Partiamo subito dal punto: i musei pubblici italiani sono perfettamente in grado d’organizzare mostre memorabili. Perché tocca ribadirlo a fine anno? Perché, passato un po’ troppo tempo dall’ultima volta che qualcuno ha partorito un editoriale su quanto siano scadenti le mostre che si vedono ogni anno in Italia (ci stavamo preoccupando), e mentre ci domandavamo che fine avessero fatto tutti quegli intrepidi elzeviristi ai quali basta veder cinque o sei mostre l’anno onde pervenire a impeccabili diagnosi sull’inesorabile putrescenza di tutto il patrio comparto espositivo, tutta la nostra apprensione s’è disciolta appena letto l’intervento di Alberto Salvadori, che qualche settimana fa, sul Giornale dell’Arte, ci ha usato la cortesia di ravvivare l’ormai asfittico circo dell’arte rammentandoci quel che da mesi, purtroppo, non sentivamo dire: che in Italia scarseggiano le mostre degne di nota. Questa volta però con una sfumatura un poco diversa: se Nicola Lagioia dichiarava d’essersi arruolato tra le schiere dei connazionali che sognano la Francia (“a Parigi […] si sta tenendo una mostra su Mark Rothko che l’Italia può sognarsi […]. È voragini di questo tipo che bisognerebbe colmare”), e Vincenzo Trione lasciava intendere che nel pantheon dei suoi riferimenti culturali c’è un posto anche per il pennello Cinghiale (“C’è bisogno di uno scatto per fare grandi mostre e non mostre grandi”), Alberto Salvadori indirizza i suoi rabbuffi verso un soggetto ben preciso e identificabile, ovvero i musei pubblici, segnatamente i musei nazionali.
Salvadori, come tutti quelli che lavorano e non hanno tempo da perdere per baloccarsi con le mostre di seconda o terza risma, è andato a vedere la mostra del Beato Angelico a Firenze, e come tutti ne è uscito ammirato, stupefatto, estasiato. Una mostra “che possiamo definire epocale”, dice, e ha ragione. Così come ha ragione quando asserisce che questo progetto dimostra “la bravura di chi gestisce la Fondazione Strozzi, alternando mostre così importanti e forse irripetibili ad altre meno intense, ma in grado di catturare il grande pubblico”. Dove forse ha un po’ meno ragione, è quando adopera Palazzo Strozzi come paradigma per deplorare il “parallelo progressivo svuotamento di contenuti dei musei nazionali per un loro preciso impegno verso la gestione ordinaria, volta soprattutto allo sbigliettamento forsennato, facendo venir meno quella capacità propositiva per lo studio e la ricerca, ascrivibile ai tempi dei grandi sovrintendenti, che ha prodotto nel tempo mostre memorabili”. L’ineludibile laudatio temporis acti, puntuale come gli F24 prima delle festività, arriva subito dopo: Salvadori vagheggia i tempi meravigliosi di Sfortuna dell’Accademia del 1972, Curiosità di una reggia del 1979, Magnificenza alla corte dei Medici del 1997-1998, peraltro mostre che si son tenute tutte nello stesso museo (e non sappiamo se Salvadori cita solo Palazzo Pitti perché ritiene che la Galleria Palatina degli anni Settanta sia il massimo modello museologico cui guardare anche nel terzo millennio, oppure perché all’epoca lo avevano imprigionato nella grotta del Buontalenti e gli concedevano giusto un’ora d’aria a ogni inaugurazione: rimarremo col dubbio), per passare poi al cahier de doléances: “Il patrimonio culturale italiano è conservato e gestito in grandissima parte dal pubblico, quindi in carico economicamente a ognuno di noi, almeno a quel 50% che paga le tasse. Avremmo diritto quindi di ottenere un impegno che non sia quasi esclusivamente conservativo o a indirizzo turistico-consumistico di questa ricchezza”. Non si capisce bene com’è che i funzionari ministeriali possano al contempo lavorare esclusivamente per la conservazione ed esclusivamente per il consumo turistico, dato che le due finalità sono antitetiche, ma non importa: il punto è che chi gestisce i musei statali “sta producendo molti danni, difficilmente riparabili” e “questa situazione denota un decadimento generale nell’assolvimento delle funzioni e delle persone a loro preposte”. Gran finale con l’immancabile mitizzazione del privato: “in assenza di diktat politici, i soggetti privati creano e incaricano i migliori professionisti per realizzare e gestire i progetti, vedi appunto la mostra di Beato Angelico”.
Ora, ci rincrescerebbe turbare Salvadori rivelandogli che metà del cda della Fondazione Strozzi è di nomina pubblica e che, leggendo l’ultimo bilancio del soggetto che ha organizzato la mostra sul Beato Angelico, si può scoprire che, tolti i proventi delle mostre, più di un terzo dei contributi che la Fondazione riceve arrivano dai suoi sostenitori istituzionali, ma non è questo il punto: il punto è che anche i musei pubblici, e financo i musei statali, in questo nostro paese sono in grado di pensare e allestire mostre “memorabili”, come Salvadori le definisce, e questo persino nel difficile contesto di un ministero perennemente affamato di risorse umane, che ha attraversato fasi anche lunghe di tagli drastici e ridimensionamenti, che sta uscendo da una fase di radicale ripensamento di pressoché tutto il paesaggio museale nazionale (l’epoca dell’autonomia inaugurata da Franceschini ha dato priorità, ed è vero, al completo riassetto di quasi tutti gl’istituti, e in tanti casi ce n’era gran bisogno dacché alcuni eran fermi ai percorsi di visita degli anni Settanta-Ottanta, e di conseguenza le risorse sono andate sui riallestimenti, ma anche in questo periodo ci sono state mostre d’altissimo livello), che ha spesso enfatizzato i numeri rispetto alla ricerca, che senza una visione strategica ad ampio spettro corre il serio rischio d’impaludarsi nella difficoltà di programmazione a lungo termine, e che qualora dovesse prima o poi intestardirsi a inchiodare gli obiettivi sulla mera redditività dell’azione dei singoli direttori, alla lunga farà collassare la ricerca e trasformerà i musei in centri commerciali (e comunque, nel caso, il pericolo ci appare a oggi piuttosto remoto).
Non si nega, certo, che il ministero abbia qualche piccolo problema. Ma si parlava di mostre, e per ricordare mostre importanti non serve tornare al primo governo Andreotti, all’epoca in cui i bronzi di Riace dormivano sereni nelle acque dello Ionio, Picasso era ancora vivo e l’unico altoatesino di qualche successo nello sport mondiale si chiamava Gustav Thöni e non giocava a tennis. No: basterebbe qualche gita in più per rendersi conto che i nostri musei statali non hanno abbandonato quella tradizione di mostre di ricerca d’altissima qualità, ineccepibili, fondamentali, in grado d’attirare prestiti internazionali rilevanti, pubblico, risorse, veramente capaci di far avanzare le conoscenze. Anzi: questa tradizione ci appare vivissima. Solo guardando all’anno corrente, si potrebbe portar l’esempio della mostra su Pietro Bellotti alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, una delle migliori mostre dell’anno, la prima di sempre su questo importante pittore del Seicento, una rassegna che ha fatto luce su tanti punti oscuri, peraltro organizzata da tre curatori giovani, che ha fatto arrivare in laguna opere da tutto il mondo per costruire un discorso solido e per stabilire un nuovo punto fermo nelle ricerche sui cosiddetti “pittori della realtà”: una mostra, insomma, con cui d’ora in avanti dovrà necessariamente misurarsi chiunque voglia studiare la pittura del quotidiano di quel periodo storico. E scendendo lungo l’Adriatico, ancora quest’anno ci si poteva fermare a Urbino, dove la Galleria Nazionale delle Marche ha raccolto quasi tutto quel che c’era da raccogliere su Simone Cantarini per dar vita a una mostra sorprendente soprattutto in termini di densità di capolavori. E come non citare poi, sempre alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, anche per dare un esempio di continuità progettuale, la mostra dello scorso anno su Federico Barocci, che è stata anche votata come miglior mostra italiana dell’anno dalla giuria di Finestre sull’Arte che ha radunato più di un centinaio di esperti, tra direttori di musei, curatori, giornalisti, critici, addetti ai lavori (e tutti obbligati a rivelarsi in pubblico per poterne far parte)? O come non menzionare, sempre lo scorso anno, la mostra sui rapporti tra pittura e poesia nel Seicento, che alla Galleria Borghese ha praticamente tradotto per immagini la Galeria di Giovan Battista Marino? O la mostra su Guido Reni alla Pinacoteca Nazionale di Bologna che ha accostato per la prima volta in Italia dopo quasi quarant’anni le due versioni dell’Atalanta e Ippomene, ottenendo dal Prado il difficile prestito di uno dei massimi capolavori del Seicento, e soprattutto producendo una sequenza di importanti scoperte scientifiche?
Certo: parliamo di Bellotti, Cantarini e Barocci, dirà il corsivista di costume che vede tre mostre l’anno, due delle quali oltre le Alpi, e che starà leggendo questo pezzo appoggiato a un lampione di fronte all’Arc de Triomphe prima d’imbarcarsi sulla navetta per la Fondation Vuitton durante le meritate ferie natalizie. Al di là del fatto che non esiste alcun problema di compatibilità tra la memorabilità di una mostra e il nome di un artista che non gode della stessa fama d’un Leonardo, d’un Raffaello o d’un Van Gogh, e al di là del fatto che possiamo convenire sul fatto che la memorabilità sia da intendere più come capacità di segnare per qualità che come forza di stupire con effetti speciali, si potrebbe citare, per dimostrare che non mancano neppure le mirabolanti occasioni espositive sui nomi da manuale, la mostra su Caravaggio che s’è tenuta questa primavera a Palazzo Barberini. Della mostra ognuno potrà dire quel che vuole (il sottoscritto l’ha stroncata, ma non sono mancati commenti entusiastici, tanto sulla stampa italiana, quanto sulle testate straniere), eppure nessuno potrà negare un dato di fatto, ovvero che l’unico museo ch’è stato in grado, negli ultimi sette-otto anni, di far convenire una ventina di opere di Caravaggio in un unico luogo, e di far arrivare non una ventina di opere dubbie, ma venti pezzi da manuale, è stato un museo statale italiano. Dunque, ricapitolando: se per memorabilità s’intende l’insieme di qualità, ricerca, novità, fascino, densità, originalità, innovazione, si vada a veder la mostra su Bellotti ch’è ancora aperta, o si comperino i cataloghi di quelle su Cantarini e Barocci. Se invece s’intende la capacità d’impressionare il pubblico e d’attirare decine di migliaia di visitatori pronti a far la fila per vedere una mostra roboante e che di sicuro rimarrà a lungo impressa nella memoria di tanti, detrattori o entusiasti che siano, ci si ricordi di quella su Caravaggio. E, si badi: non stiamo parlando d’eccezioni. I musei statali italiani sono in grado di fare tutto. E questo, beninteso, solo limitando lo sguardo agli ultimi due anni, senza nemmeno citare tutto quello che andrebbe citato, e senza considerare i tanti musei civici che certo non lavorano peggio rispetto agli omologhi nazionali, e vale anche per i centri più periferici e per i musei più piccoli (dato che il titolo del pezzo di Salvadori chiamava in causa l’intera categoria delle “istituzioni pubbliche”, ma l’articolazione faceva riferimento solo a quelli nazionali: ad ogni modo, i nostri intellettuali salottieri che vogliano fare un favore a se stessi potrebbero sfruttare le festività per andare, per esempio, a Bassano del Grappa, visitare la mostra su Segantini e rendersi conto che anche in Italia si fanno mostre di altissimo livello ovunque: capiamo, certo, che se il nostro obiettivo ultimo è postare sui social allora Bassano non gode della stessa allure di Parigi, e che a Bassano il Frecciarossa non arriva, ma se vuoi fare l’opinionista sulle mostre italiane allora non sei dispensato dal muovere le terga e andare anche nelle località un poco più scomode, perché non soltanto i grandi musei sono in grado di produrre mostre di alto livello).
Per adesso, possiamo star tranquilli: le nostre istituzioni pubbliche sanno come si lavora. I musei pubblici italiani sono perfettamente in grado di organizzare mostre memorabili: contenuti chiari e originali, allestimenti funzionali e alle volte financo scenografici, prestiti internazionali, impatto duraturo, precisione curatoriale, esperienze che restano, cataloghi che diventano pietre miliari. L’impegno dei nostri funzionari ministeriali, quei pochi che sono rimasti e che il più delle volte s’impegnano anche oltre il dovuto perché sono sottodimensionati rispetto al fabbisogno (e che è una questione, questa sì, un poco più urgente rispetto a quella della qualità delle mostre), non lavorano né solo per la conservazione né solo per i turisti, ma lavorano per procurare al pubblico un servizio che sia all’altezza del nostro patrimonio, e questo servizio passa anche per un’offerta espositiva di alto livello (che in Italia non manca). Certo, occorre anche star attenti a evitare le assoluzioni con formula piena: non si nega che spesso la qualità, in un panorama così vasto e vario, sia oscillante, che ci siano anche mostre poco all’altezza, mostre poco interessanti, mostre avventate, mostre dall’anima commerciale mirate soprattutto alla sbigliettazione, e che tutto questo sia il riflesso di questioni che stanno più a monte e di cui sarebbe il caso di parlare più a fondo. Quel ch’è sicuro, è che non è davvero la memorabilità delle mostre il problema dei musei pubblici italiani. I problemi sicuramente sono tanti, e rischiano d’emergere soprattutto nel lungo periodo, ma le generalizzazioni, le idealizzazioni e le semplificazioni servono soltanto a farli perder di vista.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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