Sul verdetto di Bristol, che cambia la storia dei monumenti pubblici


Sono stati giudicati non colpevoli i quattro imputati per l'abbattimento del monumento di Edward Colston a Bristol. Ecco perché questo verdetto cambia la storia dei monumenti pubblici.

“Sono stati necessari 16 cittadini normali di Bristol - 4 indagati innocenti e 12 giurati - per porre fine a un secolo di intransigenza e ritardi per mano di una sequenza di consigli comunali, sindaci eletti e la Society of Merchant Venturers. Nessun monumento ai crimini contro l’umanità”. Probabilmente il tweet con cui i Massive Attack, la band di fama internazionale originaria di Bristol, celebra la fine del processo ai “Colston 4”, è la sintesi perfetta del senso di sollievo che la larga maggioranza della città ha percepito alla lettura della sentenza che il 5 gennaio, andando decisamente contro i casi precedenti (la legge inglese prevede fino a 10 anni di carcere per chi abbatte o danneggia monumenti), ha assolto i quattro accusati di aver abbattuto e trascinato a mare la statua di Edward Colston il 7 giugno 2020.

Si tratta di un verdetto giunto al termine di un processo per certi versi surreale, che avevo sintetizzato qui, in cui la linea della difesa è stata quella di mettere sotto accusa l’amministrazione cittadina (che infatti si è difesa, dopo la sentenza, dalle accuse di poco impegno). Amministrazione che per decenni aveva “deciso di non decidere” riguardo la statua e le varie intitolazioni a Edward Colston, contestate da una parte crescente della cittadinanza: come spiegato altrove, non un mercante di schiavi, ma uno degli ideatori della tratta transatlantica che ha costruito la sua fortuna sul commercio di schiavi, per poi essere trasformato in una sorta di santo laico dalla Society of Merchant Venturers, la società dei mercanti di Bristol, alla fine del XIX secolo, dopo l’abolizione della schiavitù. Un processo in cui i toni si sono alzati man mano, in cui il fatto di lasciare in piazza la statua così a lungo (che, lo ricordo, descriveva il mercante come “uno dei più saggi e virtuosi figli della città di Bristol”) è stato definito un “crimine d’odio”, in cui Colston è stato definito un “fottuto razzista”, e in cui gli accusati hanno rivendicato il gesto (“un atto d’amore alla città di Bristol”) ritenendolo non violento, necessario e appoggiato dalla popolazione

Il momento in cui la statua di Edward Colston viene gettata nelle acque del porto di Bristol
Il momento in cui la statua di Edward Colston viene gettata nelle acque del porto di Bristol
L'esultanza dei Colston 4 dopo l'assoluzione
L’esultanza dei “Colston 4” dopo l’assoluzione

La sentenza è arrivata con il voto di una giuria popolare (i 12 giurati non dovevano avere nessun tipo di rapporto con gli indagati), non all’unanimità ma con una maggioranza di 11-1, quasi a fotografare come un verdetto simile non possa non essere divisivo. Sentenza che probabilmente solo una giuria popolare composta di bristoliani poteva emettere, data l’esasperazione cittadina nei confronti di quella statua e quella celebrazione pubblica del personaggio. Ma è un verdetto che rischia di avere, è inutile negarlo, ripercussioni anche pericolose fuori dalla città. Nel Regno Unito, dove le sentenze dei processi “fanno la legge”, già se ne parla: la sentenza ha cambiato la legge? Per ora è difficile dirlo, le condizioni di Bristol e di quella singola statua sono così uniche che non si deve immaginare alcuna “autorizzazione ad abbattere” da parte dei tribunali inglesi. Ma la BBC già parla di “pietra miliare” nella storia della schiavitù britannica, e giornali e politici, ognuno secondo le proprie sensibilità, lanciano allarmi o si pongono domande.

Quattro persone che hanno, deliberatamente, portato con sé una corda, hanno deciso (nel mezzo di una folla festante) di legarla intorno a un bene culturale di proprietà pubblica, e poi hanno deciso di farlo rotolare fino al porticciolo vicino “perché a nessuno venisse in mente di rimetterlo sul plinto” sono state assolte perché, come diremmo in italiano, il fatto non costituisce reato, o come hanno spiegato gli avvocati, perché secondo la giuria “una condanna per la rimozione di questa statua, che glorificava un commerciante di schiavi coinvolto nella riduzione in schiavitù di oltre 84.000 uomini, donne e bambini neri, non sarebbe stata proporzionata”. Come sintetizzato dallo storico David Olusoga, “una giuria inglese ha concluso che il danno più grave è che la statua di un assassino di massa sia stata capace di rimanere in piazza per 125 anni, non che la stessa sia stata abbattuta nell’estate 2020”. La portata storica è evidente, ma anche il rischio di emulazione: dove si pone il confine? Quante centinaia di persone devono esserci, a tirare quella corda, perché non sia reato? Quanti decenni di petizioni ignorate? Quante intitolazioni contestate? Per ora non si sa, e nonostante i media appaiano meno allarmati ora rispetto al giugno 2020 (è molto più facile contestare una folla che appare irrazionale e inferocita, piuttosto che contestare un tribunale che dopo un lungo processo stabilisce che la stessa folla non era né irrazionale né inferocita, ma solo esasperata), ci sono diverse statue nel Regno Unito che tremano, a partire da quella di Cecil Rhodes a Oxford.

Legge britannica a parte, se dopo l’abbattimento della statua in tutta Europa si è temuto un “effetto domino” che di fatto non c’è stato, la sentenza apre a una riflessione sul rapporto, nelle democrazie europee occidentali, tra la comunità cittadina e i monumenti pubblici. Fino a che punto a una comunità può essere imposta una statua, o un monumento, se questa la rigetta? In Italia non esistono casi estremi come quello di Bristol, ma proteste continuative contro monumenti sì, per esempio contro quello di Indro Montanelli a Milano o contro la Violata di Ancona, monumenti immediatamente rigettati dalla comunità ma difesi dalle amministrazioni. Non c’è una risposta a quella domanda, e la legge europea, che non agisce per giuria popolare, difficilmente potrà vedere strappi simili a quello registrato a Bristol. Ma ormai da un biennio il problema si pone con sempre più forza, come dimostra il caso recente di Padova in cui anche un’assenza ha scatenato un feroce dibattito in difesa dell’esistente. 

Dopo l’assoluzione, i quattro accusati di Bristol hanno voluto sottolineare, in una dichiarazione ufficiale, che “nel tempo impiegato da questo processo per arrivare in tribunale, le istituzioni che hanno difeso formalmente Colston si sono scusate per averlo fatto, i luoghi, le scuole e i luoghi a lui associati hanno cambiato nome e l’opinione pubblica ha compiuto passi avanti. La storia ha giustificato l’abbattimento. Ora tocca a tutti noi affrontare l’eredità della schiavitù e il razzismo sistemico che ci ha lasciato". Non è cancel culture, è spinta propulsiva ad affrontare davvero il passato che troppo spesso amiamo vedere cristallizzato e acritico nelle nostre strade. E difficilmente, dopo questo processo, la spinta si fermerà. Il che è un problema, un rischio, ma c’è la necessità di affrontarlo in tutta la sua complessità.


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.



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