Il caso dell’Abbazia di Corazzo: un furto del passato e del futuro? Con intervista a Salvatore Settis


L'abbazia di Corazzo (a Carlopoli, in Calabria) sta per subire un intervento di restauro che ha suscitato molte polemiche perché da alcuni ritenuto troppo invasivo. In questo articolo un'opinione sul caso, contraria al restauro, con intervista a Salvatore Settis.

Le rovine sono come sentinelle al confine del tempo, il quale ci sfugge a causa della sua fluidità; da un lato stanno di fronte al tempo che le ha investite e modellate, riducendole a muro crollato, fantasmi di un edificio un tempo integro, dall’altro lato proprio questa resistenza caparbia al trascorrere inesorabile del tempo conferisce alle rovine il senso della durata rendendole un’ancora per la memoria” (M. Barbanera, A. Capodiferro, La forza delle rovine)

Il caso

Se Brodskji sapesse in che mani si trovano oggi Venezia e parte del patrimonio italiano, impallidirebbe. Soprattutto se conoscesse l’ultima vicenda di quella marginale, insignificante appendice che, ancora agli occhi di molti, è la Calabria , (forse per questo trova poco spazio sui quotidiani nazionali un caso come questo?) chissà se ancora scriverebbe di un luogo italiano parole come queste: La bellezza circostante è tale che subito si è presi da una voglia assolutamente incoerente, animalesca, di tenerle testa, di mettersi alla pari ”.

Chiunque e in particolare un calabrese, come faceva ai tempi di Iosif Brodskij un colto turista a Venezia, si vestirebbe di tutto punto, provandosi a rivaleggiare con la bellezza del paesaggio o di un luogo della sua terra? Non abbiamo certezze ma oggi forse l’Italia non avrebbe ispirato al poeta russo un capolavoro come Le fondamenta degli incurabili : un romanzo breve, sì, ma soprattutto una divagazione, una dichiarazione d’amore per una città che sorge su uno specchio d’acqua, Venezia.

Parlando del caso dell’abbazia calabrese di Corazzo a Carlopoli , il cui progetto di restauro e valorizzazione da poco presentato potrebbe comprometterne l’identità , forse però Brodskij userebbe, sulla falsariga di Ruskin, le parole di Vito Barresi: “cattedrale del sacro e del mistico, resa eterna dall’abbandono e dall’oblio” . Lo stesso giornalista, con un paio di articoli, alcuni rimossi dai social network, oltre a ‘decantare’ con quei preziosi versi il valore storico e architettonico dell’abbazia, rimbalza con piglio indignato dalla sedia della sua redazione per ciò che, nel silenzio di molti dei suoi corregionali, potrebbe succedere alle rovine di Corazzo e per come il suddetto progetto di restauro, in procinto di iniziare, potrebbe snaturarne non solo il valore storico, la memoria, ma anche la bellezza e il fascino di “rovina”. Oltre che provocare danni alla tenuta strutturale.

Una reazione forte e decisa, però ne siamo certe, non sarebbe mancata: la voce di Emilia Zinzi, che a Corazzo, guidata dall’archeologo Francesco A. Cuteri, ha dedicato lunghi studi, avrebbe fatto eco, dando coraggio ai più pusillanimi. Una donna, sì, di questi luoghi, una studiosa talmente tenace come lei, se potesse tornare dal mondo degli Inferi, non avrebbe esitato a guadagnare di corsa Carlopoli, (il comune calabrese dove si trova l’abbazia), per ribellarsi davanti ai cancelli del monumento, pur di non permettere che venga sfregiata tanta bellezza.

Forse in tanti, tantissimi, s’indignerebbero, se conoscessero la storia di questo scrigno di rovine, (ecco perché la raccontiamo), e i calabresi?

Il progetto “non definitivo” (così chiariscono, probabilmente dopo una sorta di “polemica” nata in rete e che finora si è limitata a questo e che ha messo in dubbio il valore di carattere conservativo) prevede la pratica della “cristallizzazione” (dove si teme l’utilizzo del cemento ) .

A nostro avviso, non basta qualche lamentela, e qualche sporadico e mai comunitario slancio, in difesa di un bene comune: se non si ferma questo proposito di “scempio competente”, se nessuno parla e fa sentire la propria voce, se non altro per esporre legittimamente qualche ragionevole dubbio, vuol dire che siamo tutti complici.

L'abbazia di Corazzo
L’abbazia di Corazzo. Ph. Credit


L'abbazia di Corazzo
L’abbazia di Corazzo. Ph. Credit


Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro
Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro


L'abbazia di Corazzo prima e dopo il restauro
L’abbazia di Corazzo prima e dopo il restauro

L’abbazia di Corazzo. Ecco la storia

L’ abbazia di Santa Maria di Corazzo , nel territorio di Carlopoli, piccolo comune della Presila catanzarese, è d’impianto cistercense , il che significa che è una struttura architettonica che s’innesta nel solco della storia e della cultura del monachesimo europeo.

Tracce della preesistente fondazione benedettina, risalente al 1060 (per alcuni studiosi anche prima di quell’anno) sembra siano introvabili e, con buona pace della ricerca archeologica, non sembra siano neppure necessarie: le abbazie cistercensi costruivano i propri edifici ex novo , come sostiene Carlo Tosco , senza tenere conto perciò del contesto precedente. Ciò che invece consideravano, era l’ambiente circostante: il silenzio per la meditazione, il bosco, il corso d’acqua. Valori tuttora inestimabili.

Attenersi a una precisa organizzazione della vita da parte dei monaci e degli abati, era fondamentale per i cistercensi. Poiché era una congregazione monastica nata nell’alveo di quella tradizione concepita dalla regola di San Benedetto, prevedeva un rigore quasi assoluto per la vita ascetica , un’inflessibilità pari al pragmatismo, perché i monaci erano dediti alla pianificazione della natura , con messa a coltura e vaste operazioni di bonifica. Una conduzione di vita retta, attiva e contemplativa quindi, che loro immaginavano possibile soltanto se l’abbazia si collocava in luoghi solitari, lontana (almeno all’inizio della nascita dell’ordine) dalla frequentazione degli uomini. Sappiamo bene però, che nel corso dei secoli XII – XIII, molte cose cambieranno e che le severe regole dell’ordine verranno piano piano addolcite (per esempio il divieto dell’uso del denaro e le pratiche commerciali verrà aggirato ricorrendo all’espletamento di queste mansioni da parte dei conversi). Tuttavia, al di là delle rigide norme, ciò che più preme sottolineare è che l’abbazia ha avuto una lunga vita ed è stata un punto di snodo fondamentale per la penetrazione del monachesimo latino in Calabria , una porta aperta dai normanni e da Roberto il Guiscardo, che in queste terre hanno impresso un segno decisivo anche dal punto di vista architettonico.

La vicenda dell’abbazia di Santa Maria di Corazzo è durata circa 700 anni, con un susseguirsi di date che vanno da quella della rifondazione cistercense (o sarebbe forse meglio dire “florense”? per il ruolo di abate svolto da parte di Gioacchino da Fiore), a quella del terremoto del 1638, con momenti drammatici che proseguono nel XVIII secolo, quando viene completamente distrutta dall’altro devastante sisma del 1783, e poi nel 1796, smantellata con la dispersione dei suoi beni. Le requisizioni e soppressioni napoleoniche faranno il resto, “consacrando” l’abbazia a vittima di spoliazioni e luogo di cava da cui recuperare materiale da costruzione. L’anno 1807 è quello della sua definitiva morte.

Ma forse un’altra vita scorre ancora sotto le sue rovine , e anche se i monaci hanno da tempo abbandonato quei luoghi, l’abbazia non ha mai smesso di palpitare “fra deserto, acqua e boschi” (E. Zinzi). È stata e ancora è, parte integrante della vita culturale del territorio. Tra le mura crollate del chiostro si sono svolti per esempio, numerosi concerti di musica di grande qualità nazionale e non solo. Concerti che però, con ogni probabilità, hanno ulteriormente compromesso la tenuta delle strutture , perché manca da tempo un piano di recupero delle antiche murature e un concreto progetto di restauro nonché la minima manutenzione ordinaria.

Corazzo, è vero, è sempre stata una città di Dio, “città ideale ed espressione di un’organizzazione altamente politica tra individui e contesto vitale”. Ma è soprattutto una rovina, da tutelare . Il frammento ardente di un paesaggio incantato. Perché allora interromperne il sogno? Perché mandare in frantumi la visione utopica di Gioacchino da Fiore, compromettendone la preziosità dei suoi silenzi e mistificando la sua memoria con un progetto, non meglio chiarito, che sembra mirare a riqualificarne gli spazi tradendo la sua vocazione originaria di “città ideale” ?

Perché ora si deve rompere l’equilibrio natura – umano, permettendo magari, che avanzi tra questi boschi e questi silenzi, un turismo ciarliero e di moda? Qual è la visione che illumina il progetto? Farne un’altra “location” per festosi matrimoni?

Adeguare gli spazi delle sette arcate per la costruzione di un museo, può essere plausibile? È vero la dispersione degli arredi settecenteschi, sparsi tra le chiese del comprensorio, sarebbe da ricomporre attraverso un’operazione di musealizzazione e la presenza di un “antiquarium” . Ma non sarebbe anche importante fornire con quei fondi strumenti più adeguati per pubblicare finalmente gli esiti degli scavi ad opera della British School degli anni Ottanta-Novanta? E magari, restituire alla luce le parti non ancora emerse finanziando altri scavi da far realizzare ad un team d’inequivocabile spessore e competenza? Magari che è al di fuori dai giochi di potere elettorale?

Il valore dell’abbazia, tuttavia, va ben al di là delle polemiche cosi come supera di gran lunga la rilevanza dell’impianto cistercense. Al di là di Gioacchino e come testimonianza del monachesimo europeo, si colloca nella storia e nel nostro immaginario anche per il suo carattere peculiare di “paesaggio di rovine”, in una parola, è una rovina dalla sensibilità “romantica”, incastonata, per altro, in una terra dove la presenza della natura ancora predomina.

Dovremmo infatti intendere il suo essere un rudere come lo immaginavano i grandi teorici dell’estetica delle rovine alla fine del Settecento, Ruskin, per esempio, che trovava ancorata alla percezione della bellezza dell’antico la sua autenticità anche a costo di assecondare il suo lento declino. Un monumento antico arrivava a toccare il suo massimo splendore solo dopo il trascorrere di qualche secolo.

Ma non solo per Ruskin. Importante sarebbe chiedersi anche oggi cos’è una rovina. Che significato possiede come “bene” di un “patrimonio” da tutelare, e a cosa serve? Dobbiamo quindi aggiornare il suo significato e rimappare lo stato dell’arte. Qualche anno fa, una mostra curata da Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro, Rovine. La forza delle rovine apriva un varco su questo tema. L’esposizione, tenutasi nelle preziose sale di Palazzo Altemps di Roma nel 2013, ha messo in chiaro l’ambivalenza e mutevolezza del concetto e della rovina stessa. Ponendo con moltissimi paralleli anche esempi di crolli, e macerie. Cose tuttavia, ben diverse dalle rovine storico - architettoniche. Ma le domande che sono scaturite e i presupposti con cui è nata l’idea della mostra (che voleva riconsiderare come l’idea di Rovina, in particolare di Roma sia stata di volta in volta o “suggestiva” o “inquietante”, “terribile” e infine “identitaria”) farebbero al nostro caso e devono essere prese in considerazione per l’abbazia di Corazzo.

Dove, per altro, lo ribadiamo, è mancato non solo un confronto pubblico (ci auguriamo presto possibile) tra amministrazione ed esperti, tra comunità e professionalità più diverse; ma, cosa più grave, per un bene come questo, che mirabilmente condensa il senso profondo di “bene culturale” e patrimonio sia quello di natura “materiale” che “immateriale”, è mancata la proposta di un concorso internazionale che esponesse con chiarezza le ragioni del progetto, cosi come le modalità, le tecniche e considerasse i materiali più opportuni da utilizzare. Ciò che duole constatare è che è venuta meno anche una visione più lungimirante, aperta e meno localistica nell’approcciarsi alla questione. Lo sguardo è quello della talpa. Nulla di più, nulla di diverso che faccia “prendere fiato” alla Calabria. Niente che faccia emergere questa regione fuori dalle logiche del compromesso e della miopia.

L'abbazia di Corazzo
L’abbazia di Corazzo. Ph. Credit


L'abbazia di Corazzo
L’abbazia di Corazzo


Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro
Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro


Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro
Abbazia di Corazzo, Rendering del restauro

L’intervista a Salvatore Settis

Abbiamo chiesto l’opinione sul caso a Salvatore Settis, una figura di storico dell’arte e archeologo di chiara fama, e di origini calabresi.

ADF. Professore, come possiamo definire oggi il valore di una “rovina” (antica)? E in particolare un rudere affascinante e storico come questo, che rappresenta per il territorio calabrese e non solo, una “risorsa” importante oltre che una preziosa testimonianza di un passato che merita di essere rivissuto, tutelato, conosciuto?

SS. Troppo spesso dimentichiamo che quel che chiamiamo ‘Rinascimento’, cioè “nuova nascita”, nacque dalle rovine dell’antica Roma. Le rovine, se intese, studiate, rispettate sono il cuore fecondo di pensieri, di progetti, di esperienze e di esperimenti. In questo senso morale e spirituale, molto prima che per calcoli di natura economica o turistica, le rovine sono una risorsa, o meglio possono esserlo. Dipende solo da noi.

Come immagina si possa davvero restaurare l’abbazia senza danneggiare le sue strutture e squalificarne la sua dignità di “rovina”? E come valorizzarla, considerando che questo splendido segno del passato è incastonato come un gioiello prezioso nel cuore di una regione d’Italia che in certi termini versa ancora in una situazione di difficoltà?

Sono stato solo una volta a Corazzo, d’inverno e con la neve, e ne sono rimasto incantato. Le rovine non sono solo importanti storicamente, ma anche dal punto di vista estetico e in relazione al paesaggio circostante. Devono essere consolidate, ma assolutamente non “completate”, come sarebbe follia “completare” il Colosseo o i monumenti del Foro romano, o (per restare in Calabria) sarebbe sciocco voler completare il tempio di Hera Lacinia presso Crotone, di cui non resta in piedi che una sola colonna. Il rispetto per le rovine e le norme di legge sulla tutela impongono la conservazione, e qualsiasi forma di “completamento” non sarebbe sul versante della tutela, ma della distruzione del valore storico e patrimoniale.

Di questo come di altri scavi, si suppone, che fossero condotti senza alcun rigore scientifico, più con l’intento di strappare un tesoro, che di recuperare una veneranda reliquia della propria memoria storica” (R. Spadea, L’archeologia e la percezione dell’antico).

L’intento dell’articolo è quello di invitare, oltre il professor Salvatore Settis, anche altri esperti (e non) a partecipare, criticare in modo costruttivo, suggerire e intervenire prendendo come pretesto le sollecitazioni e le provocazioni, ammettiamo anche pungenti, qui contenute. Il dibattito deve continuare, ne va della nostra bellezza e della nostra memoria.


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