Ma in Italia le mostre fanno davvero così schifo come dice Nicola Lagioia?


Esiste davvero una “voragine”, come dice Nicola Lagioia, tra le mostre organizzate all’estero e quelle organizzate in Italia? No, e sostenerlo significa non conoscere l’offerta espositiva italiana, fatta di tante mostre di qualità, diffuse, e che spesso fanno anche numeri importanti.

Esiste davvero un abisso che separa l’offerta espositiva dell’Italia rispetto a quella di paesi come la Francia o addirittura l’Olanda? Mentre a Parigi torme di visitatori, anche italiani, rimangono estasiati tra le sale della mostra su Rothko alla Fondation Louis Vuitton, e dopo che l’anno scorso in centinaia di migliaia hanno assediato il Rijksmuseum di Amsterdam per stupirsi davanti alle opere di Jan Vermeer, alle nostre latitudini possiamo giusto guardare quel che accade di là dalle Alpi ed esalare sospiri malinconici. Di questo almeno è convinto Nicola Lagioia, autore d’un recente articolo sul presunto rischio di marginalizzazione dell’Italia nel contesto culturale internazionale: una lunga intemerata rivolta al ministro Sangiuliano, ritenuto colpevole d’inazione, che mescola un po’ di tutto toccando tutto in superficie, dalle politiche italiane sulla promozione del libro alle recenti polemiche sull’egemonia culturale, dalla scarsa competitività delle nostre istituzioni passando, appunto, per il divario che le mostre organizzate in Italia sconterebbero nei riguardi di quelle che si visitano all’estero.

Mentre in Italia discutiamo della mostra di Tolkien alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dice Lagioia, “a Parigi, in questo momento, si sta tenendo una mostra su Mark Rothko che l’Italia può sognarsi” e “ad Amsterdam, l’anno scorso, se n’è tenuta una su Vermeer che da noi sarebbe inimmaginabile”: secondo l’ex direttore del Salone del Libro di Torino, “è voragini di questo tipo che bisognerebbe colmare”. Non si comprende bene cosa c’entri con la scarsa competitività istituzionale una mostra organizzata da un soggetto privato (quella su Rothko, che andrebbe semmai messa a confronto con le esposizioni, mettiamo, d’una Fondazione Prada): distorsioni tipiche degli articoli in cui si fa, di punto in bianco, un pot pourri d’argomenti che necessiterebbero di ragionamenti più approfonditi, e che poco c’entrano l’uno con l’altro, poiché i problemi dell’editoria non sono gli stessi di quelli che tormentano il settore dei musei, poiché il mercato del libro è profondamente diverso rispetto a quello delle mostre, e via dicendo.

Si può intanto fornire una risposta sintetica alle propalazioni di Lagioia: sull’offerta espositiva, l’Italia non ha alcuna voragine da colmare rispetto agli altri paesi. Nel nostro paese vengono organizzate ogni anno mostre d’elevato profilo, che spesso sono anche di grande richiamo: basterà citare, giusto per ricordare una mostra d’altissimo livello, paragonabile a quella su Vermeer del Rijskmuseum (senza contare, dunque, quanto arrivi a esser capzioso un confronto impostato sull’eccezione, ovvero la mostra epocale su Vermeer, e non sulla regola), la grande monografica su Donatello che s’è tenuta l’anno scorso a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello, della quale s’è parlato in tutto il mondo. Giusto per limitarci alle mostre del 2023 si potrebbero poi citare quelle sul Perugino, su Cecco del Caravaggio, su Giacomo Ceruti (quest’ultima poi pure esportata negli Stati Uniti). E se volessimo parlare di mostre visitabili in questo momento, si suggerisce una puntata a Milano per vedere la mostra su Giovanni Battista Moroni, la più completa di sempre sul grande artista lombardo: le precedenti sull’artista, organizzate a New York e a Londra, non avevano lo stesso livello d’approfondimento di quella delle Gallerie d’Italia. Si tratta ovviamente d’eventi, questi ultimi, che non hanno la portata della sospiratissima mostra su Vermeer (che però, va ripetuto, è un caso raro), ma sono sufficienti per contestare una scarsa consuetudine col panorama museale italiano a chi sostiene che l’Italia abbia dei presunti baratri da saturare. Si tratta di rassegne che, peraltro, dimostrano anche quanto sia diffusa la nostra offerta, dato che, tornando ai tre esempi di cui sopra, parliamo d’esposizioni che si son tenute a Perugia, Bergamo e Brescia: all’estero, tolte le capitali e le grandi città, quanti sono i centri da più di centomila abitanti in grado d’offrire mostre paragonabili? Un’offerta del genere è pensabile, mettiamo, a Montpellier, a Leeds o a Valladolid? Il nostro sistema museale, del resto, è diffuso e capillarizzato, al contrario di quel che avviene in altri paesi, e di conseguenza anche le spese e le energie sono decisamente più frazionate per dare a un più alto numero possibile di musei l’opportunità di organizzare mostre interessanti per il proprio pubblico. Sono fattori che andrebbero sempre presi in considerazione prima di avventurarsi in considerazioni sull’offerta espositiva italiana. O prima di somministrare ai propri lettori il solito, banale, frusto luogo comune del Louvre che “da solo fattura più di tutti i musei italiani messi insieme”: se Lagioia conoscesse un poco di più il settore dei musei eviterebbe d’invitare a ragionare su questo elemento, dato che il Louvre fattura sì di più, ma lo fa soprattutto perché i suoi spazi gli consentono d’ospitare un numero di visitatori ch’è precluso, per mere ragioni fisiche, a qualunque museo italiano. Il confronto semmai va fatto sulla base del rapporto tra introiti e visitatori: si scoprirà che, nel 2019, il Louvre ha generato 99,41 milioni di euro in introiti da bigliettazione a fronte di 10 milioni di visitatori (circa 10 euro per visitatore), mentre il museo italiano più visitato, gli Uffizi, ha prodotto ricavi da bigliettazione per circa 30 milioni di euro accogliendo 4,3 milioni di visitatori (poco meno di 7 euro per visitatore).

Andrà poi rilevato che quasi ogni mese, sul Burlington Magazine, principale rivista scientifica mondiale di storia dell’arte, viene pubblicata almeno una recensione d’una mostra che si tiene in Italia, e il più delle volte le recensioni sono positive. Non mancano neppure le mostre in grado di fare grandi numeri (anche se spesso a discapito della qualità, ma questo ovviamente non accade soltanto in Italia): la mostra su Vermeer ad Amsterdam ha fatto 650mila visitatori, ma lo stesso anno la mostra su Van Gogh a Palazzo Bonaparte, benché organizzata da un soggetto privato, ha superato i 580mila. E ancora, prendendo i dati più recenti, quelli del 2022, nella classifica delle 50 mostre più visitate al mondo (dati Giornale dell’Arte), l’Italia è il paese che ha piazzato più esposizioni, con sette mostre, davanti alla Francia (6), e a Stati Uniti, Spagna, Giappone e Gran Bretagna (4 ciascuno). Siamo dietro, quanto a numeri di pubblico, solo nel totale dei visitatori (2.440.933 le sei mostre francesi, 1.655.025 quelle italiane) ma volendo mettere a confronto soltanto le mostre organizzate presso sedi espositive pubbliche (dato che Lagioia parla di istituzioni), l’Italia torna avanti con 1.417.562 visitatori contro gli 1.190.933 della Francia.

Mostra su Cecco del Caravaggio a Bergamo. Foto: Gianfranco Rota
Mostra su Cecco del Caravaggio a Bergamo. Foto: Gianfranco Rota
Mostra su Giacomo Ceruti a Brescia. Foto: Alberto Mancini
Mostra su Giacomo Ceruti a Brescia. Foto: Alberto Mancini
Mostra su Giovanni Battista Moroni a Milano
Mostra su Giovanni Battista Moroni a Milano
Mostra sul Perugino a Perugia
Mostra sul Perugino a Perugia
Mostra su Van Gogh a Roma
Mostra su Van Gogh a Roma

Non si può dire che l’Italia non abbia cercato di rendersi attraente, negli ultimi anni, sotto questo profilo. Tutti ricordiamo che l’azione del settennato Franceschini (tra il 2014 e il 2022 è stato ministro della cultura quasi ininterrottamente, e l’impostazione sostanziale della sua riforma non è stata toccata negli ultimi due) s’è concentrata soprattutto sul settore dei musei, per una ragione che ritengo abbastanza ovvia: benché i musei siano luoghi fondamentali per la formazione e la crescita dei cittadini, per ragioni di mentalità comune e motivi economici la politica tende a legarli soprattutto al turismo, e in Italia nel 2022 la spesa sostenuta dai “turisti con consumi culturali”, come vengono chiamati dalle statistiche, ha sfiorato i 35 miliardi di euro (dati Isnart – Istituto Nazionale Ricerche Turistiche per l’Osservatorio sull’Economia del Turismo delle Camera di Commercio). Parliamo dunque d’un mercato che vale dieci volte quello del libro, e anche se volessimo ridurlo al solo gruppo dei turisti che vengono in Italia appositamente per vedere le sue ricchezze artistiche parleremmo comunque di un volume di 18 miliardi di euro, sei volte il mercato dell’editoria. Naturale, dunque, che il ministero abbia dedicato i suoi impegni più consistenti a un settore che è legato a un indotto importante e che rappresenta l’immagine dell’Italia nel mondo. Ogni dato dovrebbe esser poi esaminato nel contesto d’un paese che ha un problema atavico: siamo perennemente agli ultimi posti delle classifiche della spesa pubblica in cultura rapportata al prodotto interno lordo. Anche per il 2021, anno dei più recenti rilevamenti disponibili, i dati Eurostat ci parlano d’un’Italia che spende poco in Cultural services, lo 0,3% del Pil, in compagnia di Portogallo e Romania, e appena sopra Irlanda, Grecia e Cipro (0,2%), contro, per esempio, lo 0,5% della Germania e della Spagna o lo 0,6% della Francia, e contro una media UE dello 0,5%. Se dunque l’Italia corre il pericolo d’essere culturalmente marginalizzata, si tratta d’una situazione che non scopriamo certo oggi, non dipende da questo o da quell’altro ministro, e ha cause molto più profonde e radicate nella nostra mentalità e nei nostri modi di quanto non appaia dall’articolo di Lagioia.

Si rischia però di divagare: rimanendo sul tema, è chiaro che, per quanto ampia e interessante, e malgrado i luoghi comuni, l’offerta espositiva e museale dell’Italia abbia problemi evidenti. Partendo da quelli più ordinari, i musei italiani sono spesso ostili a chi di giorno lavora, e i loro orari d’apertura sono tarati soprattutto sull’esigenze del pubblico scolastico e di quello turistico, e nessuno ha intenzione di cambiarli, per ragioni squisitamente sindacali. Lagioia sogna una mostra come quella di Vermeer: io m’accontento di sognare musei che offrano degli orari simili a quelli dei cinema, di sognare un museo che mi dia la possibilità di entrare verso le dieci o le undici di sera, come già accade in tante città europee, come a Londra o a Parigi dove la National Gallery e il Louvre offrono tre ore extra il venerdì sera, e come qualcuno ha già cominciato a fare anche da noi (virtuoso il caso di Palazzo Reale a Milano che chiude alle 22:30 il giovedì sera). A tal proposito, gioverà rammentare che la mostra su Vermeer chiudeva alle ventitré nei fine settimana (praticamente notte fonda per le abitudini degli olandesi), e per gli ultimi giorni aveva esteso l’orario fino alle due del mattino: in Italia sarebbe fantascienza. Mancano poi quasi ovunque incentivi per i residenti, mancano politiche che incoraggino i cittadini a visitare con una certa frequenza i loro musei, argomento di cui su queste pagine abbiamo parlato sino alla noia.

Poi, le sedi espositive comunicano poco, o comunque non lo fanno in maniera adeguata. Valga un esempio su tutti: nella Brescia capitale italiana della cultura la splendida mostra monografica su Giacomo Ceruti, evento di caratura internazionale, organizzata al Santa Giulia, ha totalizzato appena 18mila visitatori. La non esaltante mostra Lotto, Romanino, Moretto, Ceruti, una specie di replica in piccolo (e con opere di minor qualità) del percorso della principale pinacoteca cittadina, organizzata a Palazzo Martinengo (quindi a un centinaio di metri dal Santa Giulia), ha chiuso con 45.117 visitatori. In pratica, vuol dire che i visitatori a Brescia c’erano, solo che si sono persi la mostra più bella e più importante.

C’è poi, nei musei statali, il cronico problema della mancanza di personale, uno dei principali irrisolti del periodo Franceschini. Al pari della poca incisività della sua azione nel settore dell’arte contemporanea: se proprio vogliamo trovare una qualche differenza tra l’offerta espositiva italiana e quella estera, è sul contemporaneo che occorre concentrarsi, e anche qui scontiamo il fatto d’avere un mercato del contemporaneo meno sviluppato rispetto a quello di altri paesi, su cui iniziative come l’Italian Art Council per adesso non sembrano ancora aver inciso in maniera marcata, per una serie di ragioni che non è il caso di toccare in questa sede dato che s’andrebbe fuori tema. Queste sono ulteriori mancanze del ministero targato Franceschini, più significative e impattanti rispetto a un VeryBello, a una Biblioteca dell’Inedito o a un ItsArt.

Qualità dell’accoglienza che le sedi espositive riservano al pubblico, comunicazione, rapporti coi privati, promozione dell’arte contemporanea italiana, e poi ancora digitalizzazione, lavoro, investimenti. Sono questi alcuni dei temi che, limitatamente al mondo delle mostre e dei musei, e in via del tutto incompleta, andrebbero portati all’attenzione del ministro Sangiuliano e che dovrebbero essere al centro del dibattito culturale in un paese serio. Logico che, finché gli argomenti di discussione saranno la quantità di libri che legge il ministro o l’eventualità che Dante possa essere incasellato a destra anziché a sinistra, non ci si potrà muovere d’un millimetro. Siamo proprio sicuri che il livello del dibattito culturale in Italia sia di qualità sufficiente per richiamare il ministro ai risultati anziché ai proclami?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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