Il drago, figura mitica che da sempre popola l’immaginario umano, ha attraversato secoli di trasformazioni iconografiche fino a diventare il mostro alato sputa fuoco che oggi conosciamo. La sua presenza nelle arti figurative racconta un percorso evolutivo particolare: dall’antico drakon greco, simile a un serpente e temuto per la sua forza, come l’Idra di Lerna sconfitta da Ercole, alla creatura medievale dotata di ali di pipistrello, corna e respiro infuocato, ispirata in parte alle terribili descrizioni del Leviatano nel Libro di Giobbe. I bestiari medievali codificarono l’immagine del drago come simbolo del male, fornendo agli artisti modelli di riferimento che avrebbero influenzato secoli di rappresentazioni. Esempi famosi come il drago del manoscritto Harley MS 3244, risalente alla metà del XIII secolo, mostrano già l’aspetto che oggi associamo alle creature: un corpo simile a un coccodrillo, ali da pipistrello, corna e una bocca ardente.
In Toscana, musei e collezioni conservano opere che illustrano l’evoluzione della figura. Per Ambrogio Lorenzetti, Carlo Dolci e Piero di Cosimo, il drago diventa protagonista di narrazioni eroiche e mitologiche, spesso sconfitto da santi ed eroi. San Giorgio, venerato come cavaliere e martire, libera la principessa Elisava da un drago che minacciava la sua città, trasformando il terrore della creatura in simbolo della vittoria del bene sul male. Analogamente, l’arcangelo Michele viene raffigurato come giovane guerriero armato, impegnato a sconfiggere il drago, incarnazione delle forze maligne: le sue immagini celebrano il trionfo della virtù e della fede.
Le iconografie si ampliano poi con Cornelis Cort, Salvator Rosa e Giovanni Battista D’Angolo, che reinterpretano il mostro nei contesti biblici e mitologici con grande attenzione ai dettagli e alla drammaticità della scena. Anche le arti applicate celebrano la creatura: il vaso in diaspro della bottega dei Saracchi, oggi nel Tesoro dei Granduchi a Palazzo Pitti, trasforma il drago in un esercizio di virtuosismo tecnico, mentre nel Museo della Contrada del Drago a Siena la figura fantastica diventa emblema e simbolo di identità della comunità. Dalla pittura alla scultura, dalle miniature alle incisioni, ogni rappresentazione mostra come il drago sia stato un mezzo per incarnare il male, la paura e, al contempo, il coraggio e la virtù di chi lo affronta. Attraverso le opere custodite nei musei toscani, emerge un panorama ricco e variegato, dove mito, religione e ingegno artistico si intrecciano, confermando il fascino eterno di una creatura che continua a catturare la fantasia di chi la osserva. Ecco dunque dove si nascondono i draghi in Toscana.
Il San Giorgio di Donatello del 1636, commissionato dall’Arte dei Corazzai e oggi conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, era originariamente collocato in una nicchia esterna di Orsanmichele e poi sostituito da una copia, mostra un approccio innovativo alla scultura. Lo scultore affronta il problema dello spazio in modo diverso dal pittore o dall’architetto: mentre il pittore crea profondità illusoria con la prospettiva e l’architetto definisce lo spazio attraverso la geometria dell’edificio, lo scultore lavora sul volume pieno. Donatello struttura San Giorgio su una logica triangolare: le gambe divaricate formano la base, lo scudo riprende triangoli complementari, la testa ovoidale e il collo colonnare si inseriscono in questa geometria.
L’asse verticale centrale, dalla punta dello scudo alla testa, conferisce stabilità morale senza rigidità, grazie al movimento delle linee laterali. La statua esprime la virtù umana: San Giorgio è protagonista della propria azione, vincitore per razionalità e decisione, non per volontà divina. La prospettiva del rilievo ai piedi della statua, con la rappresentazione di San Giorgio e del drago, con linee di fuga tra roccia e portico, e l’uso della luce sul fondo concavo, contribuiscono a dare profondità e a isolare i protagonisti, rievocando l’antico principio romano di modellare lo spazio con il chiaroscuro. L’opera riflette, così, un ideale rinascimentale di equilibrio tra geometria, virtù e esperienza umana.
Perseo libera Andromeda di Piero di Cosimo, realizzato tra il 1510 e il 1515, è una tempera grassa su tavola oggi conservata agli Uffizi. L’opera racconta uno degli episodi più noti delle Metamorfosi di Ovidio, trasformando il mito in una narrazione continua e articolata. La scena principale mostra Perseo nell’atto di sconfiggere il mostro marino incaricato di divorare Andromeda, principessa etiope destinata al sacrificio per punire la superbia della madre Cassiopea, colpevole di aver offeso Poseidone. L’eroe compare più volte all’interno dello stesso spazio pittorico: prima sorvola il paesaggio con i calzari alati mentre individua la fanciulla incatenata, poi combatte il drago (come riportato e definito nella scheda dell’opera), infine celebra la vittoria accanto ad Andromeda liberata, futura sposa.
L’impianto narrativo è scandito da forti contrasti emotivi. A destra dominano l’esultanza del re e della folla, mentre a sinistra prevale l’angoscia della famiglia, consapevole dell’imminente sacrificio. Piero di Cosimo privilegia una lettura chiara del racconto, attenuando la tensione drammatica grazie a un paesaggio marino luminoso e quasi pacificato, entro cui il mostro appare sorprendentemente immerso. Probabilmente destinata all’arredo di una camera nuziale nel Palazzo Strozzi, forse per le nozze di Filippo Strozzi il Giovane e Clarice de’ Medici, la tavola giunse in seguito nelle collezioni medicee. È documentata agli Uffizi già alla fine del Cinquecento, esposta nella Tribuna.
Cornelis Cort, celebre incisore olandese del Cinquecento attivo a lungo in Italia, realizzò nel 1577 il bulino San Giorgio e il drago, basato su un’opera perduta di Giulio Clovio, rinomato miniatore del tempo. La stampa, conservata al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli Uffizi a Firenze, fa parte della collezione fin dalla seconda metà del Settecento ed è firmata e datata dall’artista.
La scena riprende la miniatura citata da Giorgio Vasari nella biografia di Clovio, che racconta come il cardinal Farnese avesse donato il lavoro raffigurante San Giorgio all’imperatore Massimiliano II. L’incisione di Cort traduce in formato grafico la delicatezza e la precisione delle miniature di Clovio, offrendo una testimonianza preziosa dell’incontro tra arte italiana e maestria incisoria nordica nel Cinquecento.
Salvator Rosa, con l’acquaforte e la puntasecca Giasone addormenta il drago, opera del 1663-1664 custodita a Firenze nelle Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, mostra l’eroe durante la terza impresa per conquistare il Vello d’Oro. Giasone, al centro della composizione, versa la pozione magica sul drago che protegge il prezioso mantello d’ariete, mentre la creatura cede lentamente al sonno.
L’artista affronta il tema più volte, esplorandolo attraverso studi preparatori, disegni e dipinti, evidenziando il contrasto tra tensione eroica e drammaticità della scena. L’opera rappresenta la capacità di Rosa di fondere mito e teatralità in una narrazione intensa, dove ogni gesto e dettaglio concorrono a dare vita alla leggenda classica.
Giovanni Battista D’Agnolo, detto del Moro, realizza tra il 1560 e il 1570 l’acquaforte Paesaggio con san Teodoro e il drago, oggi conservata a Firenze nelle Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. L’incisione riproduce un disegno originale a penna e inchiostro di Tiziano Vecellio, custodito alla Morgan Library and Museum di New York. L’opera mostra un soldato in armatura impegnato a trafiggere un drago: si tratta di San Teodoro, non di San Giorgio come era stato a lungo creduto.
Protettore di Venezia prima di San Marco, Teodoro si distingue per aver sconfitto la creatura con un unico colpo di lancia, simbolo di coraggio e fede. L’acquaforte mette in luce la capacità di D’Agnolo di trasferire su metallo l’energia e la composizione del maestro veneziano, con un paesaggio che amplia lo spazio scenico e intensifica la tensione della scena mitica.
Il San Giovanni Evangelista a Patmos di Carlo Dolci, datato 1656, appartiene alle raccolte di Palazzo Pitti a Firenze ed è conservato nella Galleria Palatina, nella Sala di Ulisse. Eseguito a olio su rame, formato minuto ma di grande raffinatezza, il dipinto proviene dalle collezioni del Gran Principe Ferdinando de’ Medici ed è documentato già nell’inventario di Poggio Imperiale del 1695 tra i beni di Vittoria della Rovere. La presenza del supporto metallico, fissato a un sottile telaio ligneo, ne determinò una prima descrizione come tavola.
L’opera precede due versioni su tela di dimensioni maggiori, oggi disperse, realizzate per Pier Francesco Rinuccini e per il cardinale Giovan Carlo tra il 1657 e il 1659. L’iscrizione sul telaio, con data e ora di avvio del lavoro nel giorno del Giovedì Santo, rivela il rigoroso metodo dell’artista e il valore devozionale attribuito all’atto pittorico. Il soggetto trae origine dall’Apocalisse: Giovanni, confinato a Patmos, assiste alla visione della donna vestita di sole, minacciata dal drago a sette teste. La composizione si organizza in uno spazio sospeso fra cielo e mare, dove la figura del santo emerge in primo piano, retta dall’appoggio incerto sul libro. Il gesto della mano, volutamente enfatizzato, diviene il centro visivo e guida lo sguardo verso l’apparizione luminosa, ispirata alla celebre incisione di Dürer del 1498. Dolci dimostra una perizia assoluta nella resa dei dettagli, dalla tessitura del manto alla definizione dei capelli, fino al drago e all’aquila trattati a monocromo. Il rame dialoga con una cornice lignea intagliata e dorata di notevole virtuosismo, decorata da testine di drago coerenti con il tema iconografico. L’attribuzione a Cosimo Fanciullacci rimane verosimile, alla luce delle affinità con modelli diffusi nella scultura bronzea fiorentina di fine Cinquecento, legati all’ambiente di Pietro Tacca.
Realizzato nell’ultimo quarto del Cinquecento, prima del 1589, il vaso in diaspro dei Grigioni con applicazioni in oro, smalti, perle e rubini rappresenta un prezioso esempio della produzione di oggetti da collezione destinati alle grandi corti italiane. L’opera, oggi conservata nel Tesoro dei Granduchi di Palazzo Pitti a Firenze, presenta una struttura complessa, concepita come un vero esercizio di virtuosismo tecnico e formale. Un piede circolare, arricchito da una fascia d’oro smaltata con motivi vegetali e gemme incastonate, sostiene un fusto articolato da nodi dorati decorati a smalto. La coppa, lavorata a conchiglia, accoglie un coperchio interamente modellato come un drago: testa, ali e coda sono scolpite a tutto tondo e fissate tramite sottili legature in oro. Sul dorso compare una piccola creatura fantastica assimilabile a un delfino, concepita come presa funzionale e allo stesso tempo come elemento simbolico.
La prima testimonianza documentaria del vaso compare nell’inventario della Tribuna degli Uffizi del 1589, dove l’oggetto viene descritto con minuzia per materiali e gemme. In origine collocato negli armadi segreti della Tribuna, rimase in quello scrigno mediceo fino alla fine del Settecento, quando fu trasferito nel Gabinetto delle Gemme. L’attribuzione riconduce alla bottega milanese dei fratelli Saracchi, noti intagliatori e orafi, rinomati per vasi e sculture in pietre dure con forme di animali reali e immaginari. Opere analoghe, anch’esse nel Tesoro dei Granduchi, suggeriscono una produzione legata alle celebrazioni per le nozze di Ferdinando I de’ Medici con Cristina di Lorena.
L’icona di ambito russo omaggia san Giorgio, tra i santi più venerati nell’antica Rus’. Martire del IV secolo, ufficiale dell’esercito romano e cristiano, subì la decapitazione per ordine di Diocleziano. La rappresentazione lo presenta come cavaliere armato, simbolo della vittoria del bene sul male, mentre trafigge il drago. Il soggetto deriva da racconti agiografici di origine apocrifa. In una città dell’Asia Minore, un mostro pretendeva il sacrificio quotidiano di giovani vittime. Quando la sorte toccò a Elisava, figlia del sovrano, Giorgio intervenne improvvisamente, abbatté la creatura e la fece condurre in città, domata da una cintura. La scena include la principessa presso la porta urbana e, sopra di lei, i genitori regnanti. Un angelo incorona il santo, allusione alla gloria del martirio.
Sul piano stilistico, l’opera rivela forti aperture alla pittura tra XVII e XVIII secolo: modellato volumetrico di impronta naturalistica, architetture dal gusto barocco, tensione dinamica nella figura di Giorgio, testa del cavallo impostata in scorcio e drago reso con arti robusti anziché con forma serpentiforme alata. L’icona, databile tra il terzo e il quarto decennio del Settecento, appartiene alle collezioni delle Gallerie degli Uffizi e anticipa un modello diffuso anche a Kostroma e ÄŒerepovec. Singolare, e limitato all’esemplare fiorentino, risulta l’inserimento dei resti delle vittime del drago, dettaglio forse suggerito dal contatto con la cultura figurativa occidentale. L’esecuzione va ricondotta alla stessa bottega attiva per altre icone oggi agli Uffizi.
Al Museo Stefano Bardini di Firenze si conserva San Michele Arcangelo abbatte il drago, capolavoro di Piero del Pollaiolo realizzato tra il 1460 e il 1465. Originariamente parte di uno stendardo processionale della Compagnia di San Michele Arcangelo di Arezzo, il dipinto fu successivamente tagliato e trasformato in opera da cavalletto.
Dopo un periodo nella collezione Campana e la vendita all’asta postuma della raccolta Demidov a Londra, entrò nella raccolta di Stefano Bardini, diventando uno dei pezzi di maggiore rilievo del museo. L’opera, eseguita in tempera su tela, mostra l’arcangelo Michele nell’atto di sconfiggere il drago, combinando la precisione del dettaglio anatomico con un intenso senso drammatico tipico della pittura fiorentina del Quattrocento.
La tavola a tempera di Sano di Pietro (1406-1481) raffigura la Lotta fra San Giorgio e il drago e proviene dalla chiesa senese di San Cristoforo, dove occupava il centro di un’ancona commissionata per lascito testamentario l’11 agosto 1440 da Giorgio Tolomei; l’esecutore del testamento fu il nipote Francesco di Jacopo Tolomei, subentrato il 24 agosto dello stesso anno. Sano di Pietro, attivo almeno dal 1428, si formò probabilmente presso il Sassetta, pur senza raggiungerne i risultati più alti, e risentì dell’influenza del coetaneo Giovanni di Paolo, anch’egli operante a Siena. L’opera è oggi conservata e visibile al Museo Diocesano di Siena.
Il simbolo della Contrada del Drago a Siena è, naturalmente, il drago, richiamato in ogni elemento della contrada. Il percorso museale all’interno del Museo della Contrada del Drago, si snoda quindi attraverso diversi edifici situati a pochi passi l’uno dall’altro. La visita prende avvio dall’Oratorio, chiesa della Contrada, e prosegue nella Sala delle Vittorie, dove sono conservati i Drappelloni conquistati nei secoli. Si passa poi alla Fontanina del Drago, le cui acque servono ogni anno, durante la Festa Titolare, a battezzare i nuovi Dragaioli. La Galleria dei Costumi custodisce monture storiche e contemporanee, antiche bandiere, masgalani e i palii vinti dalla contrada.
La figura del drago, guida e emblema della contrada, è anche raffigurata su un medaglione all’ingresso della chiesa di Santa Caterina del Paradiso, all’angolo tra Piazza Matteotti e Via del Paradiso.
Il Trittico di Badia a Rofeno di Ambrogio Lorenzetti, si presenta come un complesso articolato su due registri, formato da sei tavole dorate e dipinte riferite all’artista, racchiuse entro una cornice lignea intagliata e policroma risalente ai primi decenni del Cinquecento. Nel registro inferiore domina la figura di san Michele Arcangelo, raffigurato come giovane guerriero nell’atto di affrontare un drago a sette teste; ai lati compaiono san Bartolomeo e san Benedetto, su pannelli di formato verticale. Al livello superiore, entro una tavola triangolare maggiore, trova posto la Madonna con il Bambino, inserita in un arco trilobato dorato, oggi parzialmente velato da un fondo verde; due piccoli triangoli laterali ospitano san Giovanni Evangelista e san Ludovico di Tolosa.
La particolare conformazione dell’insieme e le trasformazioni subite nel XVI secolo hanno alimentato un lungo dibattito sull’aspetto originario del polittico. Inizialmente assegnato a ignoti maestri senesi, fu De Nicola a ricondurlo ad Ambrogio Lorenzetti, ipotizzando interventi successivi che avrebbero modificato forma e proporzioni delle tavole. Altre letture, tra cui quella di Carli, suggeriscono una provenienza diversa dalla Badia di Rofeno e spiegano le alterazioni iconografiche in rapporto alle intitolazioni del complesso monastico. Le indagini condotte in occasione del restauro hanno escluso alcune ricostruzioni precedenti, confermando l’unità strutturale delle tavole superiori. L’opera è oggi conservata presso il Museo Civico di Palazzo Corboli ad Asciano (Siena) e attribuita quasi unanimemente ad Ambrogio Lorenzetti e bottega, nonostante alcune proposte alternative. La cornice monumentale, probabilmente opera di fra Raffaello da Brescia, integra motivi a grottesca, pinnacoli dorati e una predella decorata, creando un raffinato legame tra pittura trecentesca e intaglio rinascimentale.
Per lungo tempo attribuita a Giovanni d’Agnolo di Balduccio o a Parri di Spinello da Del Vita, e successivamente a una scuola fiorentina del secondo quarto del Trecento con richiami a Bernardo Daddi e a un ignoto pittore senese, oggi la tavola San Michele Arcangelo, viene riconosciuta da Miklòs Boskovits come opera di Buonamico di Martino, detto Buffalmacco. Probabilmente commissionata per la distrutta chiesa di Sant’Angelo in Archaltis, dove la Fraternita dei Laici possedeva una cappella, fu trasferita nella sede principale dell’istituzione, vicino all’omonima porta nell’area oggi occupata dalla fortezza. Il restauro del 1918, condotto da Domenico Fiscali per riparare i danni di un incendio (forse quello della biblioteca della Fraternita nel 1759), previde il trasferimento su nuovo supporto; gli interventi pittorici coprenti furono rimossi da Carlo Guido negli anni Ottanta.
L’opera è databile agli anni 1320-25, periodo in cui Buffalmacco lavorava ad Arezzo per la Cattedrale su invito del vescovo Tarlati, e probabilmente incontrava Andrea di Nerio. L’influenza dell’opera è testimoniata dalla scultura dell’arcangelo per la porta di Sant’Angelo in Archaltis, eseguita dal cosiddetto Maestro del San Michele, chiaramente derivata dal modello pittorico, seppur con proporzioni diverse.
Il polittico realizzato da Stefano di Giovanni di Consolo da Cortona, noto come Sassetta, risale al secondo quarto del XV secolo, tra il 1434 e il 1435. L’opera, eseguita su tavola e misura 134 × 244 cm, riunisce diverse scene sacre, tra cui la Madonna con Bambino e due angeli musicanti, San Nicola di Bari e l’Arcangelo Michele mentre uccide il drago ai suoi piedi, San Giovanni Battista e santa Margherita d’Antiochia, Angelo annunciante, Agnus Dei e Maria Vergine annunciata.
La qualità stilistica e le fonti bibliografiche ne confermano l’attribuzione a Sassetta, artista di spicco della pittura senese del Quattrocento. Originariamente collocato nella Chiesa di San Domenico a Cortona, il polittico è oggi conservato nel Museo Diocesano della stessa città, dove continua a testimoniare la raffinata fusione di spiritualità e poetica visiva tipica del maestro.
Bartolomeo della Gatta, nato come Pietro di Antonio Dei (Firenze, 1448 – Arezzo, 1502), fu pittore, miniatore, religioso e architetto. Operò soprattutto nella Toscana orientale, con un’attività intensa ad Arezzo e in vari centri del territorio aretino, tra cui Sansepolcro, Cortona, Castiglion Fiorentino e Marciano della Chiana. Sue realizzazioni sono presenti anche a Roma, dove collaborò alla decorazione della Cappella Sistina, e a Urbino.
La tavola a tempera e olio Arcangelo San Michele, oggi custodita nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino (Arezzo), proviene dall’antica Pieve di San Giuliano ed è datata 1480. L’immagine mostra l’Arcangelo Michele, patrono di Castiglion Fiorentino, nell’atto di trionfare sul drago che incarna il Male. Accanto alla figura celeste è raffigurata una giovane madre con un neonato: si tratta di Teodora, figlia di Lorenza Guiducci, committente dell’opera, e di Paolino Visconti, membro delle truppe milanesi presenti a Castiglion Fiorentino durante il conflitto con Firenze. La tavola rivela la perizia grafica e la vivacità cromatica che distinguono il lavoro di Bartolomeo della Gatta.
Allievo di Bicci di Lorenzo e collaboratore di Masaccio a Pisa, Andrea di Giusto, detto Andrea da Firenze, fu un pittore a cavallo tra tradizione gotica e influenze rinascimentali, noto anche come abile copista. Per questo i monaci olivetani del Monastero delle Sacca, vicino a Prato, gli affidarono la replica del celebre polittico di Lorenzo Monaco realizzato nel 1411 per Monteoliveto (oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze). Andrea ripropose fedelmente le figure principali con vivace cromia e minuzia, modificando alcuni volti, come la sostituzione di san Taddeo con santa Margherita. La Natività della predella ricorda le notturne ambientazioni di Lorenzo Monaco, mentre altri episodi mostrano l’influsso del Beato Angelico, tra cui l’Imposizione del nome a san Giovanni Battista, ricalcata da uno scomparto conservato a San Marco.
Seguono la Natività, i santi Placido e Mauro, la morte di san Benedetto e la vita di santa Margherita, che rifiutò l’amore del prefetto Olibrio e subì prigionia e decapitazione. Nelle tre cuspidi centrali Dio Padre benedicente è affiancato dall’angelo annunciante e dalla Vergine. Completato nel 1435, il polittico aprì ad Andrea un altro incarico prestigioso, il completamento degli affreschi della Cappella dell’Assunta, interrotti da Paolo Uccello. Il Comune di Prato acquistò il trittico nel 1870 dal Collegio Cicognini, dove era giunto nel 1775 dall’ex monastero olivetano di San Bartolomeo delle Sacca. Attualmente è conservato presso il Museo di Palazzo Pretorio.
La scultura, databile intorno al 1250 e collocata sopra l’unica porta della facciata dell’antica chiesa di San Michele in Cioncio a Pistoia, oggi dedicata a San Giuseppe, è documentata fotograficamente nella sua collocazione originaria dallo storico dell’arte Adolfo Venturi. È stata attribuita a un ignoto scarpellino, mentre altri ne evidenziano la qualità, parlando di una buona scuola pisana. Venturi la collega invece, insieme alle sculture della porta di San Pietro Maggiore, a un artista vicino a Guido da Como, autore intorno al 1250 del pulpito di San Bartolomeo in Pantano.
La maggior parte della critica successiva si riferisce invece a Guido da Siena. La raffigurazione di San Michele che uccide il Drago, realizzata in marmo e legno con intaglio, pittura e doratura, testimonia la diffusione in città del culto dell’Arcangelo.
Il Giudizio Universale del Camposanto Monumentale di Pisa è il brano più celebre del ciclo noto come Trionfo della Morte, attribuito a Buonamico Buffalmacco. Nel complesso, già parzialmente ricomposto con le scene delle Storie dei Santi Padri e dell’Inferno, emerge un’impostazione teatrale: a destra i dannati, a sinistra i beati, divisi dall’Arcangelo Michele. In alto, la Vergine e Cristo Giudice dominano l’intera composizione, affiancati dagli apostoli e da una schiera di angeli che sollevano gli strumenti della Passione e richiamano il senso ultimo della Redenzione.
Al centro dei dannati compare un Lucifero monumentale, alto il doppio della figura del Cristo. Incarna l’orgoglio, radice di ogni vizio, e appare come un drago verde, con corna e scaglie serpentine, nell’atto di divorare un dannato. L’immagine, un tempo accompagnata da iscrizioni esplicative, coinvolgeva lo spettatore, invitandolo a confrontare la propria vita con quanto raffigurato, in un percorso morale simile a quello reso celebre dalla Divina Commedia.
Nel Trecento le pareti del Camposanto si arricchirono di affreschi dedicati al rapporto tra Vita e Morte, eseguiti da Francesco Traini e dallo stesso Buffalmacco. Le loro opere tradussero in immagini le predicazioni del domenicano Cavalca e le visioni dantesche, particolarmente riconoscibili proprio nel Trionfo della Morte e nel Giudizio Universale.
La tavola a tempera conservata presso il Museo nazionale di Villa Guinigi di Lucca mostra San Michele nell’atto di affondare la lancia nel drago ai suoi piedi. La creatura presenta un corpo verde acqua e ali con cartilagini evidenziate da rialzi a biacca. L’arcangelo indossa una veste azzurra con pieghe rese dalla stessa tecnica; le ali esterne riprendono il tono della veste, mentre quelle interne sfumano dal quasi bianco superiore al bruno cupo inferiore, con piume sottolineate da tocchi più scuri. Due bande decorative, orizzontale e verticale, appaiono in bruno cupo, colore che ritorna nella fibula che chiude il manto rosaceo.
L’opera, di esecuzione raffinata, fu attribuita da Mario Bucci a Francesceso Traini su indicazione di Roberto Longhi. La datazione più convincente la colloca verso la metà del quinto decennio, in relazione al polittico pisano con la gloria di San Domenico. La tavola riflette ancora l’influsso di Simone Martini, soprattutto nelle analogie con la produzione avignonese del maestro e di Giovannetti. Angelo Tartuferi propone un avvicinamento cronologico al Santo vescovo già a Santa Felicita. Probabilmente presente in lucchesia sin dalle origini, il dipinto dovette influenzare pittori attivi nell’area come Angelo Puccinelli (De Marchi 1998) e figure vicine al cosiddetto maestro di San Frediano. Proveniente dal convento dell’Angelo sui monti di Brancoli, passò temporaneamente al Museo di San Matteo per poi giungere a Villa Guinigi, sede più coerente con la sua origine. Dalla chiesa di Tramonte provengono anche la tavola d’altare di Priamo della Quercia e i laterali di Gherardo Starnina.
Il leone stiloforo in lotta contro un drago bicefalo è scolpito in pietra calcarea dalla bottega di Guidetto e dalla sua bottega tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Appartenente alla scuola italiana con influssi lombardi, l’opera si colloca nella navata centrale, ai limiti del presbiterio, della Pieve di Santa Maria Assunta a Diecimo, nel territorio di Borgo a Mozzano (Lucca). La produzione di Guidetto, tra le più alte espressioni della scultura toscana primo duecentesca, si distingue per il rinnovamento dei pulpiti, che rielabora modelli precedenti come quelli grandiosi di Guglielmo per Pisa, adattandoli a ideologie e linguaggi plastici lombardi.
Le fiere di Guglielmo, dinamiche e vivaci, cedono qui a una monumentalità più statica, con un uso intenso dello scalpello. Il leone, dalla criniera ordinata a riccioli, appare muscoloso e saldo sulla base, mentre il drago bicefalo (a due teste) reagisce mordendogli il labbro inferiore e pungendolo alla coscia. Entrambi i leoni, insieme alla figura reggileggio di Isaia, provenivano dal pulpito originario smembrato nel 1675, la cui esistenza è documentata nel testamento di Bartolomeo Proficati di Lucca del 1348.
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L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.Per inviare il commento devi
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