Se la cucina capisce la contemporaneità meglio dell'arte


La cucina ormai da tempo s’impegna per diventare esperienza estetica e sociale, mentre l’arte contemporanea sembra arrancare, ingabbiata da logiche di mercato e curatori. Gli chef, al contrario, tornano al centro della scena come veri protagonisti della creatività e della consapevolezza. Mica come gli artisti!

Dal 29 al 31 agosto sull’Appennino romagnolo si è tenuto il Festival dei Tempi di Recupero. L’unico evento in Italia incentrato su cucina circolare, uso integrale delle materie prime e consapevolezza. Un’attitudine concettuale e artistica ancora prima che nel dare forma e gusto al cibo. Secondo le Nazioni Unite, circa un terzo della produzione alimentare mondiale viene perso tra le fasi di distribuzione e consumo.

Nell’ambito del festival ho partecipato ad una cena a cinque mani che è stata ospitata nel ristorante DaGorini, una stella Michelin, a San Piero in Bagno. Tre chef impegnati: Gianluca Gorini (DaGorini), Valerio Serino (Terra, Copenhagen), Fabio Ingalliera (Il Nazionale, Vernante, Cuneo), la gelatiera Cinzia Otri (Gelateria della Passera, Firenze) e il bartender Michele Di Carlo. Il tema della cena è stata la “Foresta” e in ogni piatto, dagli antipasti fino a vini (Foradori, Tenuta San Marcello e Menta e Rosmarino), la sfida di usare le materie prime senza sprechi e nel modo più sincero e consapevole possibile. Alta cucina che non è più guanti bianchi, prestigio ed esclusività, ma attenzione, intelligenza nell’unire le materie prime e accesso. Curioso che questo sia lo stesso cambiamento che sta avvenendo anche nell’arte contemporanea: vecchi modelli di esclusività e speculazione stanno lentamente lasciando il posto a modelli più sostenibili, consapevoli e “umani”.

Sia nell’arte che nella cucina si percepisce la necessità di “tornare alla terra”, interrompere almeno per qualche ora l’ubriacatura digitale e il tam tam di instabilità e guerre che arrivano dal mondo. Mentre gli artisti contemporanei sembrano rimanere incagliati nelle fascinazioni citazioniste del passato, la convivialità del pasto sembra una dimensione più propensa ad affrontare la stretta contemporaneità.

Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero
Piatti della cena a cinque mani al Festival dei Tempi di Recupero

La cena inizia con un’insalata di stagione e gazpacho verde, dove nel piatto convergono erbe, frutti e spezie in un’esplosione fresca e diversa ad ogni istante. Poi, sotto un spuma di mandorla e nepetella, troviamo i funghi del bosco e l’albicocca utilizzata integralmente, anche con il suo nocciolo. Il piatto viene cercato come sotto terra, non si cerca l’effetto “wow” ma i sapori e le coccole del bosco. Si prosegue con risotto alla rosa canina, noce moscata e capriolo appoggiato sul riso. Dalle atmosfere nordiche poi arrivano i passatelli di castagne in brodo di anguilla e agrumi. Poi un gelato frozen di polline, lavanda e pino mugo. Per finire pecora, insalata alla brace e cagliata acida. E infine i dessert, un latte buonissimo con sentori di lavanda e fiori, e poi il sorbetto all’Amaroc.

Come nel visitare un museo o una mostra d’arte, la cena di “fine dining” diventa un’esperienza artistica ma, in questa veste “consapevole”, si riscalda e diventa accessibile come una passeggiata nella natura. Come nell’arte contemporanea per apprezzare la passeggiata dobbiamo allenare ed educare il gusto, allenare “nuovi occhi”, intesi come rinnovata sensibilità verso il mondo che ci circonda.

L’occasione del Festival fornice questo spazio di “semina” e consapevolezza per rivedere e rivalutare le nostre abitudini, tanto alimentari quanto legate ai nostri bisogni consumistici. Il cibo diventa una metafora per tutto il resto e riesce a incidere in quella dimensione dove l’arte fa più fatica e rischia di rimanere solo sterile accessorio per l’arredamento da interni. Quello che è evidente è come lo chef, in esperienze come queste, mantenga una sua centralità in cui pensa, prepara e indirizza, mentre l’artista contemporaneo ha perso ogni centralità in favore di “giurie di qualità” che non sono prettamente “artistiche”, come il curatore d’arte, il gallerista, il collezionista e il direttore di museo. L’artista, dopo le ri-definizioni di ruolo del Novecento, può essere anche uno chef e deve necessariamente recuperare la sua centralità, ossia quei “mezzi di produzione” che non sono pennelli e fornelli, ma luoghi e pubbliche relazioni per arrivare al pubblico. Ecco che in questo modo è possibile organizzare luoghi e spazi di convivialità dove sperimentare e affinare nuovi occhi, nuove consapevolezze e un nuova sensibilità verso ogni cosa.


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