La dolcezza del mare, le spiagge, il Mediterraneo. La pittura plurale di Moses Levy


Recensione della mostra “Moses Levy. ‘Ritornerà sul mare la dolcezza’”, a Viareggio, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, dal 3 febbraio al 15 settembre 2019.

Forse non è un azzardo sostenere che se oggi, nel nostro immaginario, s’è formata una certa immagine della Versilia (un’immagine fatta d’eleganti passeggiate sui lungomare, di vaste spiagge punteggiate d’ombrelloni di tutti i colori, di serate tra locali alla moda, di quiete all’ombra delle pinete), parte del merito dev’essere ascritta al pittore che più d’ogni altro celebrò questa Versilia: Moses Levy (Tunisi, 1885 - Viareggio, 1968). Fu sul mare di Viareggio che Levy trovò la propria terra d’elezione, lui ch’era africano di nascita, inglese per cittadinanza, italiano per cultura, ebreo per religione e cosmopolita per mentalità, e la sua storia, artistica e personale, si dipanò proprio nel momento in cui, tra Forte dei Marmi, Pietrasanta, Viareggio e località limitrofe, prendevano forma l’istituto della vacanza al mare, il rito collettivo del fine settimana in spiaggia, la celebrazione del sabato notte nei caffè e nelle discoteche (che allora si chiamavano dancing). Di quella Versilia e di quel modo di vivere, Levy fu il più fortunato e longevo interprete. Ma sarebbe riduttivo inquadrare Levy nel cliché che da sempre lo accompagna, quello di pittore delle spiagge: la sua fortuna, che fu certo più larga in vita che dopo, è legata anche alle continue evoluzioni che, a livello formale, la sua pittura conobbe (Levy fu un attento indagatore e un acuto osservatore delle tendenze artistiche a lui contemporanee: nella sua pittura si mescolano spunti, suggestioni e rimandi di respiro europeo, anche perché Levy soggiornò spesso all’estero), oltre che alla varietà dei temi che lo portarono a restituirci un’immagine dell’Africa scevra dell’esotismo che spesso la offuscava, oppure a cogliere, segnatamente a inizio carriera, una Toscana più intima e meno nota, fatta soprattutto di lavoro nelle campagne, o ancora a dar conto dei suoi numerosi viaggi tra le due sponde del Mediterraneo.

Levy è oggi protagonista di una nuova retrospettiva che la sua Viareggio gli dedica: Moses Levy. “Ritornerà sul mare la dolcezza” è il titolo della rassegna che porta più d’un centinaio di opere, quasi tutte da collezioni private, alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea della città toscana che, tradizionalmente, non fa parte della Versilia storica ma ch’è entrata, a furor di popolo, a far parte della Versilia comunemente intesa. Il titolo è tratto dall’Arietta settembrina di Alfonso Gatto, altro personaggio uso a frequentare a lungo queste zone. La lirica è una sorta di ode agli ultimi scorci d’estate che lasciano il campo all’autunno: del resto, dipingere il mare equivale anche a dipingerlo quando tutti se ne sono andati e si prova la stessa sensazione che si ha quando s’è rimasti da soli dopo ch’è finita una festa. La poesia di Levy è anche quella del mare di fine estate, quando l’aria diventa più fredda ma dona all’atmosfera colori più vividi, quando le spiagge sono oramai quasi deserte, quando sul mare e sulle campagne cala il silenzio: “Ritornerà sul mare / la dolcezza dei venti / a schiuder le acque chiare / nel verde delle correnti. / Al porto, sul veliero / di carrubbe l’estate / imbruna, resta nero / il cane delle sassate. / S’addorme la campagna di limoni e d’arena / nel canto che si lagna / monotono di pena. / Così prossima al mondo / dei gracili segni, / tu riposi nel fondo / della dolcezza che spegni”.

Com’è lecito attendersi, l’esposizione viareggina, curata con scrupolo e rigore da Alessandra Belluomini Pucci, celebra il racconto del mare secondo Moses Levy, in ogni stagione, in tutte le sue possibili declinazioni, lungo tutto l’arco della sua carriera. Ma non è questo l’unico intento. Volendo attribuire due meriti particolari alla mostra, si potrebbe partire col fatto che quella di Viareggio è una delle più complete monografiche di sempre su Moses Levy, artista che, peraltro, vive una situazione molto particolare, se non unica: gli vengono dedicate diverse mostre, tanto che, inclusa la mostra della GAMC, si contano ben tre monografiche negli ultimi vent’anni, ma è poco rappresentato nei musei, a dispetto della fama che conobbe e, soprattutto, del fatto che in passato fosse sostenuto da una critica di prim’ordine. Il secondo sta invece nella capacità, da parte della rassegna di Viareggio, d’approfondire il Moses Levy dal dopoguerra fino agli estremi della sua attività, un periodo poco affrontato dalla critica: per esaminare questa parte della sua produzione interviene anche un saggio in catalogo redatto da Francesco Bosetti e teso a far nuova luce sull’ultimo ventennio della carriera del pittore. Se ne può aggiungere anche un terzo, altrettanto considerevole: nel catalogo è pubblicato un carteggio inedito tra Levy e Carlo Ludovico Ragghianti (a cura di Paolo Bolpagni, direttore della Fondazione Ragghianti), utile per far sì che il lettore s’avveda del peso che Levy ha avuto quand’era in vita e delle reti culturali nelle quali era inserito.

Sala della mostra Moses Levy. Ritornerà sul mare la dolcezza
Sala della mostra Moses Levy. “Ritornerà sul mare la dolcezza”


Sala della mostra Moses Levy. Ritornerà sul mare la dolcezza
Sala della mostra Moses Levy. “Ritornerà sul mare la dolcezza”


Sala della mostra Moses Levy. Ritornerà sul mare la dolcezza
Sala della mostra Moses Levy. “Ritornerà sul mare la dolcezza”

L’avvio è però dedicato agli esordî: nato a Tunisi nel 1885, Levy si trasferì ben presto, assieme a tutta la famiglia, a Firenze, dov’era già nel 1895 (e nello stesso periodo la famiglia aveva già preso a frequentare i lidi viareggini). La permanenza nella Toscana litoranea gli diede modo d’entrare in contatto con Lorenzo Viani (Viareggio, 1882 - Lido di Ostia, 1936), la cui amicizia incise sulla sua arte probabilmente più degli studî compiuti dapprima al Regio Istituto di Belle Arti di Lucca (fu qui che Levy conobbe Viani), quindi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove prese lezioni alla Scuola Libera del Nudo di Giovanni Fattori. Le prime attestazioni note della sua arte (tolte le precoci prove adolescenziali) rimandano a quel clima d’intenso primitivismo che permeava la cultura artistica della Versilia d’inizio Novecento e ch’ebbe i suoi protagonisti in Lorenzo Viani, Alberto Magri, Adolfo Balduini, Spartaco Carlini. Anche nel primo Levy si coglie la volontà di proporre un’arte antiaccademica, quasi popolare, volta al recupero d’una sorta di purezza perduta. Anche Levy faceva largo utilizzo dell’incisione, che fu tra le principali modalità espressive degli espressionisti italiani, specialmente di quelli che operarono nell’area costiera della Toscana (com’è stato spesso notato, l’incisione, e soprattutto la xilografia, col suo segno essenziale, ruvido e aspro, ben si prestava alle istanze di semplificazione dell’espressionismo italiano). Ma, al contrario d’un Magri o d’un Balduini che ricercavano le loro radici nell’arte medievale e in quella dei bambini, lo sguardo di Levy era più vasto: La vecchia contadina, scrive Belluomini Pucci, “restituisce l’intensità stilistiche della produzione belga di Meunier e Laermas, con connotazioni mitteleuropee nei particolari del costume popolare, e con la soavità illustrativa dello svedese Carl Larsson”. Levy rimaneva però artista inquieto e curioso: mentre produceva opere come la summenzionata Vecchia contadina o come La vecchia (opera che, fa notare Belluomini Pucci, richiama la lezione di Millet e quella di van Gogh: nella fattispecie, verrebbe d’aggiungere, quella del van Gogh del Borinage), e mentre collaborava con L’Eroica, la rivista pubblicata alla Spezia che fu tra i principali veicoli di diffusione dell’espressionismo italiano, dipingeva anche un’opera come Bambine in giardino che, pur non rinunciando alle linee tipiche dei fauves, guardava smaccatamente al Nomellini versiliese (quello, per intenderci, dei Baci di sole, opera non in mostra: purtroppo, all’esposizione della GAMC non ci sono opere di confronto).

Nel 1916, Levy cedette all’avvocato Luigi Salvatori e al letterato Enrico Pea le opere che si trovavano nel suo studio di Rigoli, villaggio alle porte di Pisa: s’apriva così una nuova fase nella sua arte, all’insegna della pittura e del colore. Protagonista principale di questi anni è la vita in città, interpretata con una sintesi che, declinata in diverse accezioni lungo tutta la carriera dell’artista, diverrà comunque l’elemento più riconoscibile della sua arte. Il Levy di questi anni fa tesoro della lezione dei macchiaioli, ma la attualizza con forme semplificate che portano a un più alto livello d’astrazione le sue scene. Si guardino Folla di sera sul lungomare di Viareggio, Tram n. 7 e Donne al caffè, quest’ultima opera inedita: sono dipinti in cui si manifesta una cesura netta rispetto al Levy dei primi anni Dieci, nei quali si registra una svolta che recide quasi del tutto i legami con le passate esperienze espressioniste, e nei quali si palesa financo l’esperienza dei futuristi. È un’arte che mira a suggerire un’idea, un momento: quella di Levy non è pittura descrittiva, è pittura d’atmosfera. In un suo saggio del 1958, Alessandro Parronchi, riferendosi proprio alle opere di questi anni, ha scritto che Levy, staccandosi dall’espressionismo di artisti come Magri e Viani, “rimane [...] pittore del momento presente, della festa dei colori e delle luci che ancora accolgono la grazia dell’arabesco, il giuoco dei riflessi e dei barbagli, le accentuazioni falcate del ritmo”. Quella di Levy è, per Parronchi, “un’arte stilisticamente sorvegliatissima” che il pittore “non sacrifica mai compltamente all’istinto”: Levy “compone, equilibra, in una misurata e penetrante osservazione del vero”.

Moses Levy, La vecchia contadina (1906; china, bistro e inchiostro su carta, 315 x 310 mm; Viareggio, Collezione privata)
Moses Levy, La vecchia contadina (1906; china, bistro e inchiostro su carta, 315 x 310 mm; Viareggio, Collezione privata)


Moses Levy, La vecchia (1907; acquaforte, 345 x 155 mm; Viareggio, GAMC - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani)
Moses Levy, La vecchia (1907; acquaforte, 345 x 155 mm; Viareggio, GAMC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lorenzo Viani”)


Moses Levy, Bambine nel giardino (1909; olio su tela, 83 x 105 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Bambine nel giardino (1909; olio su tela, 83 x 105 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Il tram n. 7 (1918; olio su tavola, 33 x 41 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Il tram n. 7 (1918; olio su tavola, 33 x 41 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Donne al caffè (1918; olio su cartone, 21 x 21 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Donne al caffè (1918; olio su cartone, 21 x 21 cm; Collezione privata)

La terza sala della mostra s’apre con un gruppo di sei deliziosi inediti: sei tele di piccolo formato, tutte risalenti al 1923, che aprono al “Levy balneare”, cui è naturalmente dedicata buona parte della rassegna. Il filone delle spiagge, al quale l’artista si dà per buona parte degli anni Venti, rappresenta uno dei più felici della sua carriera e, come s’è anticipato, è quello per il quale probabilmente è più noto al pubblico. La mareggiata, opera del 1920 dalla lunga storia espositiva, ci porta direttamente sulla battigia durante una giornata di mare mosso: lo spumeggiare delle onde è reso con tocchi di colore morbidi e densi, le figure costruite con contorni netti, lo spazio è anch’esso semplificato su fasce orizzontali nettamente distinte in zone cromatiche. Un modo di dipingere che ricorda quasi un mosaico: è questa la cifra che siamo soliti assegnare, d’impatto, a Levy. Dobbiamo immaginarci l’artista mentre, com’era solito fare, coglie la scena dal vero: i bagnanti che si tuffano, il bagnino che entra in mare col pattino, le madri che vigilano sui loro bambini che sguazzano tra le onde. La fotografia d’una giornata estiva qualsiasi sul litorale apuo-versiliese. Il Meriggio al mare del 1921 segna un’ulteriore cambio di prospettiva, destinato tuttavia ad avere poco seguito: le forme diventano turgide e nette, le campiture monocromatiche e con poche variazioni, le figure quasi irreali (Belluomini Pucci vi coglie riferimenti all’arte di Fernand Léger, che i pittori italiani stavano cominciando ad apprezzare in quegli anni). Più o meno sulla stessa falsariga è l’opera-simbolo della mostra, la Donna con l’ombrellino, che sviluppa un ulteriore motivo dell’estate al mare: una donna solitaria che prende il sole, forse a fine stagione, sdraiata sulla riva, in compagnia del suo cane. Qui, l’arte di Levy assume connotazioni più liriche e delicate. Cambiano i modi, ma rimane l’assunto di fondo: cantare quella “poesia al sole marino” (così Ragghianti) alla quale “sempre si ricongiunge” la sua arte.

Dalle spiagge della Versilia si passa poi ai deserti del Nord Africa: Levy tornava spesso in Tunisia (nel 1923 organizzò nella città natale una grande mostra con trentanove incisioni e cinquantaquattro dipinti, e ancora nel 1924, a seguito della scomparsa della madre, lasciò Viareggio per tornare a Tunisi dove si stabilì per qualche tempo, per poi tornarvi a fase alterne almeno fino al 1945), e negli anni Trenta, nella capitale del paese africano, fondò anche un Groupe des Quatre assieme ad altri tre artisti di diverse estrazioni e provenienze (Pierre Boucherle, Antonio Corpora e Jules Lellouche), tutti però animati dalla visione cosmopolita dell’arte e del mondo. La produzione di opere a soggetto africano aumentò a partire dal soggiorno del 1924: sono dipinti che conservano la loro anima fauve e che rimangono privi di qualunque interesse per l’esotico. Si registrano semmai alcuni cambiamenti nel rapporto tra figure e spazio. Due arabe con il volto coperto è una delle opere più significative di questa fase: in questo dipinto, ha scritto Francesca Cagianelli nel 2009, Levy propone “il modulo della doppia figura, stavolta con rinnovata ambizione ritmica, in virtù della quale i bianchi mantelli equivalgono a campiture semplificate di esito pressoché astratto, attraverso le quali solo i penetranti occhi bistrati ripropongono gli stereotipi di una femminilità emblematica quanto selvaggia”. L’astrazione si fa quasi geometrica nelle opere che catturano scorci di paesaggio tunisino, come ne Il santo, che ci restituisce in primo piano la tomba di un marabout, una sorta di santo islamico venerato dalle comunità locali (l’albero piantato di fianco al piccolo mausoleo assume la forma d’un ovale quasi perfetto, il cane in controluce sulla sinistra è nient’altro che una silhouette dipinta a monocromo, i profili delle abitazioni sono poligoni tracciati in maniera netta e pulita che s’inseriscono nello spazio, e la costruzione dell’intera composizione è sempre basata sull’allineamento di fasce di diversi colori), o come La casa della sposa, dove torna la prospettiva obliqua che Levy aveva già sperimentato nei suoi quadri viareggini.

Durante gli anni Trenta s’intensificarono i viaggi, e l’arte di Levy divenne quasi un diario delle sue esperienze in Francia, in Spagna, a Venezia, nell’Europa settentrionale, nell’Africa del nord (dove l’artista si mosse tra Tunisia, Marocco e Algeria). La semplificazione che Levy aveva raggiunto negli anni tunisini riecheggia in diversi suoi lavori di questo periodo, a partire da un capolavoro come San Roque, con la sua infilata di case bianche al bordo d’una strada che digrada verso il mare, mentre sullo sfondo l’agglomerato del borgo andaluso par quasi una teoria di scatole sovrapposte. Presto però Levy avrebbe innestato sulla sua arte un’inedita immediatezza che costituisce l’elemento saliente della produzione di questo periodo: proprio i dipinti spagnoli realizzati a partire dal 1931-1932 sono quelli in cui tali caratteristiche s’apprezzano meglio. Quel senso dell’improvvisazione istantanea di cui parlava Ragghianti a proposito di questa produzione porta l’artista a dipingere senza preparazione, in via stenografica (in questi anni la sua pennellata, scriveva Ragghianti, era uno “stenogramma impulsivo”), arrivando a una “totale, progressiva abolizione di distanza dal suo tema” (così scriveva Gianfranco Bruno nel catalogo della mostra di Seravezza del 2002): questa maniera avrebbe presto investito le sue vedute di spiaggia dando luogo a scene molto più convulse e inquiete di quelle realizzate negli anni Dieci e Trenta (ne sono chiari esempî i Bagnanti e i Bagnanti con cigni), pur non venendo meno quella joie de vivre che connaturava le sue modalità espressive. Vera acmé di queste sensazioni è probabilmente la Passeggiata sotto le palme, non solo perché assomma molte delle riflessioni tecnico-stilistiche dell’artista, ma anche perché è tra i più alti momenti di quella “mitopoiesi della vita estiva viareggina” di cui Riccardo Mazzoni parla nel suo saggio a catalogo (e alla quale Levy, come detto in apertura, contribuì in maniera sostanziale), e ci trasmette l’immagine d’una Viareggio dal sapore onirico, che trasfigura l’immaginario dell’artista, legatissimo alla sua Tunisia, in un lungomare affollato e festoso, lungo il quale corrono quelle palme che il pittore amava perché gli ricordavano la sua terra natia, e costituiscono una presenza costante nei suoi dipinti “africani”.

Moses Levy, le sei tele inedite della collezione Moretti
Moses Levy, le sei tele inedite della collezione Moretti


Moses Levy, Spiaggia e Apuane (1923; olio su cartone, 9,5 x 11,5 cm; Collezione Moretti)
Moses Levy, Spiaggia e Apuane (1923; olio su cartone, 9,5 x 11,5 cm; Collezione Moretti)


Moses Levy, La mareggiata (1920; olio su tela, 60 x 120 cm; Collezione privata)
Moses Levy, La mareggiata (1920; olio su tela, 60 x 120 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Meriggio al mare (1921; olio su tela, 75 x 115 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Meriggio al mare (1921; olio su tela, 75 x 115 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Donna con ombrellino e cane sulla spiaggia (1921; olio su cartone, 21 x 31,5 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Donna con ombrellino e cane sulla spiaggia (1921; olio su cartone, 21 x 31,5 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Il Santo (1925; olio su cartone, 46 x 62 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Il Santo (1925; olio su cartone, 46 x 62 cm; Collezione privata)


Moses Levy, San Roque (1930; olio su cartone rintelato, 70 x 102 cm; Collezione privata)
Moses Levy, San Roque (1930; olio su cartone rintelato, 70 x 102 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Spagna (1930; olio su tela applicato su cartoncino, 32,5 x 46,5 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Spagna (1930; olio su tela applicato su cartoncino, 32,5 x 46,5 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Spagna, dettaglio (1932; olio su cartone, 50 x 70 cm; Viareggio, Collezione privata)
Moses Levy, Spagna, dettaglio (1932; olio su cartone, 50 x 70 cm; Viareggio, Collezione privata)


Moses Levy, Bagnanti (1933; olio su cartone, 26,5 x 21,5 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Bagnanti (1933; olio su cartone, 26,5 x 21,5 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Bagnanti con cigni, dettaglio (1933; olio su cartone, 38 x 46 cm; Viareggio, Collezione privata)
Moses Levy, Bagnanti con cigni, dettaglio (1933; olio su cartone, 38 x 46 cm; Viareggio, Collezione privata)


Moses Levy, Passeggiata sotto le palme (1932; olio su tela, 70 x 100 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Passeggiata sotto le palme (1932; olio su tela, 70 x 100 cm; Collezione privata)

Le ultime sale della rassegna della GAMC sono dedicate al nodo dell’ultimo Levy, che la mostra intende contribuire a risolvere. Colpito nel 1938 dalle leggi razziali, il pittore dovette abbandonare l’Italia per trovare rifugio dapprima a Nizza, quindi in Tunisia: sarebbe rientrato in Italia soltanto alla fine della guerra, senza però smettere di rimanere in rapporto con i suoi amici. Al suo ritorno, avrebbe proseguito intensamente la propria attività, senza mai smettere d’esporre (fu anche alla Biennale di Venezia del 1950: si trattò dell’ultima volta che prese parte alla mostra d’arte internazionale, arrivando così a contare ben dieci partecipazioni, la prima delle quali nel 1905 a soli vent’anni, talento assai precoce), continuando a dividersi tra Italia e Tunisia, dove fu tra i principali animatori del Salon Tunisien, e concentrando le sue esposizioni personali soprattutto nella sua Toscana. Come detto, Francesco Bosetti dedica un approfondito saggio al Moses Levy dopo il 1945, constatando che l’ultimo ventennio dell’attività del pittore ha suscitato nella critica un interesse scarso, malgrado la sua intensa attività (che comunque, per quanto attenta, non si mantenne sugli stessi livelli di originalità di quella tra le due guerre) che si sostanziò in un gran numero d’opere prodotte in questo torno d’anni e, soprattutto, in una altrettanto intensa attività espositiva. Le ragioni della poca attenzione nei suoi confronti vengono individuate in diversi fattori: la sua mancanza di rapporti con i principali centri culturali del dopoguerra (se si eccettuano alcuni casi sporadici, come la partecipazione alla già citata Biennale di Venezia del 1950, che comunque non ebbe alcun effetto sulla sua fortuna), il fatto che Levy non avesse legami con i grandi mercanti e galleristi, il suo vivere in periferia (si divise tra Tunisi e Viareggio, senza dimenticare comunque Firenze, dove aveva uno studio: ma la frequenza non era costante). Diretta conseguenza fu la scarsa considerazione da parte dei critici coevi (tolte, anche in questo caso, poche voci isolate). Così, nota Bosetti, gli studiosi si sono assestati su posizioni che non hanno sufficientemente approfondito il Levy del dopoguerra, spesso consegnandolo a un’immagine quasi stereotipata: “manca”, sottolinea Bosetti, “un’analisi reale, scientifica e di sistema che inserisca con vera coerenza storica ed ancor prima estetica l’ultimo ventennio dell’opera levyiana, nel totale della produzione e dell’esperienza dell’autore”.

La pittura dell’ultimo Levy viene dunque sottoposta a un’inedita analisi che non intende arrivare a conclusioni definitive: semmai, per sommi capi, sembra porsi l’obiettivo d’aprire una discussione. Il tema della veduta balneare tornava in auge negli ultimi anni dell’attività di Levy, anche se con nuove declinazioni: per esempio, alcune opere come Cavalli sul mare, col suo rievocare De Chirico, sembrano aprire alla metafisica. Tra i soggetti prediletti rimangono poi gli scorci della Tunisia, le vedute di Venezia, quelle delle città francesi, anche se s’assiste a un rinnovato interesse per la figura umana, soprattutto nella produzione tunisina. Sul piano stilistico, impossibile non dar conto della svolta in senso astratto che Levy imprime alla sua arte a partire dalla fine degli anni Quaranta: certo, non tutta la sua produzione di quel periodo s’inserisce in questo filone (Moses Levy è, del resto, artista molto difficile da classificare ed etichettare, anche per il fatto che quando imbocca una strada non smette di seguirne un’altra e non rivolge tutte le sue attenzioni verso un’unica direzione), ma si tratta comunque di ricerche che aprono a una nuova fase di sperimentazione. Sono studî “nei quali la scomposizione della figura, la modulazione del reale anche in senso cubista, la frammentazione della stessa traccia cromatica”, sottolinea Bosetti, “denunciano un rovello, un’indagine sulle possibilità del segno, che si traduce nella pittura posteriore in riferimenti, a ben vedere, assai presenti”. In mostra ce n’accorgiamo da opere come Ombrelloni e figure, esposto vicino a un acquerello che probabilmente ne costituisce uno studio preparatorio. Altra opera significativa è il Venditore di uccelli, opera del 1948 in cui la ricerca sull’astrazione investe la figura del protagonista giungendo alle sue conseguenze più estreme. Negli anni in cui in Italia andavano intensificandosi le ricerche sulla pittura del segno, Levy, malgrado fosse a fine carriera, dimostrava d’avvertire l’eco di quanto gli accadeva attorno.

Moses Levy, Cavalli sul mare (1946; olio su tela, 60 x 90 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Cavalli sul mare (1946; olio su tela, 60 x 90 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Ombrelloni e figure (1950; olio e tempera su faesite, 50 x 61 cm; Collezione privata)
Moses Levy, Ombrelloni e figure (1950; olio e tempera su faesite, 50 x 61 cm; Collezione privata)


Moses Levy, Ombrelloni e figure con il suo acquerello
Moses Levy, Ombrelloni e figure con il suo acquerello


Moses Levy, Venditore di uccelli (1948; olio su faesite, 73 x 53 cm; Collezione Angemi)
Moses Levy, Venditore di uccelli (1948; olio su faesite, 73 x 53 cm; Collezione Angemi)

Dalla mostra della GAMC di Viareggio emerge un ritratto di Levy che corrisponde a quello sinteticamente affrescato da Bosetti: un artista che “percorre un arco esperienziale irripetibile, raro, fuori da ogni concetto di immobilismo di tecniche, di linguaggio, di temi e di luoghi, pur immerso straordinariamente (e con straordinaria sensibilità e concretezza) nella cultura del Secolo Breve”. Pur senza opere di altri artisti che avrebbero fornito un ulteriore contesto (anche se è necessario sottolineare che la rassegna viareggina ha un vantaggio in più rispetto alle precedenti monografiche su Levy: si tiene alla GAMC dove, di fatto, il contesto è già in gran parte presente, dacché il visitatore può conoscere da vicino, per esempio, la figura di Lorenzo Viani, o quella del figlio di Levy, Nello, che ne raccolse l’eredita), il percorso immaginato da Alessandra Belluomini Pucci si distingue per la sua completezza, per la presenza di diversi inediti, per la sua apertura a nuove prospettive di ricerca sull’arte di Levy, artista ancora piuttosto sottovalutato. Il catalogo, composto dai saggi della curatrice, dei già menzionati Bolpagni, Bosetti e Mazzoni, e di Marzia Ratti che prende in esame gli anni in cui Levy collaborò con L’Eroica di Ettore Cozzani, si distingue per la sua capacità di tratteggiare in maniera sintetica (ma rigorosa e con ampio ricorso alle fonti coeve) un profilo dell’artista denso e completo, forte anche di documenti finora mai pubblicati.

È infine necessario addurre un’ultima e importante considerazione. La personalità artistica di Levy, come s’è visto, era frutto dell’incontro di diverse culture. È stato spesso sottolineato come Levy, per quanto si considerasse “pittore italiano, anzi toscano” malgrado la cittadinanza inglese (così in una delle lettere inedite a Ragghianti pubblicate da Paolo Bolpagni), sia stato artista dall’identità plurale, nonché portavoce d’un mondo ampio, aperto, inclusivo, votato alla molteplicità, nel quale il mare così amato, suo orizzonte, diventa non soltanto luogo in cui trascorrere momenti piacevoli, ma anche metafora di connessione tra i popoli. Il mare è forse l’unico elemento che ricorre nella produzione di tutti i luoghi in cui Levy soggiornò. Il suo incessante muoversi tra una sponda e l’altra del Mediterraneo lo rese artista eccezionalmente raffinato e sensibile: Liliana Segre, cui è stata affidata l’introduzione del catalogo, pone l’accento sul fatto che questa sua sensibilità gli consentì di trasformare i drammi personali e collettivi in energia positiva, che prendeva corpo nello slancio vitalistico che mai l’abbandonò. Ed è questo, afferma Segre, “il contributo migliore che un artista ed un intellettuale possono offrire al loro tempo e alla lotta contro le forze del male: indicare e percorrere la via verso un superiore livello di civiltà e di umanità”. Questo tratto peculiare del Moses Levy uomo e artista non è certo argomento nuovo, ma è utile ribadirlo in quest’epoca di nuove ossessioni identitarie, di recrudescenza d’istanze e rivendicazioni nazionaliste, di muri in costruzione. Per l’arte di Levy non c’erano barriere.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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