rinnovi taciti ogni 7 anni e con criteri tanto fumosi”.

Rita Paris, Presidente Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, mette al centro il primato dello studio compromesso, e passa in rassegna i singoli articoli, facendone anche una questione tassonomica: “il termine ‘in giacenza’ rimanda a un patrimonio dimenticato, obsoleto. Non può essere applicato ai beni culturali. Anche se detti materiali non sono destinati all’esposizione, questo non significa che non possano esserlo nelle circostanze di auspicabili iniziative culturali, come mostre e esposizioni tematiche. Sarebbe, comunque, auspicabile che fossero destinati allo studio, oggetto di tesi di laurea e esercitazioni scientifiche. L’art. 3 non sottrae valore a detti beni, per i quali al contrario, sarebbe necessario fare approfondimenti di studio. La predisposizione di elenchi di detti materiali di fatto ne svilisce il valore e li sdogana per usi diversi, creando una lista di serie b per la quale si può procedere con maggiore ‘libertà’. È gravissimo che per redigere tali elenchi ci si avvarrà di catalogatori della società in house Servizi Ausiliari Sicilia e di studenti universitari, contravvenendo alle disposizioni vigenti in materia di catalogazione. L’art. 5 fa riferimento a concessione in uso attraverso un bando e una centralizzazione delle procedure che sottrae ai professionisti interni agli Istituti ogni facoltà al riguardo. Nell’art. 6 si specifica che la concessione in uso è subordinata al pagamento di un corrispettivo non inferiore a un decimo delle stime inventariali. Al riguardo occorre osservare che le stime potrebbero non essere aggiornate; che il corrispettivo farà parte del bando, determinando quindi un valore monetario alla concessione in uso, prescindendo da ogni valutazione di qualità di eventuali progetti; che tale pagamento darà diritto a contributi o finanziamenti statali e della UE. Si osserva che ancora una volta si assiste a un gravissimo depauperamento delle competenze specialistiche del personale dei beni culturali; che si introduce e si formalizza la pratica di uso dei beni culturali come merce e non come patrimonio pubblico per il quale è d’obbligo mettere in atto procedure per la conoscenza e la valorizzazione, ad opera dell’amministrazione pubblica. Ancora una volta si cercano soluzioni esterne per mettere a reddito beni culturali, dando avvio a una pratica gravissima che non porta alcun beneficio ai beni culturali stessi e affida ad altri, anche privati, la loro gestione”.

Deposito dell'Archivio di Stato di Palermo
Deposito dell’Archivio di Stato di Palermo

Alessandro Garrisi, presidente Ana, Associazione Nazionale Archeologi, si sforza di trovare anche qualche aspetto positivo. Il bilancio finale conferma, però, una grande preoccupazione, con l’impegno diretto a vigilare. Sottolinea che si tratta di “oggetti che al momento non hanno legami con un preciso sito o luogo e che pertanto parlano al pubblico solo attraverso se stessi e, al limite, attraverso la storia del proprio ritrovamento (casi eclatanti di trafugamento di patrimonio, ad esempio, aggiungono il valore storico della propria vicenda criminale a quello del pezzo stesso). Troviamo inoltre corretto il principio del pagamento da parte del privato di un canone di affitto (stabilito nel 10% del valore dell’opera: occorrerebbe peraltro sapere quale metodologia verrà usata per determinare il valore dei pezzi). Forse avremmo gradito un po’ di precisione in più circa la destinazione delle cifre erogate dal privato, per le quali le ipotesi di destinazione sono molteplici e a volte un po’ troppo vaghe”.

“Quello che preoccupa”, aggiunge Garrisi, “è l’idea di valorizzazione che viene espressa nella Carta, o meglio quella che ‘non’ viene espressa. Se infatti possiamo essere d’accordo con la messa a disposizione del pubblico, a spese del privato, di pezzi di patrimonio, questa operazione ha bisogno di essere accompagnata da un vero e proprio ‘progetto culturale’ che specifichi meglio il vago concetto di ‘progetto di valorizzazione’ cui fa riferimento il decreto. Prendere una menade ellenistica ed esporla all’ingresso di una discoteca non è di per sé un’operazione di valorizzazione. Occorre che il privato che mostra desiderio nell’aderire all’operazione spieghi dettagliatamente come si svolgerà l’operazione, coinvolgendo quali professionalità, spiegando quali azioni saranno condotte per andare oltre la semplice ‘messa a disposizione del pubblico’ e per dare valore, attraverso l’esposizione, all’opera. Perché l’esposizione da sola e fine a se stessa non dà garanzia di nulla”.

Particolare attenzione, prosegue il presidente di Ana, “va posta all’operazione di formazione degli elenchi, alla quale sono chiamati gli Istituti periferici della Regione, di cui all’art. 4 del Decreto dell’assessore Samonà: apprezziamo che si sia specificato che gli elenchi saranno formati da catalogatori esperti e professionisti, ma soprattutto che si sia specificato che l’operazione di coinvolgimento degli studenti universitari in discipline annesse alla conservazione di beni culturali sia esclusivamente di ‘ausilio’ ai catalogatori professionisti e comunque rivolta non a tutti gli studenti, ma a quelli ‘in regime di tirocinio formativo’. Su questo aspetto, come associazione di categoria, ci permetteremo di esercitare una sorveglianza vigile per evitare che l’‘ausilio’ divenga una vera e propria azione paragonabile al lavoro non retribuito che dovrebbero invece svolgere i professionisti. Allarma invece il riferimento al coinvolgimento di ‘volontari’ non retribuiti che compare nel Decreto n. 78 del 10/12/2020 e non compariva nel Decreto n. 74 del 30/11/2020 firmato dallo stesso assessore Samonà: il peggioramento da un decreto all’altro è evidente, come evidente il conflitto tra i due dispositivi. La sorveglianza dell’Associazione Nazionale Archeologi non sarà quindi solo sull’utilizzo degli studenti universitari ‘in ausilio’, ma anche sulle professionalità impiegate in forma volontaria dalle associazioni di volontariato, delle quali è noto l’antico vizio di coinvolgere anche semplici appassionati in mansioni riservate dalla legge a specialisti in possesso di specifici requisiti (DM 244/2019). La specifica che anche i volontari debbano essere in possesso di ‘adeguati titoli’ è quindi un aspetto positivo che non cancella però la decisione totalmente non condivisibile di avvalersi di professionisti non retribuiti in forma volontaria. Il codice deontologico dell’Associazione Nazionale Archeologi è chiarissimo sulle responsabilità in capo agli archeologi professionisti, e auspichiamo una analoga sorveglianza anche da parte delle associazioni di categoria delle altre professionalità dei beni culturali. Nel complesso quindi riteniamo che l’operazione, se condotta con criteri rigorosi finalizzati alla valorizzazione culturale del bene (in senso costituzionale) e non alla semplice fruizione, possa costituire un momento di arricchimento per un pubblico vasto e l’occasione per i musei di proporre all’esterno la propria offerta culturale. Tuttavia ribadiamo la necessità che le richieste dai privati siano corredati di un vero e proprio progetto culturale, redatto da un professionista di cui all’art. 9-bis del Codice dei beni culturali , competente nella materia del bene richiesto (D.Lgs. 42/2004 e Legge 110/2014)”.

Sulle contraddizioni tra il decreto di novembre e le successive linee guida di dicembre si sofferma anche Michele Campisi, coordinatore del Tavolo dei Beni Culturali presso la presidenza nazionale di Italia Nostra. L’architetto (è evidente il riferimento alla presa di posizione favorevole di Leandro Janni, presidente di Italia Nostra Sicilia) tiene a precisare che le proprie dichiarazioni “rappresentano delle personali conclusioni non ancora sviluppate e discusse, come appare necessario, all’interno di Italia Nostra. I risvolti assai significativi della questione, l’importanza del tema affrontato nella sua interezza istituzionale e nazionale, esigono l’approfondimento critico ed il confronto delle diverse voci, nonché la ‘salvaguardia’ dei valori fondativi dell’associazione, irriducibili alla discrezionalità delle varie sezioni”.

Il Museo Regionale di Messina
Il Museo Regionale di Messina

Vale la pena riportare nella sua interezza il suo meditato intervento. “Da quasi un decennio”, dice l’architetto, “la fraintesa e demagogica concezione di Valorizzazione dei beni culturali, declinata tra populismo e mercato, ha ridotto il patrimonio nazionale alla disponibilità di qualsiasi iniziativa politica; in Sicilia la sua più estrema applicazione è con gli ultimi decreti sui beni in deposito. L’‘incompetenza’ è la chiave di questo assetto, plasticamente visibile ad esempio nella direzione del Museo Bellomo di Siracusa affidate ad una geologa (luogo dove si conserva l’Annunciazione di Palazzolo: l’opera di Antonello più delicata che si conosca). Assai nota è la questione dei depositi nazionali e siciliani. Per quanto svariate siano state le risorse impiegate, non vi è ancora un Catalogo nazionale e nemmeno un preciso sistema. La situazione, letta nella dovuta relazione con questo ultimo provvedimento, getta preoccupanti ombre. Il limite posto dalla sostanziale non conoscenza del patrimonio non è dovuto solo alla mancanza della catalogazione, quanto piuttosto dalla inaccessibile indicizzazione dei beni. Non si può infatti prendere a riferimento identificativo un numero di inventario di una serie di oggetti sommariamente elencati. L’assessore risolve il problema con una lista di lotti delle giacenze, predisposti da catalogatori esterni e da studenti universitari. Non vi sono molti dubbi su queste incongruenze. Incombe il rischio di consentire la cedibilità di beni ancora senza quello specifico ‘status’ previsto dal Codice dei beni culturali (D. Lgs 42/2004). La piena riconoscibilità delle opere d’arte e dell’oggetto d’interesse storico è infatti il risultato di un lungo processo che si genere attraverso la presa di ‘coscienza’ del bene. Questo processo non è riducibile ad una forma semplificata, com’è qui nella Carta di Catania, né può esaurirsi al di fuori di uno ‘statuto’ conoscitivo avvenuto senza una ricerca dei contesti, della provenienza, che sia conducibile nelle complete e dovute strumentazioni critiche e nella capacità di individuazione competente delle sue soggiacenti culture. Lo stesso processo è il frutto di tempi e di progressi anche indipendenti dalla natura sedimentaria del ‘deposito’ ed attengono all’idea di un patrimonio dinamico e non semplicemente definito da un polveroso catalogo e dall’internato statico di una cassetta, di un armadio o di uno scaffale. Le strutture destinate ai nostri beni culturali, oltre alla esposizione pubblica del ‘museo’ nelle sue molteplici accezioni e ricorrenze problematiche, non sono entità e luoghi semplicemente occupati da impiegati e da cose nella qualità di oggetti ma, tutte queste categorie si definiscono nella svariata e molteplice proiezione sul territorio. Tali compiti che designano il primo elementare livello di tutela non possono dunque essere delegabili ad istituzioni estranee all’assetto dello Stato. La salvaguardia di questi beni comuni è una delicatissima funzione che attiene al processo di riconoscimento e di provenienza dalla storia culturale e di azione della tutela che è competenza esclusiva dello Stato. Mostre ed esposizioni che li valorizzano, promuovendone la giusta fruizione sono com’è noto usuali e possibili. Lo stravolgimento dei loro significati è la prima forma di manipolazione e tradimento della storia, del contenuto in quanto non semplici ‘cose’ od ‘oggetti’. Si arretra dunque alla categoria di oggetto ignoto, singolare, utile solo per lo stupore suscitato dalla sua dichiarata estraneità al contesto contemporaneo, ripercorrendo, a basso impatto emozionale e con le oggettive limitazioni dell’uomo contemporaneo, la sottospecie di una wunderkammer”.

“Si può inoltre dire”, conclude Campisi, “che l’effetto dei tre ‘dispositivi’ emanati, e cioè 1) la Carta vera e propria; 2) il primo decreto del 30 novembre 2020; 3) il secondo decreto del 10 dicembre 2020, hanno generato una grande confusione. Esempio? Il modo delle compensazioni: nella carta si parla di varie modalità senza quella di un versamento monetario vero e proprio; nel decreto del 30 novembre si parla di compensazioni monetarie e di altro come restauri, pubblicazioni e marketing; nel decreto del 10 dicembre si parla della compensazione a fronte dei costi del restauro preventivo. Queste tre diverse versioni mi pare rivelino un disordine mentale e siano l’effetto di un modo estemporaneo di trattare un argomento così importante. Rimettere continuamente mano alla norma, come appunto fosse un saggio, un ‘racconto’ che va corretto e ristampato a futura verifica. Non è esattamente il modo regolare di affrontare le questioni. Anche qui incide forse il peso di una incompetenza che dovrebbe operare nei perimetri di una ‘natura giuridica’ e non ‘narrativa’ delle funzioni deliberanti dell’Assessore”.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).



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