I danni causati dalla ridicola dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica


Una riflessione sull'attuale e insulso dibattito che contrappone la cultura umanistica alla cultura scientifica, e sui danni che tale contrapposizione causa.

Il filosofo britannico Isaiah Berlin, in un suo saggio del 1974, The Divorce between the Sciences and the Humanities (“Il divorzio tra le Scienze e la Cultura umanistica”), individua nel pensiero dei filosofi antiscientisti del Settecento l’origine della presunta e deleteria contrapposizione tra “cultura scientifica” e “cultura umanistica”. Il riferimento, in particolare, è a Giambattista Vico (1688 - 1744), che vedeva nella storia l’unica forma di conoscenza possibile per l’uomo, in quanto prodotta dall’uomo stesso: per Vico, la natura, in quanto creazione divina, non può essere oggetto d’indagine accurata. Sarebbe dunque nel principio vichiano del verum factum est (“si può conoscere soltanto ciò che si è fatto”) che si consuma l’inizio della dicotomia: una dicotomia che iniziò a farsi sentire verso la fine dell’Ottocento, sulla scia della cultura positivista e del suo tentativo di orientare l’educazione in base alla convinzione secondo cui solo il metodo scientifico garantirebbe la conoscenza della realtà, e che, secondo molti, diventò manifesta, almeno in Italia, in una data ben precisa, il 1911.

Quell’anno si svolse a Bologna il Quarto Congresso Internazionale di Filosofia, e molti rimandano al contrasto tra il pensiero del matematico Federigo Enriques e quello del filosofo Benedetto Croce l’origine della divisione dei saperi: fu durante tale diatriba che Croce espresse il celebre assunto secondo cui “la realtà è storia e solo storicamente la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono”. Secondo la visione di molti storici, le idee di Croce avrebbero poi influenzato pesantemente la riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, che avrebbe accordato un peso eccessivo al “sapere umanistico” a scapito di quello scientifico. In realtà, tale visione è ormai superata (basti pensare che il liceo scientifico fu proprio istituito con la riforma Gentile), anche perché né Croce né Gentile negarono mai l’importanza delle scienze tecniche. Gli sviluppi della frattura tra “cultura scientifica” e “cultura umanistica” sono più complessi, e probabilmente, per come li conosciamo oggi, potrebbero affondare le loro radici nella sfiducia nei confronti del progresso tecnologico all’indomani della seconda guerra mondiale, che avrebbe dunque per molti accentuato il divario, oppure, limitatamente all’Italia, troverebbero spiegazione nella cronica incapacità di investire seriamente in ricerca, cultura e innovazione: un’incapacità che, unita a interessi particolari striscianti anche decenni orsono, negli anni Sessanta avrebbe stroncato sul nascere l’opportunità di fare del nostro paese un faro mondiale dell’innovazione, come descritto da Marco Pivato nel suo libro Il miracolo scippato. Sta di fatto che decenni (se non secoli) di scelte sbagliate e contrapposizioni filosofiche spesso sterili, ci hanno oggi consegnato questa visione manichea della cultura, difficile da sradicare.

Raffaello, Scuola di Atene
Raffaello, Scuola di Atene (1508-1511 circa; Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura)

Ma anche parecchio dannosa e deleteria. Perché, se pensiamo all’attualità, negli anni della crisi economica, si è mutata in una fattispecie più subdola, che ha trasformato, suffragata da una serie di studi e sondaggi spesso comunque inaffidabili e contraddittori, alcuni campi del sapere in “materie inutili” e altri in “materie utili” a ritagliarsi una posizione nel mercato del lavoro, con la conseguente logica in base alla quale le università da molti non sono più considerate come centri di formazione della coscienza critica e del pensiero di un individuo, bensì come luoghi in cui si coltivano semplici lavoratori: che questi lavoratori possano o meno essere dotati anche di un’autonoma capacità di discernimento, parrebbe esser diventato aspetto secondario della formazione. Rischia pertanto di porsi come pensiero comune un’idea fortemente snaturata dell’università, che dimostra pertanto un’incapacità di veduta sia del passato che del futuro, perché le evoluzioni della società sono sempre state possibili anche grazie al dibattito culturale, che ha sempre costituito una base importante del progresso tecnologico.

C’è anche da evidenziare che i danni della ridicola dicotomia che oppone i saperi che potremmo definire “delle parole” (lettere, arte, teatro, scienze sociali, comunicazione... ) a quelli “delle misure” (matematica, fisica, chimica, informatica, ingegneria... ) non sono limitati a quelli che potrebbero arrecare all’impostazione culturale dell’individuo. E, solo pensando in tali termini, di danni ne sarebbero già stati fatti abbastanza: impossibile, per una persona di cultura, da una parte pensare a un letterato o a un artista completamente all’oscuro dei secolari risultati e procedimenti del metodo scientifico (anche perché il metodo scientifico è applicabile anche alle cosiddette scienze umane), e dall’altra pensare, per esempio, a un fisico ignaro del dibattito culturale attorno a una materia tecnica (diventerebbe una specie di macchina, di automa: e il progresso tecnico non dev’essere indirizzato da automi, ma da uomini che sanno pensare e ragionare). I danni fanno presto a trasferirsi anche a quello stesso mercato del lavoro che costituisce ormai un imprescindibile punto di riferimento ogni qual volta il dibattito emerge su giornali o siti web. Rimanendo nel campo dell’arte, se pensiamo all’arretratezza di cui i musei italiani soffrono nel campo dell’apertura alle nuove tecnologie (che poi, ormai, tanto nuove non sono più), non è difficile riconoscere quanto abbia nociuto l’impermeabilità tra sapere “umanistico” e sapere “scientifico”. L’aneddoto dell’insegnante di lettere che non solo è totalmente ignorante in fatto di matematica, ma oltretutto si vanta della propria ignoranza, in certi casi corrisponde a triste realtà: ci sono direttori di musei, anche importanti, che ostentano il loro completo digiuno in materia di internet e social network, spesso andandone anche orgogliosi, motivando tale orgoglio sulla base della sfiducia nei confronti di tali mezzi. Di conseguenza, quando il direttore del museo dovrà scegliere verso quali attività destinare i risicati fondi del proprio istituto, la sua forma mentis indirizzerà le sue scelte, e ci sono ottime probabilità che a farne le spese sarà proprio l’innovazione tecnologica.

E se il museo di cui sopra dispone di fondi risicati, il problema è anche a monte, in particolare nelle scelte dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, che con continui tagli al settore dei beni culturali (e, potremmo dire, all’istruzione tutta) hanno affossato una situazione già di per sé piuttosto delicata, costringendo gli istituti a fare scelte molto spesso difficili, con poco denaro a disposizione. E se pensiamo a celebri assunti che hanno guidato l’azione di certi governi e certi ministri (come il tristemente famigerato “con la cultura non si mangia”) non è azzardato ipotizzare che l’insulsa dicotomia tra “cultura” e “scienza” abbia portato a una pesante penalizzazione sia della cultura umanistica che di quella scientifica. Intanto perché, come si diceva, le scienze umane sono state spesso, a torto, considerate un lusso buono solo per annoiati studenti di censo elevato, e dall’altro l’assoluta e disperante incapacità di valutare l’importanza delle scienze tecniche per il progresso della conoscenza (perché a molti sfugge il fatto che il fine ultimo della scienza non è il profitto economico, come molti pensano, bensì appunto il progresso della conoscenza) ha portato il paese ad accordare scarsi investimenti allo sviluppo (e anche alla divulgazione) delle materie tecniche, con il risultato che oggigiorno le nostre università formano ottime professionalità che poi emigreranno in altri paesi.

È chiaro che, in una società come la nostra, fondata sulla specializzazione, è necessario che la formazione di un individuo sia orientata verso un campo specifico del sapere. Ma è altrettanto ovvio che la cultura, quella vera, non è suddivisa in categorie a compartimenti stagni: tutti i campi del sapere sono permeabili e si influenzano a vicenda. Si potrebbero citare moltissime personalità che, nei secoli, hanno eccelso sia in campi della cultura “scientifica” che in ambiti più strettamente “umanistici”. Inutile anche solo fare dei nomi, ma è utile ribadire che nessuna persona di cultura ha mai pensato che la propria azione dovesse essere guidata dal mero profitto economico: farsi guidare dalle opportunità economiche che un campo di studio prospetta è nocivo sia per l’individuo stesso, che non potrà assecondare le proprie attitudini e sarà dunque una persona insoddisfatta in quanto non ha potuto fare ciò che amava, e anche per la società, perché chi ha affrontato un percorso di studi contro le proprie inclinazioni sarà molto probabilmente un professionista mediocre. Occorre, dunque, sgombrare il campo dall’antistorico equivoco che valuta un sapere secondo il guadagno economico che da esso si può trarre. E occorre poi aprire un più ampio dibattito su cosa dev’essere la cultura e in che modo la cultura, analizzata secondo una visione di larga scala, può e deve orientare i percorsi formativi e anche il mercato del lavoro. Di sicuro, è necessario fin da subito comprendere che l’opposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica è un qualcosa di vecchio e superato: la cultura è una sola.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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