Riforma Franceschini: cosa è andato bene, cosa no


Dieci anni dopo la riforma Franceschini è tempo di bilanci: il parere di Carla Di Francesco, segretario generale del Ministero dei Beni Culturali tra il 2017 e il 2018, durante un biennio cruciale per la riforma.

Sembra che le riforme strutturali del Ministero già dei beni e delle attività culturali, ora della cultura (MiC) siano destinate susseguirsi con una cadenza decennale. Il 2024 ci porterà infatti un nuovo assetto organizzativo, che sostituirà quello della riforma Franceschini del 2014, la quale a sua volta aveva sostituito l’organizzazione definita con il DPR 173/2004. Mi soffermerò per qualche riflessione solo su alcune parti della complessa riforma Franceschini partendo proprio da quella del 2004, tutta rivolta verso il modello decentrato dello Stato maturato nel decennio precedente (le “leggi Bassanini” e la riforma costituzionale del 2001). Il DPR 173/2004 incideva soprattutto sulle articolazioni periferiche del Ministero (Soprintendenze, Archivi di stato, Biblioteche) che, abituate da quasi un secolo ad operare autonomamente sul territorio di competenza, si trovarono ad afferire al nuovo ufficio della Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici, guidato da un dirigente di prima fascia, di fatto direzione generale trasversale decentrata sul territorio. Con le competenze specifiche delle Direzioni (cura dei rapporti con le Regioni, programmazione e stazione appaltante, vincoli, tutela, accordi, personale ecc.), l’organizzazione del 2004 rafforzava notevolmente la periferia del Ministero impegnando gli uffici presenti sul territorio regionale a lavorare insieme, in quanto momenti diversi degli stessi processi di azione, in particolare di tutela. Pur con qualche ritocco successivo (in primis il DPR 233/2007), fino al 2014 le Direzioni regionali sono state in quegli anni salde interpreti dell’unità interna e voce unica del Ministero nei confronti degli interlocutori del territorio, in particolare delle Regioni.

Il sistema, una volta collaudato, funzionava. La “riforma Franceschini”, resa necessaria dagli obblighi di contenimento della spesa pubblica, anziché razionalizzare, sceglie di depotenziare l’impianto periferico precedente, per indirizzare il Ministero verso una nuova sfida: con il DPCM 171/2014 i Musei emergono dal loro secolare status di appendici delle Soprintendenze per diventare veramente “istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo”. Siamo di fronte ad un salto culturale di portata davvero epocale, che dal punto di vista organizzativo (DPR 23/2014) porta alla istituzione di Musei dotati di autonomia speciale, per i quali affida la direzione attraverso una selezione internazionale, e Poli museali regionali, ai quali fanno capo i musei non autonomi. In questi anni i musei statali (quelli dotati di autonomia speciale, ma anche quelli afferenti ai poli museali) hanno effettivamente perseguito una politica di rinnovamento fatta di ricerca, di studio, di avvicinamento ai diversi pubblici, di valorizzazione delle collezioni, suscitando la crescita di un diffuso interesse nei confronti del patrimonio; e, naturalmente, anche aumentando notevolmente il numero dei visitatori.

Il Ministero della Cultura. Foto: Finestre sull'Arte
Il Ministero della Cultura. Foto: Finestre sull’Arte

Nonostante le voci critiche nei confronti della separazione tra Soprintendenza e Museo (tra tutela e valorizzazione) a mio parere la parte della riforma dedicata ai Musei si rivela positiva, in particolare per quelli dotati di autonomia speciale, tanto che a più riprese nel corso degli anni il loro numero è aumentato a 44, con previsione, nel prossimo futuro, di un ulteriore aumento a 60.

Ma torniamo alla parte del Ministero che si occupa di tutela, e, in particolare, agli uffici periferici del MiC. Tutti gli uffici sul territorio sono tornati a dipendere direttamente dalle rispettive Direzioni generali centrali, come prima del 2004. Le Direzioni regionali BCP sono infatti soppresse, e sostituite dai Segretariati regionali, e dalla Commissione regionale per il patrimonio culturale, presieduta dal Segretario regionale, organo collegiale alla quale sono sottoposte gran parte delle questioni già afferenti alle Direzioni, in particolare quelle di tutela. Siamo ritornati a quella generica formula di “coordinamento” degli Istituti presenti in Regione (poco autorevole all’interno, poco incisiva all’esterno) già sperimentata con esiti tutt’altro che positivi tra il 2001 e il 2004 con le Soprintendenze regionali (DPR 441/2000): nulla di più lontano dalla semplificazione delle procedure, dall’accelerazione dei tempi dei provvedimenti, da un vero decentramento.

Mi spiego con un esempio: se in precedenza una dichiarazione o verifica d’interesse culturale a seguito della proposta del Soprintendente, compiute le dovute verifiche, era direttamente trasformata in decreto di tutela dal Direttore regionale, oggi deve essere sottoposta all’approvazione della Commissione regionale (composta dai Soprintendenti ABAP, dal Soprintendente archivistico, dal direttore del Polo museale) prima della emanazione del decreto da parte del Segretario regionale. I tempi si allungano, senza conseguire alcun beneficio su altri fronti.

E poi: grandi, importantissime biblioteche nazionali (una per tutte, la Braidense) accorpate ai Musei autonomi, Archivi di stato più che rilevanti (Modena, ad esempio) privati della direzione di un dirigente, Soprintendenze archivistiche ed Archivi di stato uniti in un solo Istituto. E ancora: dapprima la fusione delle Soprintendenze per i beni storico artistici etnoantropologici con quelle per i beni architettonici e paesaggio; poi, con il DM 23/1/2016 la creazione delle Soprintendenze uniche (ABAP) nelle quali confluiscono anche le Soprintendenze archeologiche. Modifica coraggiosa, di per sé apprezzabile, nell’ottica di sviluppare processi di tutela integrata.

Ma non basta un decreto per realizzare davvero la fusione di Uffici con una loro identità storica ormai secolare, con loro archivi (storici e correnti) e depositi di materiali (pensiamo solo alle archeologiche, ed ai numerosissimi depositi di materiali da scavi recenti); trasferimenti di personale, di sedi, di archivi, depositi, sono stati parte di un percorso di assestamento lungo mesi e talvolta anni; così ancora oggi si trovano archivi di Soprintendenze soppresse, confluiti nelle nuove sedi, non consultabili; oppure archivi traslocati solo in parte, con serie conseguenze sull’operatività quotidiana delle Soprintendenze. Purtroppo la metabolizzazione del nuovo assetto non è stata supportata come avrebbe dovuto con nuovo personale, fondi, e formazione né per le soprintendenze né per nessuna delle strutture centrali e periferiche del Ministero. Unica eccezione per i musei autonomi, che per contro sono stati fortemente sostenuti in diversi modi, in particolare con ampie dotazioni di fondi.

Una considerazione finale: ogni riforma dal 2001 in poi si scontra con una struttura gracile, dalle carenze di organico clamorose, tanto più se relazionate a compiti sempre crescenti: la riforma Franceschini vede la dotazione più bassa di sempre: 191 dirigenti, e 19.050 unità di personale, a confronto dei 282 dirigenti e 24.900 unità di personale del 2004. Mi viene spontaneo un appello, che purtroppo sappiamo essere già disatteso: basta riforme!

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 21 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.


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