In una lunga intervista del 1996, Federico Zeri analizzava attentamente, uno per uno, i problemi, legati allo studio (e in parte alla professione) della storia dell’arte in Italia. Nonostante il suo straordinario patrimonio culturale, agli occhi di Zeri, in quegli anni la Penisola italiana continuava a mostrare ancora significativi limiti e ostacoli. La fotografia scattata da Zeri, nell’intervista rilasciata a Bruno Zanardi nella bella casa di Mentana, faceva emergere un aspetto che ha condizionato e ancora condiziona la possibilità di uno sviluppo eterogeneo degli studi e dell’arte stessa in tutta l’Italia: molte espressioni, occorrenze, stili e linguaggi dell’arte che corrispondono a zone della Penisola ritenute marginali, apparivano del tutto escluse dall’interesse, e quindi, dalla storiografia e dalla critica d’arte. Questo fenomeno, secondo l’avviso di Zeri, accadeva non solo e non tanto in ossequio a una comprovata tradizione di studi che vedeva, esclusivamente nel centro e nel nord Italia, i maggiori centri artistici, ma era connesso soprattutto ad un’attitudine, in questo ambito, puramente e storicamente “mercantile”, “commerciale”.
Come sappiamo non è così che sarebbe dovuta andare, almeno, non tanto da condizionare ancora le cose. L’analisi storica e quella artistica evidenzia come la produzione culturale delle élite delle corti di Roma e Firenze rappresenti sì il principale nodo di attrazione e di valorizzazione del patrimonio artistico, poiché lì si concentravano le attività creative e si assistette, precocemente, all’affermazione di un mecenatismo vigoroso e di un mercato dell’arte altamente dinamico; al contrario, nelle regioni meridionali, al di sotto della Campania e in particolare nell’estrema punta dell’Italia meridionale, Zeri stesso rilevava una scarsità di interesse e di studi sistematici, suggerendo che tali territori apparissero scarsamente significativi in termini di produzione artistica, collezionismo e apprezzamento culturale. È come dire che in quelle terre ci fosse poco o nulla di davvero rilevante da conoscere, da acquistare, da apprezzare. Tuttavia, le evidenze storiche e archeologiche dimostrano che questa tendenza limitante in parte è stata superata. Da tempo si riconosce che la diversità territoriale e la varietà delle espressioni artistiche proprie di ciascuna regione italiana costituiscono elementi fondamentali per la comprensione della ricchezza storica e culturale dell’intero Paese. Pertanto anche le aree più periferiche hanno svolto un ruolo cruciale nel definirne la varietà identitaria e paesaggistica. Anzi, proprio tale frammentazione territoriale è stata fondamentale per comporre l’identità stessa e la straordinaria unicità del nostro Paese.
Un secondo elemento che arricchisce la nostra riflessione, è quello di un altro studioso, Luca Nannipieri e il suo saggio, A cosa serve la storia dell’arte, edito da Skira nel 2020. La storia dell’arte – come si chiarisce nel libro – non “serve” soltanto a tenere in vita musei e gallerie, a produrre mostre ed esposizioni ma semmai, ed è importante sottolinearlo, è un mezzo che permette di aprire nuovi “spazi” più o meno visibili, reali o anche immaginari dove trovino collocazione opere pittoriche, reperti archeologici, o sculture ma anche le molteplici espressioni dell’arte contemporanea e dell’artigianato locale: tutti “oggetti” questi che rappresentano le diverse manifestazioni di una realtà artistica complessa. Ed è proprio per renderla più comprensibile, è per trascendere da una semplice osservazione visiva che è necessaria l’interazione tra l’elemento umano e l’oggetto artistico. C’è bisogno di chi sappia dargli voce, ecco qual è il ruolo dello studioso, illuminare opere e luoghi con la sua “parola”, con la sua esperienza, le sue competenze, la sua passione. Dobbiamo anche ricordare che la storia dell’arte è una disciplina che si configura come dinamica e soggettiva, si relaziona con ciascun individuo in modo differente. L’arte “serve” a tutti: al committente, come strumento di scambio e investimento, agli studiosi, come mezzo di analisi delle vicende che hanno portato alla creazione delle opere, agli artisti stessi, come processo di espressione e innovazione; e infine, ai fruitori, che attraverso l’esperienza estetica e culturale, vivono momenti spesso irripetibili. In una parola insomma, l’arte attiva dinamiche sociali, coinvolge comunità e territori, e promuove senso di appartenenza e identità collettiva. Recenti studi hanno anche evidenziato come l’arte possa contribuire al benessere psicofisico, favorendo la riduzione di stress e ansia e tenendo lontane alcune patologie. Insomma, avere a che fare con l’arte ci salva, e ci allontana dal provare quel senso di smarrimento che è insito in ogni essere umano. Per questa ragione dovremmo sostenere chiunque se ne occupi, perché possiede un grande potere: si fa messaggero di bellezza.
Ciò che invece emerge è un dato piuttosto drammatico perché questo “ruolo” dell’arte e degli addetti ai lavori, non è stato, volontariamente o meno, del tutto ancora compreso, quando non screditato e sottopagato. Fattori questi che complicano oltremodo le cose, perché agli occhi di molti chi si occupa delle Belle Arti continua a non avere alcun impatto significativo sulla società, sulla realtà, sui territori, sull’esistente. La scarsa considerazione che gli si rivolge – in particolare in certe parti d’Italia dove un mercato che permettesse lo sviluppo di questi territori non è mai fiorito – ha inciso a volte anche nella impossibilità di prendersi cura e tutelare gran parte di un patrimonio che a quest’altezza geografica è sempre stato ricchissimo ed era già presente dai tempi antichi. Ma perché abbiamo fatto queste premesse, anche richiamando le riflessioni di due noti studiosi, per parlare della Gipsoteca Giuseppe Maria Pisani di Serra San Bruno in Calabria?
Da un lato, per delimitare le condizioni che rendono difficile lo sviluppo di studi e l’ “esplosione” di un fermento culturale in alcune aree d’Italia, come spesso è accaduto anche in Calabria. Dall’altro, questa premessa intende anche promuovere le azioni di chi si dedica a queste attività e mettere in luce i gesti di bellezza che, per esempio, un luogo come la preziosa Gipsoteca Pisani sta cercando di esprimere, nonostante ostacoli, ostracismo e indifferenza. Basta perseverare: ogni “seme” piantato con cura, prima o poi, darà i suoi frutti. È fondamentale continuare a coltivare pazienza, fiducia e coraggio, non solo per il tempo della nostra vita, ma anche per quello delle generazioni future. Non solo per noi stessi, per gli spazi di bellezza che abbiamo creato ma anche per chi verrà dopo di noi. Lo storico dell’arte Domenico Pisani, studioso noto soprattutto nel territorio, ci racconta l’avventura che lo ha portato ad inaugurare, da poco più di un anno, la Gipsoteca dedicata al padre Giuseppe Maria Pisani a Serra San Bruno.
ADFS. Come sei riuscito ad aprire questo spazio?
DP. Pochi anni dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2016, il suo studio-laboratorio di scultura, affacciato sul mare Ionio (a Soverato per la precisione) cominciò a manifestare segni di decadenza in quanto non più utilizzato. Materialmente la polvere incominciava a ricoprire i calchi in gesso delle sue opere ma, idealmente, si cominciava a vedere la coltre dell’oblio sulla produzione artistica di una vita intera, realizzata a partire dagli anni quaranta del Novecento, Superato un primo momento di tristezza, preoccupato dal pensiero di una futura dispersione di tutto ciò che era stato pazientemente conservato e raccolto, accarezzai l’idea, supportato dalla mia famiglia, di aprire una gipsoteca a Serra San Bruno, la città dove mio padre era nato ed aveva vissuto fino al 1970. Furono così imballati e trasportati più di 100 gessi, alcuni dei quali di grandi dimensioni, che trovarono spazio in un palazzo da poco ristrutturato e adeguato a spazio museale, tenendo conto delle esigenze dei disabili e delle norme sulla sicurezza. Con mio fratello Giovanni, architetto, ideammo l’allestimento, i percorsi di visita e la collocazione delle opere negli spazi espositivi. Una volta superati i problemi burocratici, aprimmo la struttura il 15 settembre 2024.
Cosa raccoglie e qual è la sua mission?
La gipsoteca raccoglie soprattutto i gessi delle sculture di Giuseppe Maria Pisani, tradotti in marmo o in bronzo durante la seconda metà del Novecento, ma trovano spazio nei percorsi di visita pure i suoi pastelli, specie quelli che hanno come tema la vita dei monaci certosini, presenti a Serra San Bruno, con alterne vicende, fin dal 1091. Inoltre, per far comprendere a chi vuole fruire degli spazi museali la formazione dello scultore, sono stati esposti i gessi anatomici, i calchi dal vero e soprattutto le riproduzioni di statue classiche donategli negli anni cinquanta dal suo maestro Gaetano Barillari, un pittore divisionista che aveva studiato all’accademia di Belle Arti di Napoli nei primi anni del Novecento. Hanno trovato spazio, nella ricostruzione del laboratorio in una delle sale, pure i cavalletti da scultore realizzati per lui dai falegnami serresi, oltre ai pigmenti e agli strumenti artistici appartenuti a suo nonno, che era stato un buon pittore di scuola napoletana, allievo di Domenico Morelli. Inoltre, in una grande vetrina, all’inizio del percorso, sono state raccolte diverse testimonianze dell’attività degli artisti-artigiani di Serra San Bruno che si erano distinti soprattutto come ebanisti e scalpellini, ma anche come ottonai, marmorari, armieri e orafi.
Che tipo di attività sono previste?
Ogni spazio museale rischia, se non programma attività culturali, di diventare un contenitore di oggetti che, per quanto esteticamente gradevoli, rimangono lontani dalla comprensione di chi non è versato nella materia specifica. Per contribuire alla conoscenza del territorio, in poco più di un anno di vita, la gipsoteca ha prodotto una mostra temporanea incentrata sulla figura di Sharo Gambino, giornalista, meridionalista ma anche pittore che, negli anni cinquanta, aveva ottenuto un discreto successo con i suoi quadri esposti in diverse rassegne calabresi. Il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice da noi fondata per l’occasione: Gipsoteca Pisani Edizioni. È in preparazione per la prossima estate un’altra antologica dedicata a Giuseppe Calabretta, ultimo epigono di una lunga schiera di artisti che avevano unito pittura, fotografia e interessi antropologici. Non sono inoltre mancati, nel corso dell’anno appena trascorso, presentazioni di libri e piccoli concerti che hanno attirato un pubblico di natura eterogenea.
Quali sono gli ostacoli perché un museo in Calabria abbia un impatto reale sulla vita di tutti?
Bisogna evitare l’autoreferenzialità e operare in maniera rispettosa e serena nel tessuto sociale. Il rischio è “la torre d’avorio” o “la cattedrale nel deserto”. Fondamentale è l’apporto delle scuole del territorio per far capire ai giovani quanto la storia del Novecento sia ancora viva nella quotidianità e quanto gli artisti, nello specifico di Serra San Bruno, abbiano inciso (non solo esteticamente) su molti paesi della Calabria, con il loro linguaggio architettonico e decorativo, nella formazione di un gusto che per secoli è stato patrimonio delle Serre calabre.
Quali sono le forme di resistenza alle difficoltà che il museo gipsoteca attiva?
Facciamo un esempio: si può vincere la resistenza all’idea errata di un museo non aperto all’esterno con la promozione dello studio e della ricerca storica e archivistica sull’arte e l’artigianato di Serra San Bruno, patrimonio identitario della città. Mio padre aveva raccolto una serie di documenti e pubblicazioni specifiche sull’argomento ed aiutava così tanti studenti universitari a compilare le loro tesi di laurea. Mettendo a disposizione del pubblico questo materiale, la Gipsoteca ha attivato un meccanismo che può essere di aiuto concreto per chi intende studiare o anche semplicemente informarsi. Inoltre il bookshop e i gadget museali possono essere considerati un prolungamento del percorso di visita che arricchisce l’offerta della gipsoteca e consente di materializzare gradevolmente il ricordo dell’esperienza vissuta nei suoi spazi.
Cosa possiamo fare perché in Calabria si possano superare quei condizionamenti storici e culturali che rilevava Federico Zeri?
L’unica cosa che si può fare è contribuire agli studi con sistematicità e rigore. La Calabria conserva un patrimonio artistico misconosciuto. Ricordata dai più solo come terra d’origine di Mattia Preti o come custode dei bronzi di Riace e poco altro ancora, porta su di sé un fardello di pregiudizi che la fa apparire come fanalino di coda tra le regioni del Mezzogiorno. Eppure grazie ad un secolo di studi inaugurati da Alfonso Frangipane, il pioniere della storia dell’arte calabrese, è stato possibile apprendere quanto nel suo passato questa regione sia stata ricca di fermenti che, attraverso importanti monasteri, famiglie nobili e alti prelati, hanno contribuito ad un intreccio straordinario di microstoria e macrostoria che oggi è possibile comprendere solo ricomponendo (almeno idealmente) la frammentazione causata da notevoli calamità naturali, principalmente il terremoto del 1783. Dopo tali studi, molti dei quali di autentico valore scientifico, è riduttivo parlare soltanto di aspetti pittoreschi o di fenomeni di rilievo antropologico relativi a questa terra. È vero che uno studioso calabrese deve percorrere chilometri di strade spesso impraticabili per appropriarsi del territorio o vagare tra biblioteche e archivi notevolmente distanti tra loro per completare le proprie ricerche, mentre a Napoli, Roma o Firenze c’è facilità negli spostamenti tra gli istituti culturali. Tuttavia il fascino della Calabria è proprio questo, attiva meccanismi di serendipità.
E come fare perché questo territorio, dove è stato coraggiosamente aperto un nuovo “spazio”, sia artisticamente vivo e parlante come auspica Luca Nannipieri?
Oltre alla promozione di mostre, allestite non per fini commerciali ma per raccontare il territorio, bisogna descrivere i fenomeni artistici della Calabria con l’esperienza di chi lo vive tutti i giorni per farli comprendere ad un pubblico più vasto. È proprio questo uno degli aspetti più interessanti di questo “mestiere”. Superare l’interesse puramente estetico di un oggetto d’arte per farne emergere il valore storico e artistico favorisce la sua interazione con l’essere umano. Nella fattispecie è molto importante far capire, attraverso l’istituzione di una gipsoteca nel nostro caso, che chi li visita non va a vedere soltanto una muta aggregazione di solfato di calcio in forme più o meno dinamiche, ma si accosta ad una materia che pulsa, parla, racconta, vive. Evidenziare poi i rapporti tra gli scultori del Novecento in questa regione non è cosa facile ma permette di far capire - a chi vuole ascoltare - le dinamiche che hanno portato alla realizzazione di monumenti in bronzo o in marmo disseminati nelle piazze, nelle scuole o nelle collezioni delle nostre città per far superare quell’indifferenza di cui sono oggetto da parte di chi non ha ancora gli strumenti per comprenderli.
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