Il vero volto di Giovanni Segantini, tra natura e idea. Com'è la mostra di Bassano del Grappa


Un centinaio di opere di Giovanni Segantini a Bassano del Grappa per restituire al pubblico un pittore complesso, tra naturalismo, divisionismo e simbolismo, aggiornato e profondamente inserito nel dibattito artistico internazionale. La recensione di Federico Giannini.

Tendiamo ad associare la pittura di Giovanni Segantini ai paesaggi alpini, alla neve, alla montagna. Angelo Conti, nella Beata Riva, fondamentale trattato d’estetica, diceva che Segantini è stato “il rivelatore della montagna”, perché “nessuno come lui ha avuto mai il senso della montagna, nessuno ha saputo come lui rappresentare ciò che la montagna esprime con la sua augusta immobilità, nessuno come lui ha sentito il silenzio che la circonda, ha conosciuto l’aspirazione delle sue cime, ha udito ogni parola dei suoi colloqui col vento, con la notte, con le albe, con le nubi feconde e coi fiumi fecondatori”. L’artista è un essere umano che vede la realtà in una maniera diversa rispetto a come la vedono tutti gli altri: a prescindere da quel che si può dire di Segantini, si potrebbe partire da questa constatazione per cominciare a rileggere tutto quel che è stato detto su di lui, e spesso con interpretazioni opposte. Per un Angelo Conti che vedeva nella sue montagne una forma in grado di fissare “lo schema ideale di ciò che l’arte di Giovanni Segantini ha fermato nella linea definitiva dello stile”, e quindi una sorta d’emanazione tangibile d’un’idea assoluta ed eterna, esistevano schiere d’altri critici che, al contrario, ritenevano che quelle montagne, quand’anche venissero in certa misura trasfigurate, trasformate attraverso la lente del simbolismo che Segantini avrebbe praticato nell’ultima porzione della sua esistenza, fossero comunque espressione d’uno schietto verismo mai dimentico delle fondamenta lombarde su cui l’artista aveva costruito la sua pittura. Nel presentare la grande mostra che il Museo Civico di Bassano del Grappa dedica quest’anno a Segantini, a cura di Niccolò D’Agati, la direttrice Barbara Guidi fissa nella montagna l’elemento forse centrale per leggere questa nuova occasione espositiva, facendo propria una considerazione di Francesco Arcangeli che aveva ribadito il significato dell’isolamento del pittore trentino: a suo avviso, nell’isolamento di Segantini andava visto il tentativo di “uscire dalla civiltà lungamente elaborata nelle città e di ritrovare un’innocenza perduta”, seguendo un richiamo simile a quello che aveva portato Van Gogh in Provenza e Gauguin a Tahiti. La verità è che, per quanto Segantini non possa essere considerato un pittore ingenuo, il suo isolamento montano (ché poi, in realtà, fu tutt’altro che un isolamento totale: fino alla fine, Segantini continuò a esporre, a ottenere successi di critica e di pubblico, a intrattenere rapporti con la critica e coi suoi galleristi) può esser letto come il culmine di quel rinnovamento delle arti ch’era stato per Segantini, per quell’avanzo di riformatorio diventato uno dei più grandi pittori d’Europa, e riconosciuto come tale già dai suoi contemporanei, una conquista lunga e faticosa.

Il pubblico d’appassionati che andrà a vedere Giovanni Segantini, questo il laconico titolo della mostra che ha radunato un centinaio di opere nei due grandi ambienti per le mostre temporanee del rinnovato Museo Civico di Bassano, troverà un percorso di visita ordinato, gradevole, pettinato, una mostra dal taglio sostanzialmente classico che segue l’intera esistenza del pittore trentino dalle prime mostre a Brera fino al 1899, l’anno della sua morte a soli quarantun anni sul monte Schafberg, in Svizzera. Certo, mancano alcuni capolavori, come Le cattive madri che non hanno potuto spostarsi dal Belvedere di Vienna per ragioni conservative (lo stesso vale per Il castigo delle lussuriose di Liverpool), o come Alla stanga, il Petalo di rosa, le Due madri della GAM di Milano e il Trittico della montagna, ma si gode della vista dell’Ave Maria a trasbordo, capolavoro che difficilmente vien prestato dal Segantini Museum di Sankt Moritz, si gode della possibilità d’ammirare il Sole d’autunno, importante dipinto ch’è stato acquisito pochi mesi fa dalla Galleria Civica di Arco, o anche la Ninetta del Verzée, riemersa dopo settant’anni d’oblio. Chi invece conosce un poco più a fondo le questioni dell’arte italiana ed europea di fine Otto e inizio Novecento vedrà una mostra non priva d’inediti e di novità, che potrebbero essere raggruppate attorno a tre ragioni, tre elementi da individuare come i pilastri su cui è stata edificata questa occasione espositiva, non certo rara per quantità (le mostre su Segantini si susseguono a cadenza quasi annuale), quanto semmai per qualità. Primo: ribadire la caratura europea dell’arte del pittore arcense. Secondo: rintracciare, anche alla luce di nuove acquisizioni tecnico-scientifiche, le origini del suo particolarissimo divisionismo. Terzo: abbattere gli stereotipi residui e scardinare le mitografie, quelle che han fatto sedimentare nella percezione collettiva l’immagine d’un Segantini naïf avanti lettera, quando non quella d’una specie di santone perso tra le montagne e refrattario a qualunque contatto con la civiltà. Per raggiungere questi obiettivi, gli organizzatori sono intervenuti con una radicale contestualizzazione, ch’è forse l’operazione più interessante e meritevole di questa mostra, anche perché non è stata affidata, come spesso avviene, soltanto al catalogo, ma è uno dei cardini attorno a cui ruota l’intero itinerario espositivo, dall’inizio alla fine, anzi è il tessuto stesso della mostra, si potrebbe dire.

Allestimenti della mostra Giovanni Segantini
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini. Foto: Musei Civici di Bassano del Grappa
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini. Foto: Musei Civici di Bassano del Grappa
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini. Foto: Musei Civici di Bassano del Grappa
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini. Foto: Musei Civici di Bassano del Grappa
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini
Allestimenti della mostra Giovanni Segantini. Foto: Musei Civici di Bassano del Grappa

C’è, intanto, una sana insistenza sul periodo dell’esordio, sul Segantini che, dopo un’infanzia segnata dalle difficoltà, dal disagio, dal vagabondaggio e dagli arresti, viene preso a lavorare come garzone dal fratello Napoleone che aveva una bottega di fotografia a Borgo Valsugana e comincia così a far maturare la sua coscienza artistica, tanto da prender la decisione, a diciassette anni, di trasferirsi a Milano per studiare all’Accademia di Brera, mantenendosi sempre col lavoro di garzone, nel negozio di un decoratore, Luigi Tettamanzi. Il Segantini degli esordî è il giovane che s’ammira nell’autoritratto prestato dalla Galleria Civica di Arco (che assieme al Museo di Sankt Moritz è il principale custode del patrimonio segantiniano) e che si ritrae nei modi tipici dei pittori scapigliati, con quell’insistenza sul colore adoperato anzitutto per esprimere una verità psicologica: se si volesse indicare un momento particolarmente felice di questa parte mostra, lo si potrebbe trovare nell’accostamento tra il Falconiere di Tranquillo Cremona della GAM di Milano e la Falconiera di Segantini che, ancora giovane, dipinge sull’esempio del suo maestro ideale ma producendosi non già in un lavoro imitativo e pedestre, bensì in quello ch’è possibile considerare un capolavoro giovanile, originale perché più solido e al contempo più sciolto rispetto all’antecedente, e già orientato su di un utilizzo tutto personale del colore come mezzo espressivo. In parallelo, Segantini esplorava le possibilità della ritrattistica sperimentando tagli e composizioni insolite (si vedano il Ritratto di donna in via san Marco, col volto malinconico della ragazza che impalla gli edifici di Milano dipinti in controluce sotto una giornata di cielo terso, oppure l’inedito Ritratto di Bice Segantini, ricomparso sul mercato appena tre anni fa, con cui il pittore costruisce una sorta di spirale che parte dagli occhi della compagna e segue il movimento del braccio e dello scialle che le copre i capelli, con l’enfasi di tutti i toni del bianco che muovono la composizione) e approfondiva la sua capacità di raffigurare il reale cimentandosi con le nature morte: illuminante in tal senso è il confronto tra i suoi lavori, a cominciare dal dipinto noto come Gioia del colore, una natura morta con uova e pollame dall’insistita enfasi sul piumaggio delle povere anatre abbattute (una di loro ha ancora il sangue rappreso sulla testa) e, di nuovo, sulle varie gradazioni del bianco, e un’opera come il Piccione di Emilio Longoni che però, pur nella sua indiscutibile, rustica, appassionante aderenza al vero, è privo di quella sinfonia di modulazioni d’un Segantini che appare già pienamente interessato a tutti gli sviluppi che il colore gli può suggerire, persino lavorando sui soggetti più umili e feriali.

Segantini è già qui. S’è tuffato senza esitare dentro quel contesto artistico marcato, scrive il giovane curatore D’Agati, “da una radicale riflessione sul linguaggio rappresentata, da un lato, dall’eredità vitale della combattiva stagione della scapigliatura lombarda […] e, dall’altro lato, dall’imporsi prepotente della cultura colorista che segnava gli esiti più moderni del naturalismo”, ed è uscito dai marosi della Milano tardoromantica facendo emergere “una direttrice fondamentale che ne sosterrà integralmente la ricerca al di là delle apparenti soluzioni di continuità: portare al massimo grado di tensione espressiva il colore, la luce, la linea e tutti gli elementi compositivi dell’opera intesa come superficie”, anche con “lavori apparentemente opposti in termini di risultati”. Naturale che una promessa del genere venisse notata da un gallerista avveduto come Vittore Grubicy, che già nel 1879 aveva conosciuto Segantini e aveva deciso d’investire su di lui: era l’inizio d’un rapporto che sarebbe durato fino alla scomparsa dell’artista e ch’è una costante di tutta la mostra e dell’intero catalogo, stante anche il fatto che solo di recente è stato compiuto uno studio approfondito sulle carte di Grubicy conservate nel fondo del Mart di Rovereto, uno studio partito qualche anno fa, culminato con la grande mostra che Livorno ha dedicato a Grubicy nel 2022, e che in questa occasione ha consentito anche una rilettura dei loro rapporti e, di conseguenza, anche della stessa arte di Segantini.

Giovanni Segantini, La falconiera (1880; olio su tela, 144 × 102 cm; Pavia, Musei Civici)
Giovanni Segantini, La falconiera (1880; olio su tela, 144 × 102 cm; Pavia, Musei Civici)
Tranquillo Cremona, Il falconiere (1863; olio su tela, 77 × 90 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
Tranquillo Cremona, Il falconiere (1863; olio su tela, 77 × 90 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
Giovanni Segantini, Ritratto di donna in via San Marco (1880; olio su tela, 52 × 34 cm; Collezione privata)
Giovanni Segantini, Ritratto di donna in via San Marco (1880; olio su tela, 52 × 34 cm; Collezione privata)
Giovanni Segantini, Vado al teatro. Ritratto di Bice Segantini (1880; olio su tela, 46 × 36 cm; Collezione privata)
Giovanni Segantini, Vado al teatro. Ritratto di Bice Segantini (1880; olio su tela, 46 × 36 cm; Collezione privata)
Giovanni Segantini, Natura morta con pollame (1886; olio su tela, 56 × 110 cm; Collezione Gaetano Marzotto)
Giovanni Segantini, Natura morta con pollame (1886; olio su tela, 56 × 110 cm; Collezione Gaetano Marzotto)

La relazione con Grubicy viene ripercorsa, anzitutto, coi ritratti dello stretto ambito familiare del gallerista, che si sarebbe poi “fatto pittore” per Segantini, ebbe a scrivere Primo Levi l’Italico in occasione della scomparsa dell’artista trentino, per evidenziare quanto fosse fermo, solido, serio, stretto il legame tra i due, un sodalizio tanto adamantino da aver spinto Grubicy a imparare a dipingere, da autodidatta, per meglio dialogare con l’artista (in realtà possiamo immaginare che la sua decisione venne indotta anche dalla volontà di perseguire una ricerca autonoma che per certi versi divergeva da quella di Segantini, in particolare su come un’opera dovesse esprimere il simbolo: si potrebbe dire, sicuramente banalizzando, che per Grubicy doveva prevalere l’idea mentre per Segantini era più importante la natura, ma la lettura è un poco più complessa e lo dimostra la stessa interpretazione che Conti dava delle montagne segantiniane). E poi, la relazione Grubicy-Segantini è approfondita coi dipinti del periodo brianteo: Segantini s’era trasferito in Brianza già nel 1880 e ci sarebbe rimasto fino al 1886, anno dello spostamento a Savognin, nel Cantone dei Grigioni. Nel mezzo c’è l’inizio del rapporto lavorativo tra il pittore e Vittore e Alberto Grubicy (poi, nel 1890, anno della rottura tra i due fratelli, Segantini sarebbe rimasto con Alberto ma avrebbe mantenuto rapporti cordiali con Vittore), c’è la prima vittoria di un premio internazionale (ad Amsterdam, nel 1883), c’è la prima mostra personale alla Permanente di Milano. E, soprattutto, c’è un nuovo orientamento nelle sue indagini, che se all’inizio del periodo brianteo non s’erano scostate d’una virgola dalle ricerche scapigliate degli esordi (la ritrovata Ninetta del Verzée, di datazione incerta, dipinta probabilmente tra il 1880 e il 1883, ne è un esempio, ma già un’opera come il Bacio alla croce, di poco successiva, mostra un’attitudine a sondare le potenzialità della luce ch’è completamente nuova e già improntata su di una sensibilità inedita), a partire dalla metà degli anni Ottanta cominciano a confrontarsi con la pittura internazionale, sempre dietro impulso di Vittore Grubicy ch’era diventato per Segantini una sorta di mentore, in grado d’aggiornarlo su tutto quel che accadeva fuori dall’Italia. Uno dei meriti della mostra di Bassano è quello d’aver fatto convenire nelle sale del Museo Civico alcuni dipinti d’artisti internazionali con i quali Segantini si misurò, oppure che, senz’alcuna consapevolezza, condividevano elementi delle sue ricerche. Un primo momento di confronto fu coi pittori della scuola dell’Aia, e portò Segantini da un lato a rasserenare la sua tavolozza e dall’altro a concentrarsi su temi pastorali: schiarisce le idee in questo senso il densissimo confronto tra la seppur tarda Propaganda di Segantini (era del 1897, venne disegnata per un album di temi socialisti, ma si confrontava col tema della semina a lungo frequentato dai pittori olandesi: del resto, l’etimologia di “propaganda” rimanda proprio al lavoro nei campi), il Seminatore di Matthijs Maris, quello di Vincent van Gogh (sì, il pubblico di Bassano potrà vedere anche un disegno di Van Gogh, elemento da sottolineare data la difficoltà di veder sue opere in una mostra dove non è lui l’attore principale) e quello di Jean-François Millet. E senza Millet, presente in mostra anche con una Pastorella con il suo gregge prestata dal Musée d’Orsay, non si potrebbe spiegare il Segantini che sta a metà tra l’esordio e la fase divisionista, il Segantini capace di produrre opere apprezzate financo dai suoi contemporanei, come il Ritorno dal pascolo o il fondamentale L’Averse (nota anche come Dopo il temporale), tela, quest’ultima, di serrata indagine sul vero, ma anche opera poeticamente ispirata, in cui il contrasto tra i grossi cumuli che passano sopra alla pastorella e alle sue pecore e i bagliori del sole all’orizzonte anticipa gli esiti simbolisti del Segantini maturo. Il confronto con Millet è uno degli snodi fondamentali della mostra, malgrado il pittore arcense non ne avesse fatto cenno nel materiale autobiografico che avrebbe prodotto dopo aver conosciuto il successo (materiale che va preso con tutte le cautele del caso, dacché Segantini raccontava i suoi trascorsi non per dare un’immagine veritiera di sé, ma per costruirsi in prima persona una personalissima mitografia): già alcuni suoi contemporanei s’erano però accorti di questo dialogo, avvenuto soprattutto per mezzo delle fotografie in bianco e nero, e ch’è centrale per capire, scrive Servane Dargnies-De Vitry in catalogo, in un contributo tutto dedicato a esplorare il rapporto tra i due artisti, come Segantini fosse arrivato a concepire “un simbolismo che non tende né all’astrazione né a un’idealizzazione eterea” ma ch’è fondato, aveva già notato Julius Meier-Graefe, “sulla rude concretezza alpina”, sull’osservazione del reale come “porta dello spirituale”.

Il primo, più alto esito di questo paradigma è proprio l’Ave Maria a trasbordo, che in mostra viene riletta non già come la prima opera divisionista di Segantini (come spesso è stato fatto in passato), ma come un fondamentale lavoro di transizione, anche perché dipinto in due versioni, una del 1882 e una del 1886, oltretutto in più fasi, e mentre Vittore Grubicy aveva cominciato ad approfondire la teoria del colore che stava appassionando i pittori francesi, su tutti Georges Seurat e Paul Signac, i fondatori del pointillisme, ai quali lo stesso Grubicy guardava con estremo interesse, tanto da suggerire a Segantini l’ennesima trasformazione della sua pittura. Non abbiamo più la prima versione, ma la seconda, eseguita quando Segantini s’era già trasferito a Savognin (e poi ridipinta quasi del tutto in un momento successivo, come hanno confermato le indagini tecniche eseguite per la mostra), è un dipinto che inizia a confrontarsi con le idee che giungevano dalla Francia, anche se il “divisionismo” che il pittore avrebbe sviluppato nei Grigioni, e ch’è da intendersi come l’uso di tocchi di colore, di minuscole macchie di pigmento puro (ovvero non mescolato sulla tavolozza) giustapposte al fine di dare al riguardante l’effetto del colore che si crea come somma di luci osservando il dipinto da lontano, è qui limitato a pochi elementi (il sole all’orizzonte, alcune velature sulle pecore): l’importanza dell’Ave Maria a trasbordo va considerata, naturalmente senza tener conto del portato simbolico del dipinto che ha contribuito al successo di Segantini e dell’evocatività d’un’immagine che si scolpisce nella mente di chi la vede (è forse il dipinto più memorabile di Segantini), in ragione del suo carattere di dipinto di passaggio, che con “la resa della luce del cielo […] e la scomposizione di essa sull’acqua e sui curvi legni della barca, e pure le sottili pennellate colorate […] della riva” si pone come “un primo ancora timido passo verso una più piena comprensione delle istanze ottiche neoimpressioniste o più propriamente divisioniste” (così in catalogo Anna Galli, Simone Caglio e Gianluca Poldi).

Una più compiuta sperimentazione divisionista sarebbe cominciata più tardi, e uno dei primi esiti di questa nuova indagine è il summenzionato Sole d’autunno, altra opera centrale nel percorso di Segantini, lavoro che segna l’avvio della fase più intensa della sua attività, subito dopo l’Ave Maria a trasbordo: è a partire da questo dipinto, un dipinto in cui la pennellata comincia a diventare più pastosa e più lunga e lo studio della luce più attento a rendere la varietà cromatica dei bagliori che si rifrangono sugli oggetti, che Segantini comincia un più marcato percorso di definizione del suo divisionismo che culminerà poi in opere come il Contrasto di luce del 1888, che il pittore stesso indicava come esempio della sua ricerca (“Se l’arte moderna avrà un carattere, sarà quello della ricerca della luce nel colore”, scriveva sul finire del 1887 riferendosi proprio a questo dipinto), l’Alpe di maggio, uno studio della luce crepuscolare sotto le spoglie d’una placida scena pastorale d’alta montagna, la Vacca bruna all’abbeveratoio che celebra la poesia della natura, o come in opere radicali come il Riposo all’ombra, l’Ora mesta e il Ritorno dal bosco in cui s’avvertono i primi segni dell’afflato simbolista che caratterizzerà l’ultimo Segantini. Già leggendo queste opere, Domenico Tumiati, che ne scriveva tra il 1897 e il 1898, si spingeva ad affermare che nelle opere di Segantini è “racchiuso un Nirvana: lo spirito sembra addormirsi in seno alle cose”. È sulla base dell’armonioso accordo tra tecnica e idea che la mostra suggerisce d’interpretare gli ultimi anni di Segantini: la visione del pittore trentino, già a partire dalle malinconiche scene montane dell’Ora mesta e del Ritorno dal bosco, si muove tra natura e simbolo, trovando quella via personale che l’avrebbe fatto diventare artista centrale per il simbolismo europeo. Anche quando dipingeva la natura, sian d’esempio la succitata Vacca bruna all’abbeveratoio e altri lavori che il visitatore incontra avviandosi verso la conclusione della rassegna (i Pascoli di primavera, per esempio, o il Ramo di cembro), Segantini aveva in mente un’idea sacra, trasfigurata, eterea del paesaggio, e lo avrebbe dichiarato lui stesso, che nel frattempo era diventato un accanito lettore: non era più lo sgrammaticato montanaro che scriveva lettere piene di strafalcioni a Grubicy, ma era ormai un artista aggiornato e consapevole di quel che faceva. Lo scopo del continuo studiare, scriveva Segantini in una lettera all’amica scrittrice Anna Maria Zuccari Radius, che firmava i suoi romanzi come Neera, è impossessarsi “assolutamente, francamente di tutta la Natura, in tutte le gradazioni, dall’alba al tramonto, dal tramonto all’alba, con la relativa struttura e forma di tutte le cose; onde creare poi energicamente, divinamente l’opera che sarà tutta ideale”. Segantini aveva maturato un’idea grandiosa, spirituale, panteistica della natura, spesso sostenuta da opere visionarie e scopertamente allegoriche (in mostra s’ammirano, per esempio, l’Angelo della vita e la Vanità, che tuttavia non derogano a quella tecnica che Segantini aveva cominciato a sviluppare coi suoi lavori di dieci anni prima), e che s’esprime per mezzo d’una pittura che, con le sue variazioni cromatiche, col suo tentativo di catturare la luce e i suoi infiniti baluginii, non deve limitarsi a riprodurre il reale, ma dev’essere in grado di far convivere idea e natura, l’una lo specchio dell’altra. Risiede in questa visione, peraltro profondamente consapevole, tutta l’originalità, tutta la novità della pittura di Segantini.

Giovanni Segantini, Ritratto di Vittore Grubicy De Dragon (1887; olio su tela, 152 × 92 cm; Lipsia, Museum der bildenden Künste)
Giovanni Segantini, Ritratto di Vittore Grubicy De Dragon (1887; olio su tela, 152 × 92 cm; Lipsia, Museum der bildenden Künste)
Giovanni Segantini, Bacio alla croce (1881-1882; olio su tela, 85,5 × 48 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito Fischbacher Giovanni Segantini Foundation)
Giovanni Segantini, Bacio alla croce (1881-1882; olio su tela, 85,5 × 48 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito Fischbacher Giovanni Segantini Foundation)
Jean-François Millet, Bergère avec son troupeau (1863; olio su tela, 81 × 101 cm; Parigi, Musée d’Orsay)
Jean-François Millet, Bergère avec son troupeau (1863; olio su tela, 81 × 101 cm; Parigi, Musée d’Orsay)
Giovanni Segantini, Dopo il temporale (1884; olio e tempera su tela, 180 × 123 cm; Collezione privata, su concessione di METS, Novara - Gallerie Maspes, Milano)
Giovanni Segantini, Dopo il temporale (1884; olio e tempera su tela, 180 × 123 cm; Collezione privata, su concessione di METS, Novara - Gallerie Maspes, Milano)
Giovanni Segantini, Pastorella alla fonte (1886-1888; olio e pastello su tela, applicata su cartone, 450 × 335 mm Collezione privata)
Giovanni Segantini, Pastorella alla fonte (1886-1888; olio e pastello su tela, applicata su cartone, 450 × 335 mm Collezione privata)
Giovanni Segantini, Ave Maria a trasbordo (1886-1888; olio su tela, 121,2 × 92,2 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Ave Maria a trasbordo (1886-1888; olio su tela, 121,2 × 92,2 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Sole d’autunno (1887; olio su tela, 90 × 192 cm; Arco, Galleria Civica G. Segantini)
Giovanni Segantini, Sole d’autunno (1887; olio su tela, 90 × 192 cm; Arco, Galleria Civica G. Segantini)
Giovanni Segantini, Riposo all’ombra (1892; olio su tela, 45 × 68 cm; Collezione Christoph Blocher)
Giovanni Segantini, Riposo all’ombra (1892; olio su tela, 45 × 68 cm; Collezione Christoph Blocher)
Giovanni Segantini, L’ora mesta (1892; olio su tela, 45,5 × 83 cm; Collezione privata, in deposito presso Galleria Civica G. Segantini, Arco)
Giovanni Segantini, L’ora mesta (1892; olio su tela, 45,5 × 83 cm; Collezione privata, in deposito presso Galleria Civica G. Segantini, Arco)
Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco (1889-1890; olio su tela, 60 × 95,5 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco (1889-1890; olio su tela, 60 × 95,5 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Vacca bruna all’abbeveratoio (1892; olio su tela, 74,4 × 61,5 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Vacca bruna all’abbeveratoio (1892; olio su tela, 74,4 × 61,5 cm; St. Moritz, Segantini Museum, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini)
Giovanni Segantini, Pascoli di primavera (1895; olio su tela, 97,5 × 155,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Giovanni Segantini, Pascoli di primavera (1895; olio su tela, 97,5 × 155,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Giovanni Segantini, Angelo della vita (1896; matita colorata, pastello, matita dorata su carta, crayon Conté, 650 × 480 mm; St. Moritz, Segantini Museum)
Giovanni Segantini, Angelo della vita (1896; matita colorata, pastello, matita dorata su carta, crayon Conté, 650 × 480 mm; St. Moritz, Segantini Museum)
Giovanni Segantini, La vanità (1897; olio su tela, 77 × 124 cm; Zurigo, Kunsthaus, acquisito con un contributo del Schweizerischen Bankgesellschaft, 1996)
Giovanni Segantini, La vanità (1897; olio su tela, 77 × 124 cm; Zurigo, Kunsthaus, acquisito con un contributo del Schweizerischen Bankgesellschaft, 1996)

La mostra, s’è detto, non dimentica la dimensione internazionale dell’arte di Segantini, che viene contestualizzata non solo attraverso il continuo confronto coi suoi contemporanei, ma anche per mezzo di costanti rimandi ai successi che punteggiarono l’intera sua carriera d’artista, successi giunti anche grazie all’efficace, durevole promozione dei fratelli Grubicy, segnatamente di Vittore: mostre a Venezia, a Londra, all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, al Salon des Vingts in Belgio, la partecipazione con ben 29 opere alla rassegna inaugurale della Secessione di Vienna del 1898 (dove venne ammirato da molti pittori austriaci che lo consideravano tra i loro punti di riferimento, tra i quali è possibile includere anche Gustav Klimt: il rapporto tra Segantini e gli artisti austriaci è adeguatamente indagato in catalogo nel saggio di Alessandra Tiddia), l’invio di opere a Zurigo, in Germania, negli Stati Uniti, persino in Guatemala, e poi il progetto per un enorme Panorama dell’Engadina per il Padiglione della Svizzera all’Expo di Parigi del 1900 (poi non realizzato per mancanza di risorse finanziarie), un diluvio d’articoli critici, in gran parte favorevoli, che spesso si dividevano sulla lettura delle sue opere, sul significato che andava attribuito alle sue visioni (rivelatore in tal senso è il contributo di Francesco Parisi in catalogo). Quando Segantini moriva sullo Schafberg nel 1899 era probabilmente l’artista italiano più famoso del mondo, e uno degli artisti più importanti e riconosciuti d’Europa.

Uno dei successi più rilevanti di Segantini fu anche la vendita, nel 1892, del suo capolavoro Alla stanga allo Stato, per la Galleria Nazionale di Roma, ceduto per la somma di 18mila lire, contro le 25mila iniziali. Una cifra molto considerevole: parliamo, grosso modo, di una transazione finale che valeva 87mila euro odierni (sarebbe stato Vittore Grubicy a convincere il pittore a rinunciare a una parte del guadagno pur di veder entrare una sua opera nel principale museo d’arte contemporanea nazionale, e Segantini non glielo avrebbe mai perdonato, perché si sentiva come se l’amico gli avesse cavato i soldi di tasca: altro che pittore ingenuo!). Nello stesso anno, Segantini aveva preso parte a una mostra a Torino dove un suo dipinto, l’Aratura ch’è oggi alla Neue Pinakothek di Monaco di Baviera, sollevò la perplessità di Umberto I che, stando a un aneddoto riportato dalla letteratura e rievocato da Niccolò D’Agati, avrebbe palesato qualche perplessità al cospetto dell’opera: non capiva perché Segantini aveva fatto i cavalli blu. E gli aveva preferito i paesaggi del più anziano Carlo Follini, artista talentuoso per quanto più legato a un realismo piuttosto mite. Fortuna ha voluto che al Ministero della Pubblica Istruzione, cui spettavano gli acquisti da destinare ai musei nazionali, ci fosse qualcuno con una visione un po’ più acuta di quella del re.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte