“Lo spazio tra opera e sguardo? Un vuoto fertile in cui accade qualcosa”. Conversazione con Minus.log


Minus.log è un collettivo formato, nel 2013, da Giustino Di Gregorio e Manuela Cappucci. La loro arte va alla ricerca di una comunicazione silenziosa che cerca di toccare corde profonde. Nello spazio tra opera e sguardo. Il duo si racconta con Gabriele Landi.

Minus.log è un collettivo formato, nel 2013, da Giustino Di Gregorio e Manuela Cappucci. La ricerca che Giustino porta a avanti, fin dagli anni Novanta, spazia dalla video arte alla sperimentazione musicale, nella quale si mette in evidenza come compositore. Nel 1999, esce l’album Sprut per la Tzadik Records di John Zorn. Gli anni Duemila sono dedicati alla creazione di diverse installazioni audiovisive tra le quali ricordiamo Trapped Light (E-fest Cultures Numériques, La Marsa, Tunisia). Manuela inizia invece il suo percorso artistico durante il periodo universitario frequentando liberi corsi di pittura. In sintonia con l’amore per la filosofia orientale, si avvicina all’arte minimale. La sua sperimentazione, a partire dal 2011, si arricchisce aprendosi anche a nuovi mezzi espressivi. Dall’incontro di queste sensibilità nasce Minus.log, uno spazio comune in cui si fondono materiale e immateriale, analogico e digitale, in cui predominano lo spazio vuoto e la pausa. Nei lavori di Minus.log emerge la costante ricerca di una comunicazione silenziosa che cerca di toccare corde profonde attraverso elementi semplici, siano essi forme, linee, proiezioni, suoni o paesaggi accennati. Si gioca negli interstizi del senso e della logica per portare alla luce ciò che spesso è accantonato velocemente: l’errore, l’attesa, la ripetizione. Nella realizzazione dei suoi lavori, attraverso i diversi mezzi a disposizione, Minus.log esplora una dimensione nella quale sia possibile cogliere sfumature e minime variazioni, ma anche una diversa percezione del tempo e del proprio spazio interiore.

Minus.log
Minus.log

GL. Il vostro è un duo artistico: per iniziare questo dialogo mi piacerebbe domandarvi della vostra preistoria... come e quando nasce il vostro interesse per l’arte? Di solito l’infanzia ha un ruolo strategico nell’avvio di questo processo. Raccontatemi individualmente le vostre storie.

GDG. Fin da piccolo ho costruito da solo quello che mi serviva, quello che serviva alla mia testa per viaggiare, pur restando qui, in un luogo che apparentemente offre pochi stimoli. Il mio primo amore è stato il cinema, ma non mi bastava guardare i film, volevo farli io stesso e condividerli con le persone che avevo intorno. A quattordici anni, quando quasi tutti i ragazzini della comitiva cercavano di ottenere il motorino, ho chiesto a mio padre una cinepresa e, con quella, ho cominciato a girare cortometraggi coinvolgendo i miei amici e l’intero quartiere. Mi chiamavano “Il ragazzo dei filmini” ed ero considerato un tipo strano, perso nel suo mondo, disinteressato a tutto il resto: scuola, ragazze, motori. Ho sempre amato l’arte in tutte le sue forme. Negli anni Novanta mi sono avvicinato alla musica: era il periodo in cui si esploravano le possibilità del cosiddetto “plagiarism” o “cut up”, praticamente creare nuove composizioni utilizzando frammenti di brani di altri musicisti. Un mio pezzo è arrivato nelle mani di John Zorn e lui mi ha chiesto di creare un lavoro per la sua etichetta discografica. Così, nel 1999 è uscito l’album Sprut per la Tzadik Records. È stata una svolta importantissima, il momento in cui ho iniziato a credere veramente di potermi definire “artista”. Per qualche tempo mi sono dedicato soprattutto alla musica, ma mi piace cambiare spesso direzione in cerca di nuovi stimoli, così ho voluto esplorare anche altro, dalla video arte alle installazioni audiovisive, alla pittura.

MC. Da bambina passavo intere giornate con matite e pennarelli, perdendo la cognizione del tempo. Ore e ore immersa in un mondo che si creava sotto i miei occhi, quasi da solo. Per me era un gioco misterioso che non reggeva il confronto con nessun’altra attività. Ho coltivato questo mondo per tutta l’adolescenza, pur frequentando un liceo classico e, successivamente, la facoltà di Lettere e filosofia di Urbino. Ricordo che ogni valutazione positiva che mi riconfermava nel percorso, che avevo intrapreso per diverse ragioni, era una staffilata. Portavo con me una specie di dolore per un paradiso perduto. Ma la svolta, che mi ha dato il coraggio di recuperare in qualche modo il mio paradiso, è arrivata proprio dall’università che stavo frequentando, da un insegnante di filosofia. Le lezioni del professor Leonardo Arena non erano semplici lezioni universitarie: erano filosofia viva che, non so come, ha acceso qualcosa che mi ha spinto nella mia direzione naturale. Mi sono laureata con una tesi su Paul Klee ed è stato come immergermi in una sorgente di creatività libera, al di là di ogni sovrastruttura. Si stava profilando la cosiddetta “second chance”. Nel frattempo avevo iniziato a prendere lezioni di pittura. Non mi interessava tanto il disegno, mi affascinavano il gesto e il colore, ogni segno che racchiudeva un mondo. Ho scoperto, strada facendo, che la tecnica (che dovevo acquisire e mi faceva tanta paura) si nutre dello stesso gioco misterioso di sempre, indissolubilmente legata all’atto creativo e si arricchisce, giorno dopo giorno, di nuovi stimoli e nuovi mezzi espressivi.

Minus.log, Ctrl-c (2016; installazione). MuseoLaboratorio, Città Sant'Angelo (Pescara)
Minus.log, Ctrl-c (2016; installazione). MuseoLaboratorio, Città Sant’Angelo (Pescara)
Minus.log, Try again (2017; installazione e tele - olio su tela, 80x80 cm). Galleria Bianconi, Milano. Foto: Tiziano Doria
Minus.log, Try again (2017; installazione e tele - olio su tela, 80x80 cm). Galleria Bianconi, Milano. Foto: Tiziano Doria
Minus.log, Cure 01 (2017; installazione). Galleria Bianconi, Milano. Foto: Tiziano Doria
Minus.log, Cure 01 (2017; installazione). Galleria Bianconi, Milano. Foto: Tiziano Doria
Minus.log, Pausa 04 (2017; olio su tela, 60 x 60 cm)
Minus.log, Pausa 04 (2017; olio su tela, 60 x 60 cm)
Minus.log, Notime 02 (2018; installazione). Abbazia di Propezzano (Teramo)
Minus.log, Notime 02 (2018; installazione). Abbazia di Propezzano (Teramo)
Minus.log, Notime 03 (2018; installazione). Blooming festival, Pergola (Pesaro-Urbino)
Minus.log, Notime 03 (2018; installazione). Blooming festival, Pergola (Pesaro-Urbino)
Minus.log, Come un vuoto di memoria 02 (2021; acquerello su carta 600g, 76 x 56 cm)
Minus.log, Come un vuoto di memoria 02 (2021; acquerello su carta 600g, 76 x 56 cm)

Quando e come vi siete incontrati?

Ci siamo incontrati nel 2011, anche se abitiamo a mezz’ora di macchina. Abbiamo iniziato a seguirci reciprocamente in rete e ad avere voglia di conoscere meglio il lavoro dell’altro, così ci siamo invitati ad un paio di eventi che abbiamo organizzato e abbiamo avuto modo di parlare dal vivo. Subito dopo è nata la possibilità di lavorare, con altri amici artisti, ad un’installazione audiovisiva site specific. In un paio di mesi, il tempo che abbiamo impiegato per creare Menhir (si chiamava così l’installazione), abbiamo scoperto una grande sintonia: in qualche modo ci muovevamo nello stesso mondo creativo, senza bisogno di parlare più di tanto e le idee emergevano da questo spazio comune in modo molto naturale. Una bella scoperta.

Collaborate sia sul piano concettuale/progettuale che sul piano operativo realizzando materialmente il lavoro a quattro mani?

In realtà non vediamo distinzione tra il piano concettuale/progettuale e il piano operativo, forse perché nel nostro modo di lavorare non c’è una fase progettuale che precede una fase operativa ma ci sono scoperte, feedback, variazioni continue e i due piani si intersecano continuamente. Spesso sono le mani a pensare, che abbiano in mano un pennello, un computer o materiali di vario tipo. Dietro questo pensiero operativo c’è il mondo di Minus.log, uno spazio condiviso al di là di ogni possibile concettualizzazione. Le nostre mani attingono tutte e quattro da lì. In questo senso operiamo a quattro mani. In concreto, però, e credo che la domanda si riferisca anche a questo, in studio sfruttiamo le mani di Manuela per usare i colori e quelle di Giustino per lavorare con i software o con il legno, ma solo perché sono più allenate.

G.L.: Questa idea delle mani pensanti mi affascina: vi vorrei chiedere di parlarne più diffusamente...

Le mani attingono al mondo Minus inconsapevolmente, in modo più diretto. Non selezionano a priori, non calcolano il gesto, sono libere di esplorare eppure si muovono con una loro coerenza. A volte ci sorprendono. Questo dipende dal nostro approccio all’arte, quello che abbiamo sempre avuto, anche prima di incontrarci e che, insieme, si è rafforzato. È uno stato mentale nel quale lasciamo molto spazio al flusso creativo, alla naturalezza. Meno interveniamo a modificare un lavoro e più il lavoro risulta interessante ai nostri occhi e non solo: spesso ci accorgiamo che comunica meglio, in modo più diretto anche con altri, come se attingesse ad una matrice comune. Poi, ovviamente, non è una regola e non tutti i lavori nascono così: alcune opere hanno avuto una lunga genesi e sono state “limate” per molto tempo, ma ci interessa sempre conservarne la freschezza originaria.

Che valore ha l’azzurro nel vostro lavoro?

È un bel colore da esplorare, evocativo e naturale. Ci siamo trovati spesso a lavorare con questo colore nelle sue diverse tonalità; forse perché emerge con delicatezza dallo spazio bianco e traccia il momento di confine tra apparire e svanire: un confine indeterminato tra l’immagine, la percezione, l’immaginazione. L’azzurro ci permette di affievolire il confine tra l’opera e chi la osserva, di creare un gioco di feedback che rende dinamico l’incontro.

Vi interessa l’idea della lentezza?

Ci interessa il tempo naturale, che ogni lavoro segua il suo percorso senza fretta. Alcune opere nascono in poche ore, altre impiegano anni prima di raggiungere la loro forma definitiva. L’importante è rispettarne il processo creativo senza forzare la mano. Ma sì, in effetti nei lavori torna spesso l’idea di lentezza: siamo attratti dalle piccole variazioni, dalle sfumature, dall’errore impercettibile. Per fare in modo che chi entra nell’ambiente allestito possa cogliere tutto questo, occorre la lentezza, cerchiamo di stimolare una percezione diversa del tempo.

Minus.log, Nonluogo (2022; acquerello)
Minus.log, Nonluogo (2022; acquerello)
Minus.log, Nonluogo 011 (2022; acquerello su carta 600g, 32 x 24 cm)
Minus.log, Nonluogo 011 (2022; acquerello su carta 600g, 32 x 24 cm)
Minus.log, Nonluogo 013 (2022; acquerello su carta 600g, 40 x 30 cm)
Minus.log, Nonluogo 013 (2022; acquerello su carta 600g, 40 x 30 cm)
Minus.log, Si vede solo silenzio (2023; acquerello su carta 600g, 35 x 35 cm)
Minus.log, Silent window 02 (2023; acquerello su carta 600g, 34 x 70 cm)
Minus.log, Silent window 02 (2023; acquerello su carta 600g, 34 x 70 cm)
Minus.log, Silent window 03 (2023; acquerello su carta 600g, 34 x 70 cm)
Minus.log, Silent window 03 (2023; acquerello su carta 600g, 34 x 70 cm)
Minus.log, Altered sun (2023; acquerello su carta 600g, 56 x 78 cm)
Minus.log, Altered sun (2023; acquerello su carta 600g, 56 x 78 cm)

Un altro elemento che incontrate spesso è la geometria che se non sbaglio, nel vostro lavoro, “amoreggia” con la poesia?

Siamo affascinati dalla ricerca di un equilibrio estetico tra perfezione ed errore, casualità e controllo. Usiamo sia le mani che i software, spesso nella stessa opera. Ne viene fuori quello che hai detto tu: un lavoro nel quale elementi della natura, forme incompiute in trasformazione, “amoreggiano” con tagli digitali o con elementi geometrici. Probabilmente dipende proprio dal fatto che lavoriamo con diversi mezzi che si influenzano a vicenda in un rimando continuo tra video installazione e pittura.

Molto spesso nei vostri lavori ricorre l’immagine del cielo come mai?

Nelle installazioni della serie No-time troviamo un cielo, o meglio, una porzione di cielo catturata con un taglio digitale. Abbiamo iniziato a giocare con delle foto di nuvole bianche in un cielo azzurro e, con l’aiuto di alcuni software, ne abbiamo ricreato il movimento lento e fluido. Ci è piaciuto quello che veniva fuori. Era esteticamente interessante e spesso ci sono delle ragioni profonde per le quali una scoperta ci sembra esteticamente interessante. Si trattava di qualcosa di naturale e digitale, di semplice ma aperto a suggestioni meno immediate. Cosa c’è di più semplice del cielo che possiamo guardare alzando gli occhi? Ma l’atmosfera rarefatta, quasi ipnotica, che nasce dall’installazione permette di fare un viaggio. Il movimento delle nuvole è apparentemente naturale ma la lentezza fluida, ogni tanto, si interrompe improvvisamente, come se il tempo avesse subito un’accelerazione improvvisa che non siamo riusciti a cogliere e ci ritroviamo a guardare lo stesso cielo in un momento diverso o forse stiamo guardando un altro cielo, in un altro luogo. Lo spazio, il tempo, la nostra percezione, ci sono in gioco tante suggestioni,eppure è un semplice viaggio che permette ad ognuno di trovare sulla strada quello che vuole.

Vi interessa la dimensione contemplativa?

Ci interessa una dimensione spirituale, se così si può definire, che cerchiamo di rintracciare nel quotidiano. Cercare una traccia di ciò che si potrebbe dire “profondamente umano” è importante nella nostra arte. La cosa curiosa è che ciò che è profondamente umano sembra sempre portare con sé una traccia che va oltre.

Il sacro per voi ha ancora una sua importanza nell’arte di oggi e nel mondo in cui viviamo?

Forse sì, ma entriamo in un terreno scivoloso e le parole possono soltanto evocare qualcosa di indefinibile. Allora è meglio rispondere senza dare definizioni, soltanto cercando di rintracciare il sacro nella sua concretezza impalpabile. È sacro lo spazio che proteggi e che cerchi di pulire tutti i giorni dalle incrostazioni delle aspettative e dei condizionamenti; è sacra la paura di iniziare un nuovo lavoro; sono sacre l’attesa e l’impotenza nell’attesa; sono sacri il bianco e il silenzio; è sacro il momento della scoperta, quello in cui ti accorgi che il tuo lavoro non ti appartiene.

Ma è sacro soprattutto quello spazio vuoto tra l’opera e lo sguardo. Lì può davvero accadere qualcosa di misterioso e profondo.

È sacro soprattutto quello spazio vuoto fra l’opera e lo sguardo”, dunque qual è secondo voi la posizione in cui l’artista si deve collocare rispetto all’opera?

A noi piace collocarci in una posizione ricettiva. Lasciare spazio a ciò che accade, fare il meno possibile, osservare il processo, così l’opera può sorprenderti andando oltre quello che avevi previsto. In questo modo è viva e trasmette un po’ della sua forza creatrice a chi la osserva. Ha il potere di toccare corde profonde nei visitatori di una mostra ma anche in noi che abbiamo contribuito al suo prendere forma. Lo spazio tra l’opera e lo sguardo è quel vuoto fertile in cui può accadere qualcosa di importante, il momento di silenzio tra la percezione e l’interpretazione.

Minus.log, Alma installazione, particolare (2023)
Minus.log, Alma, installazione, particolare (2023)
Minus.log, Tilt, installazione (2023)
Minus.log, Tilt, installazione (2023)
Alma, Torre Moresco arti Visive
Alma, Torre Moresco Arti Visive
Altered sun, Torre Moresco Arti Visive
Altered sun, Torre Moresco Arti Visive
Tilt, MAMeC, Penne
Tilt, MAMeC, Penne

Che importanza ha nel vostro lavoro la pulizia formale e la precisione dei lavori che realizzate?

Ha importanza soltanto come conseguenza della naturalezza del gesto e dalla pulizia del processo creativo. Non cerchiamo la perfezione: siamo convinti che il prodotto e il processo siano inscindibili. La pulizia formale costruita a tavolino non ci interessa perché non ci sorprende, non comunica. Le opere migliori, per noi, sono quelle in cui si possono rintracciare la pulizia e la naturalezza con le quali sono nate.

Può avere senso parlare di paesaggio nel vostro lavoro?

Sì, spesso si trovano nei nostri lavori elementi della natura più o meno riconoscibili, a volte ridotti a forme essenziali, quasi archetipiche. Dal nostro studio vediamo gli ulivi, la campagna, colline e montagne in lontananza. È accaduto più di un volta che i nostri ospiti ci chiedessero: “Ma come fate a fare arte contemporanea qui?”, come se lo “spirito del tempo”, con i mezzi che abbiamo oggi a disposizione, fosse presente in un luogo piuttosto che in un altro. Forse la risposta è anche in quello che rimane del paesaggio, di ciò che abbiamo intorno e filtriamo quotidianamente senza neanche rendercene conto.

Quali sono degli artisti a cui guardate con un particolare interesse?

Sono tanti, ti diciamo i primi nomi che ci vengono in mente: Brian Eno, David Lynch, Agnes Martin, Paul Klee. Tanto diversi, ma ci sembra siano accomunati da una ricerca che pesca “in acque profonde”, come direbbe Lynch. Sembra che si abbandonino al flusso creativo e che, proprio perché il processo e il prodotto si nutrono della stessa energia, riescano a trasmettere questa creatività agli altri. Pensiamo al modo di lavorare di David Lynch: molte scene nascono sul set, senza copione, lui interagisce empaticamente con gli attori e lascia spazio a ciò che accade. Anche l’universo creativo di Brian Eno attinge ad una semplicità, ad un rispetto per ciò che lo circonda che esclude qualunque barriera tra chi fa arte, il luogo che l’accoglie e chi ne fruisce. Le sovrastrutture si sgretolano, emerge una strana forma di semplicità che conserva il mistero e tu sei accolto all’interno di questo mondo, sei tu stesso parte di questo mondo. L’opera di Klee è un inno alla libertà che spinge alla ricerca del proprio universo creativo. Un maestro che con pochi mezzi, con naturalezza, crea il suo mondo, ti spinge a cercare di fare altrettanto e a metterti in cammino e, in quest’ottica, non c’è alcun rischio di emulazione. L’universo di Agnes Martin poi è immenso, stiamo ancora cercando di afferrarlo, eppure è di una semplicità disarmante. Ecco, tutti questi nomi hanno in comune un’apparente semplicità che abbatte le barriere e ti fa viaggiare e l’elenco sarebbe ancora lungo. Altri due nomi: Miles Davis e Jimi Hendrix!


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