L'arte sublima la malattia. Un medico anti-Covid analizza alcuni capolavori dell'arte per cercare le patologie


Michelangelo, Raffaello, Antonello da Messina, Botticelli sono alcuni dei “pazienti” sottoposti alla diagnosi di un medico specialista, in prima linea nell’emergenza da Covid-19.

Se l’arte è anche catarsi della sofferenza, conforto dell’anima oltre che diletto per gli occhi, in questo nostro tempo di malattia e morte siamo andati in cerca di esempi di opere d’arte in cui la patologia, sublimata, ha cessato di coniugarsi con il dolore. La malattia diventa elemento che partecipa di un esito squisitamente armonico, e perciò classicamente “bello”, finendo per stabilire anche un canone estetico, come vedremo per la Venere di Botticelli. Nell’esercizio di dialogo tra saperi e competenze diverse, abbiamo così sottoposto alcune opere, celebri e meno note, alla “diagnosi” di un medico con la passione per l’arte. Il dottor Alessandro Raffa, specialista in Medicina Interna e Medicina d’Urgenza, è uno degli “angeli” impegnati in prima linea nell’emergenza da Covid-19 nel reparto di “Medicina e Chirurgia di Accettazione e di Urgenza” all’Arnas Ospedale Civico di Palermo. Perfezionato in Reumatologia e cultore della stessa disciplina presso l’Università degli studi di Palermo, ambito in cui è stato messo a punto il tocilizumab, farmaco per l’artrite reumatoide, in corso di sperimentazione nella cura del Coronavirus. Questa evasione nell’arte, a cui lo abbiamo chiamato, ci piace sapere che abbia assunto un valore “terapeutico” a doppio senso.

Iconodiagnostica

L’“esperimento” di interdisciplinarietà, medici-storici dell’arte, ha prodotto dei risultati interessanti (segnaliamo Gian Carlo Mancini, L’arte nella medicina e la medicina nell’arte, Roma, 2008). Per esempio, il Centro Studi GISED, associazione senza fini di lucro nel settore dermatologico, riconosciuta dalla Regione Lombardia, ha realizzato una galleria virtuale di malattie della pelle documentate nelle opere d’arte, poi diventata una mostra itinerante (“Arte e Pelle”). Un’originale campionatura che è andata a scovare un melanoma sulla tempia di Maria Giuseppina di Borbone, infanta di Spagna, zia del re, nel Ritratto della Famiglia di Carlo IV (1800-1801) di Francisco de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 – Bordeaux, 1828); una cheilite angolare o boccheruola, una infiammazione della bocca, al lato destro delle labbra nel ritratto La vecchia (1506) di Giorgione (Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510); xantelasmi, accumuli di grasso nelle palpebre nel Ritratto di Clemente VII con barba (1527) di Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 - Roma, 1547). O, ancora, le cicatrici che si vedono nel Ritratto di Sir Richard Southwell /1536) di Hans Holbein il Giovane (Augusta, 1497 o 1498 – Londra, 7 ottobre 1543) sono dovute a una forma di tubercolosi cutanea detta anche scrofuloderma; mentre è stato ipotizzato che il nanismo di una donna nella Camera degli sposi (1465 - 1474) di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 - Mantova, 1506) possa derivare da una malattia genetica, la neurofibromatosi di tipo I. Non solo dipinti e non solo arte antica. Nei vasi della scultrice inglese contemporanea Tamsin van Essen la lavorazione esterna ricorda la superficie cutanea colpita da psoriasi.

Franciesco de Goya y Lucientes, Ritratto della Famiglia di Carlo IV (1800-1801; olio su tela, 280 x 336 cm; Madrid, Prado). Maria Giuseppina di Borbone è la quarta da sinistra
Franciesco de Goya y Lucientes, Ritratto della Famiglia di Carlo IV (1800-1801; olio su tela, 280 x 336 cm; Madrid, Prado). Maria Giuseppina di Borbone è la quarta da sinistra


Giorgione, La Vecchia (dipinto su tela, cm 68,4 x 59,5; Venezia, Gallerie dell'Accademia). Archivio fotografico GAve - su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ph. Matteo De Fina
Giorgione, La Vecchia (1506; dipinto su tela, 68,4 x 59,5 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia). Ph. Matteo De Fina


Sebastiano del Piombo, Ritratto di Clemente VII (1527; olio su tela, 145 x 100 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
Sebastiano del Piombo, Ritratto di Clemente VII (1527; olio su tela, 145 x 100 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)


Hans Holbein, Ritratto di Richard Southwell (1536; olio e tempera su tavola, 47,5 x 38 cm; Firenze, Uffizi)
Hans Holbein, Ritratto di Richard Southwell (1536; olio e tempera su tavola, 47,5 x 38 cm; Firenze, Uffizi)


La nana dipinta da Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi (Mantova, Castello di San Giorgio)
La nana dipinta da Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi (Mantova, Castello di San Giorgio)

In effetti, l’iniziativa è presa più spesso dal mondo medico. Diversi sono gli studi che considerano l’arte come disciplina utile per il miglioramento di competenze alla base della professione medica, come quello condotto dalla Sapienza di Roma nel 2016 (“Arte e Medicina: dalla visione alla diagnosi”, a cura di Vincenza Ferrara). Tra i capitoli ce n’è uno dedicato alla iconodiagnostica. Il termine fu coniato nel 1983 dalla psichiatra di Harvard Anneliese Pontius per definire le pratiche utili a ricavare notizie su una malattia attraverso immagini della storia dell’arte. La psichiatra era intenta a dimostrate la presenza della Sindrome di Crouzon (malattia genetica rara) nell’arcipelago di Cook esaminando le antichissime statue ritrovate in quelle isole.

In iconodiagnostica si sono cimentati vari medici. Come Vito Franco, docente di Anatomia patologica presso la facoltà di “Medicina e Chirurgia” dell’Università di Palermo, che ha “visitato” un centinaio di opere più o meno famose diagnosticando diverse malattie ai personaggi raffigurati. Dall’aracnodattilia, di cui sarebbe affetta la Madonna della rosa (1530) di Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 1503 - Casalmaggiore, 1540), per le dita sproporzionatamente sottili ed allungate rispetto al palmo della mano, come le zampe di un ragno, alla ipercolesterolemia della Gioconda (1503-1504) di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) desunta dall’accumulo di grasso sotto l’occhio sinistro. Per le sue tesi che hanno in qualche caso destabilizzato gli studi storico-artistici, Franco ha avuto anche il merito di provocare un dibattito critico, con Giorgio de Rienzo che sul “Corriere della Sera” firmava “L’inutile ricerca sulle malattie negli occhi della Gioconda” (6 gennaio 2010).

Parmigianino, Madonna della rosa (1530; olio su tavola, 109 x 88,5 cm; Dresda, Gemäldegalerie)
Parmigianino, Madonna della rosa (1530; olio su tavola, 109 x 88,5 cm; Dresda, Gemäldegalerie)


Leonardo da Vinci, La Gioconda
Leonardo da Vinci, La Gioconda (1503-1506; olio su tavola, 77 x 53 cm; Parigi, Louvre)

Il limite di ricerche di questo tipo sta, però, nel guardare le opere da un punto di vista prevalente, quello medico, che mette alla prova il proprio spirito di osservazione per approfondire la patologia nella storia dell’arte, marginalizzando l’occhio del curatore, nella maggior parte dei casi assente, a discapito di una effettiva interdisciplinarietà. Il rischio, cioè, è quello di considerare le figure ritratte come individui in cui scorre il sangue, prendendo alla lettera Mikel Dufrenne quando dice che l’oggetto estetico è sempre un “quasi soggetto” (Phénoménologie de l’expérience esthétique,1953, t. II, Paris, PUF, 1992). Non solo, in genere, nelle ricerche americane, come quella curata dal professor Paul Wolfe, direttore del dipartimento di Patologia e di Medicina di laboratorio dell’Università della California a San Diego, la riconduzione degli esiti artistici alle patologie di cui erano affetti pittori e scultori finisce per marginalizzare la loro vena creatrice, dimenticando che l’oggetto estetico non è rappresentazione mimetica della natura. Così la massiccia predominanza dell’uso del giallo in quadri come La sedia con pipa (1888) di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890) viene spiegata con l’utilizzo di infuso di digitale, usata per curare lo scompenso cardiaco di cui era affetto, che avrebbe provocato una distorsione della percezione dei colori meglio nota come xantopsia, condizione che “fa veder giallo” per intossicazione da “digitalis purpurea”. Mentre alla cataratta sarebbe dovuta l’estinzione della forma in dipinti come le diverse versioni delle Ninfee di Claude Monet (Parigi, 1840 - Giverny, 1926). Come si vede, poco spazio resta alla comprensione della creatività, che, afferma Hubert Jaoui, “non è solo immaginazione, fantasia o estro. È anche metodo, volontà, ‘ostinato rigore’ come diceva Leonardo da Vinci” (L’Estro Creativo Creo dunque sono, 2009).

Ritornando dagli artisti alle opere, ci sono quelle in cui protagonista è dichiaratamente la patologia. In Bambina Malata, di cui esistono diverse versioni, in cui Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo, 1944), il pittore del celebre Urlo (1893), rievoca la perdita della sorella, Sophie, stroncata a soli quindici anni da una feroce tubercolosi. Talvolta queste opere acquisiscono nel tempo un valore documentale, come l’incisione del 1496 in cui Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 - 1528) attestò l’insorgere della sifilide in Europa nell’anno successivo alla sua prima diffusione. La pestilenza, vista come evento punitivo per le condotte peccaminose, è il soggetto di opere che assolvono la funzione di ex voto, come la Palermo liberata dalla peste, al Museo Diocesano Palermo, dipinta intorno al 1576 da Simone de Wobreck (Haarlem, ? – Palermo, 1558-1597). Per restare ancora in Sicilia, stessa funzione per una serie di dipinti con Scene di guarigione (seconda metà XVIII sec.), presso il Convento dei Cappuccini a Santa Lucia del Mela (Messina), pubblicati nel 2011 da Luigi Giacobbe, assegnandoli al pittore cappuccino fra’ Felice da Sambuca (Sambuca di Sicilia, 1734 – Palermo, 1805).

Edvard Munch, Bambina malata (1885-1886; olio su tela, 120 x 118,5 cm; Oslo, Nasjonalmuseet)
Edvard Munch, Bambina malata (1885-1886; olio su tela, 120 x 118,5 cm; Oslo, Nasjonalmuseet)


Simone de Wobreck, Palermo liberata dalla peste (1576 circa; 200 x 300 cm; Palermo, Museo Diocesano)
Simone de Wobreck, Palermo liberata dalla peste (1576 circa; 200 x 300 cm; Palermo, Museo Diocesano)

Diverso, è, invece, l’esercizio in cui ci siamo cimentati col dottor Raffa: andare alla ricerca della patologia anche quando non è l’oggetto dichiarato dell’opera d’arte, cogliendola e diagnosticandola attraverso un dettaglio. Scovandola anche nella perfezione dell’arte rinascimentale, per dare insieme un contributo alla storia della medicina e alla storia dell’arte. E cioè non solo per accertare la manifestazione di una malattia, come fatta dalla iconodiagnostica sull’opera dei maestri del Rinascimento, come la Fornarina (1518 - 1519) di Raffaello, in cui sarebbe rappresentato un tumore alla mammella. Raffaella Bianucci, con i colleghi dell’Università di Torino, ha pubblicato su “The Lancet Oncology” una ricerca su alcune opere per seguire la manifestazione di tale malattia, come La notte (1555-1565) di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio (Firenze, 1503 – 1577), trasposizione in pittura dell’analoga figura scolpita da Michelangelo per la tomba di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours (1524-1534), nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze, e L’allegoria della Fortezza (1560-1562) di Maso di San Friano (Firenze, 1531 – 1571). O ancora, Gilberto Corbellini, direttore del Dipartimento scienze umane sociali, patrimonio culturale del Consiglio nazionale delle ricerche, spiega che tra i quadri più scandagliati si annoverano quelli del pittore barocco Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 – Anversa, 1640), attivo per quasi mezzo secolo, “sono almeno tre i dipinti in cui egli avrebbe rappresentato un cancro al seno: Le tre Grazie, Orfeo ed Euridice e Diana e le sue ninfe”.

Venendo, dunque, alla nostra di ricerca, quando in un’opera la patologia non è esibita è come se la sofferenza che l’accompagna si fosse decantata. Dove cessa il dolore resta l’imperfezione, assorbita in una dimensione di armonia prevalente. Parafrasando una celebre mostra curata da Salvatore Settis, possiamo dire che “la forza del Bello” risiede anche nella sua imperfezione. Un messaggio che dall’arte sembra lentamente passare anche a quella stessa moda responsabile di aver imposto per generazioni un’irraggiungibile immagine di perfezione: “imperfezioni” si chiama proprio la collezione autunno-inverno 2020/21 in passerella alla kermesse Altaroma, firmata per Morfosis dalla stilista romana Alessandra Cappiello, che ha alle spalle, non a caso, un bagaglio di studi classici e l’influenza di una nonna pittrice.

Raffaello, Ritratto di donna nei panni di Venere (“Fornarina”) (1519-1520 circa; olio su tavola; Roma, Gallerie Nazionali d'Arte Antica di Roma, Barberini). Gallerie Nazionali di Arte Antica, Roma (MIBACT) - Biblioteca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan
Raffaello, Ritratto di donna nei panni di Venere (“Fornarina”) (1519-1520 circa; olio su tavola; Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, Barberini). Gallerie Nazionali di Arte Antica, Roma (MIBACT) - Biblioteca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, La Notte (1555-1565; olio su tavola, 135 x 196 cm; Roma, Galleria Colonna)
Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, La Notte (1555-1565; olio su tavola, 135 x 196 cm; Roma, Galleria Colonna)



La Notte di Michelangelo. Ph. Credit Andrea Jemolo
Michelangelo, La Notte (1526-1531; marmo, 155 x 150 cm; Firenze, Sagrestia Nuova). Ph. Credit Andrea Jemolo


Maso da San Friano, La Fortezza
Maso da San Friano, La Fortezza (1560-1562; olio su tavola, 178 × 142,5 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia)

Il difetto sta a un’opera d’arte come un leggero deposito a un rosso di qualità. Pensiamo agli autoritratti di Frida Kahlo (Coyoacán, 1907 –1954), dove l’irsutismo è un tratto di mascolinità utile a mettere in valore, al contrario, la prorompente femminilità della pittrice. Persino in un’ “icona” del Rinascimento come la Venere di Sandro Botticelli (Firenze, 1445 - 1510), c’è “qualcosa che non va”. E non si tratta del noto strabismo, da cui il sintagma “strabismo di Venere”, difettuccio assurto a paradigma di sensuale bellezza. Non il fine occhio del connoisseur, ma lo sguardo dei “comuni” visitatori ha finito per esserne catalizzato: complice la collocazione utile a incrociarlo nella mostra che, tra il giugno e il settembre scorso, ha riunito nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino la collezione appartenuta all’imprenditore Riccardo Gualino, in molti sono rimasti sorpresi nello “scoprire” il piede decisamente privo di grazia esibito dalla Venere (1485- 1490 circa) della Galleria Sabauda, versione della più nota Nascita di Venere (1485 circa) alle Gallerie degli Uffizi (altre due si trovano alla Gemäldegalerie di Berlino, 1490, e in una collezione privata svizzera).

Cediamo, dunque, la parola al nostro specialista. “Nella Venere”, osserva Raffa, “è possibile notare una eccessiva accentuazione dell’altezza dell’arcata plantare del piede sinistro ed una ‘gobba’ dorsale; si tratta di un ‘piede cavo’, che consiste in una malformazione congenita (sviluppo imperfetto delle articolazioni del piede) o acquisita dall’utilizzo di calzature corte (il piede non ha lo spazio a sufficienza per distendersi e tende a flettersi; se si trattasse di più contemporanee calzature con tacco alto sarebbe determinata da un carico eccessivo del peso del corpo sull’avampiede); altre cause secondarie riconoscono alla base patologie neurologiche e reumatologiche”. E aggiunge, “maggiormente noto è il secondo dito del piede più lungo rispetto agli altri che rispecchierebbe canoni estetici dell’epoca che si rifanno all’arte greca; potremmo tuttavia definirlo un ‘piede antropologico’, che ricorda molto il piede ‘prensile’ dello scimpanzé, poiché la stessa caratteristica si riscontra nel primati”. Chi l’avrebbe mai detto?! La dea che si erge sopra la valva di una conchiglia, pura e perfetta come una perla, ha il piede di un primate (il piede è uguale nelle altre versioni). Inoltre, opportunamente Raffa menziona la rispondenza di questa tipologia di “piede prensile” ai canoni dell’arte greca. Oltre al celebre atteggiamento pudico con cui la Venere copre la nudità con la fluente capigliatura aurea, anche questo particolare è, dunque, indizio della derivazione della Venere dal modello classico della “Venus pudica”. Un bagaglio figurativo a cui Botticelli ha guardato anche per la coppia dei Venti che vola abbracciata, derivazione da una gemma di età ellenistica appartenuta a Lorenzo il Magnifico.

Non sempre, però, è immediatamente possibile spiegare la comparsa, nella sintassi compositiva di un’opera, di un lessema spia di una patologia o un trauma. Per esempio, nel Trionfo della Morte (metà del secolo XV), affresco staccato conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, Raffa osserva “la mano con l’ultima falange del quinto dito fratturata” nel cadavere di domenicano in basso al centro della scena. Un particolare che non ha una sua ragione funzionale al messaggio che l’anonimo autore vuole trasferire, come, per esempio, col derelitto col braccio fratturato e bendato nel gruppo della povera gente a sinistra, che invoca la fine delle proprie sofferenze alla Morte, intenta invece a scoccare frecce che hanno già colpito letalmente papi e imperatori. Del resto, si farebbe un torto alla sapiente mano del probabile maestro transalpino se lo si volesse leggere come un cedimento formale. Non resta, allora, che considerarlo, forse, un particolare che accentua il carattere naturalistico della scena, al pari della scattante linea del levriero o della macabra anatomia del cavallo che domina la scena.

Sandro Botticelli, Venere (1485-1490 circa; olio su tela, 174 x 77 cm; Torino, Musei reali, Galleria Sabauda)
Sandro Botticelli, Venere (1485-1490 circa; olio su tela, 174 x 77 cm; Torino, Musei reali, Galleria Sabauda)


Sandro Botticelli, Venere, dettaglio. Ph. Credit Silvia Mazza
Sandro Botticelli, Venere, dettaglio. Ph. Credit Silvia Mazza


Arte romana, Venere Capitolina, da originale di Prassitele (IV secolo a.C.; marmo, altezza 193 cm; Roma, Musei Capitolini)
Arte romana, Venere Capitolina, da originale di Prassitele (IV secolo a.C.; marmo, altezza 193 cm; Roma, Musei Capitolini)


Ignoto, Trionfo della morte, particolare (metà XV sec.; affresco staccato, 600 x 642 cm; Palermo, Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis)
Ignoto, Trionfo della morte, particolare (metà XV sec.; affresco staccato, 600 x 642 cm; Palermo, Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis)

Ma torniamo ancora sullo strabismo. Se è famoso quello della Venere botticelliana, il nostro medico lo individua pure in “una delle massime espressioni della pittura europea di tutti i tempi” (Mauro Lucco, 2006): l’Annunciata (1476 circa) di Antonello da Messina (Messina, 1430 circa - 1479), a Palazzo Abattelis, a Palermo. Raffa individua “un lieve strabismo convergente dell’occhio sinistro: il bulbo oculare sinistro è più orientato verso l’interno di quanto non sia il bulbo oculare destro verso l’angolo esterno”. “Si tratta”, spiega , “di un difetto di convergenza degli assi visivi dei due bulbi oculari ed è dovuto alla mancanza di coordinamento tra i muscoli che intervengono nella motilità dei bulbi oculari (muscoli estrinseci) impedendo di orientare lo sguardo di ciascun occhio sullo stesso obiettivo”. Il “difetto” in questo caso è possibile ritenerlo funzionale alla costruzione dell’immagine e del suo meditato “concetto”. Partecipa, non meno del gesto della mano che si protende verso lo spettatore e dell’altra che serra il manto, alla rivoluzione con cui Antonello eliminò la figura dell’angelo, presupposta dall’Annunciata in sé. La Madonna non ha bisogno, infatti, di “orientare lo sguardo sullo stesso obiettivo”, non cerca “qualcuno” davanti a sé; il soffio che solleva le pagine del libro sul leggio, segno della presenza dello Spirito Santo, non può vederlo, ma solo sentirlo. Questo sguardo lievemente strabico, perso, è uno sguardo introspettivo, concorre ad allontanare in un altrove sovraumano la Vergine. C’è una distanza siderale tra il moto istintivo di quella mano che ferma ciò che ancora non conosce e allo stesso tempo si protende lungo una prospettiva che attraversa i secoli per raggiungere tutta l’umanità, e l’assenza di quello sguardo, rapito in una dimensione di consapevolezza e accettazione.

Ancora Antonello, ancora un dettaglio che partecipa come componente attiva nella costruzione figurativa. In questo caso si tratta del Polittico di San Gregorio (1473), al Museo Regionale Interdisciplinare di Messina, ancora una novità, per struttura e ideazione, fatta precipitare da Antonello nel panorama dell’epoca. “Le figure ritratte da sotto in su come di fatto apparirebbero se issate in carne e ossa li in alto” (Marco Collareta, 2006) sono funzionali alla rappresentazione realistica delle attitudini in una spazialità legata da un effetto prospettico unitario. L’ultimo restauro, in occasione della grande mostra antologica su Antonello da Messina, allestita alle Scuderie del Quirinale nel maggio 2006, ha rivelato appena sotto la bocca di San Gregorio una piccola cicatrice, “che vale a renderlo una creatura viva, con una sua storia alle spalle” (M. Lucco, 2006). Con questo significato potremmo considerare anche un particolare sfuggito all’occhio degli storici dell’arte. Raffa nota, infatti, “una probabile malformazione congenita del pollice della mano sinistra”, quella che porge le ciliegie al Bambino. Un “difetto” appartenuto, forse, a colei che fece da modella ad Antonello.

Altra mano rinascimentale, altro difetto. Nella Circoncisione (1510) del messinese Girolamo Alibrandi (Messina, 1470 circa – 1524 circa), ancora nel museo in riva allo Stretto, quella della Madonna è “una mano con clinodattilia”, osserva Raffa. “Si tratta di una malformazione congenita caratterizzata dalla curvatura permanente in sede mediale o laterale di un dito o di una falange (è interessato in genere il quinto dito). La clinodattilia può manifestarsi come anomalia isolata o in combinazione con altre malformazioni in alcune sindromi genetiche di Down, di Klinefelter e di Turner”.

Le cose si fanno più complicate nello sportello di trittico di un ignoto fiammingheggiante (XVI secolo), sempre al Museo di Messina. Nel pannello con San Martino dona il mantello al povero, quest’ultimo appare “affetto da nanismo armonico , una condizione”, spiega Raffa, “dovuta a carenza congenita di ormone della crescita prodotto dalla ghiandola ipofisi; tutte le parti del corpo sono di dimensioni ridotte, in modo armonico”. Una diagnosi che apre a non pochi problemi. Nella tradizione iconografica, infatti, non è dato riscontrare altre versioni in cui il mendicante col quale San Martino di Tours divide il proprio mantello sia un nano. Né alle dimensioni ridotte si può dare la valenza simbolica della tradizionale distinzione gerarchica tra le figure, atta a sottolineare l’umile condizione del povero rispetto a quella del Santo, perché questa si ottiene con un rimpicciolimento proporzionale della figura. Qui, invece, siamo in presenza di un nano. Ma c’è di più. A osservare bene la figura, si rilevano evidenti contraddizioni anatomiche: mentre testa busto e il braccio con la mano che afferra il mantello rispondono alla lettura del medico, le gambe smagrite e l’altro braccio lungo e teso come un bastone sono fuori proporzione, disarticolate; è come se appartenessero ad altro individuo, benché la critica l’abbia letta come un’unica figura (“il povero è nudo, coperto solo da un panno che gli cinge i fianchi”, B. Ferlazzo, 1991). Un tentativo di rappresentare un secondo mendicante? Quest’ultimo compare in altri dipinti, in cui sull’episodio principale si innesta la leggenda dell’estate, secondo la quale Martino incontra più avanti un altro mendicante e decide di regalargli anche l’altra metà di mantello rimanendo così esposto alle intemperie. Ma nella nostra tavola il mantello del Santo-illusionista fa sparire la parte superiore del corpo! Un dettaglio, in definitiva, difficilmente spiegabile nell’economia di un’opera che appare ben proporzionata in tutte le sue componenti, se non pensando a un pentimento. In questo caso la diagnosi è un vero e proprio rompicapo offerto allo storico dell’arte.

Antonello da Messina, Annunciata (1476 circa; olio su tavola, 45 x 34,5 cm; Palermo, Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis)
Antonello da Messina, Annunciata (1476 circa; olio su tavola, 45 x 34,5 cm; Palermo, Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis)
Antonello da Messina, Annunciata, dettaglio
Antonello da Messina, Annunciata, dettaglio


Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio (firmato e datato 1473; tempera grassa su tavola, cm 65 x 62; 65 x 54,7; 125 x 63,5; 129 x 77; 126 x 63; Messina, Museo regionale interdisciplinare)
Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio (firmato e datato 1473; tempera grassa su tavola, cm 65 x 62; 65 x 54,7; 125 x 63,5; 129 x 77; 126 x 63; Messina, Museo regionale interdisciplinare)


Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio, dettaglio
Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio, dettaglio


Girolamo Alibrandi, Circoncisione (1519; tempera su tavola, 99 x 118 cm; Messina, Museo Regionale Interdisciplinare)
Girolamo Alibrandi, Circoncisione (1519; tempera su tavola, 99 x 118 cm; Messina, Museo Regionale Interdisciplinare)


Girolamo Alibrandi, Circoncisione, dettaglio
Girolamo Alibrandi, Circoncisione, dettaglio


Ignoto fiammingheggiante, Sportelli di trittico con san Giorgio e con san Martino dona il mantello al povero (olio su tavola, 67 x 27 cm; Messina, Museo Regionale Interdisciplinare)
Ignoto fiammingheggiante, Sportelli di trittico con san Giorgio e con san Martino dona il mantello al povero (olio su tavola, 67 x 27 cm; Messina, Museo Regionale Interdisciplinare)


Ignoto fiammingheggiante, Sportello con san Martino dona il mantello al povero, dettaglio
Ignoto fiammingheggiante, Sportello con san Martino dona il mantello al povero, dettaglio

Michelangelo: la tempra del Genio come anestetizzante

E chiudiamo la carrellata diagnosticando questa volta la patologia di un artista. Uno dei più grandi di tutti i tempi: Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564). In questo caso Raffa si muove nel territorio che gli è più familiare, quello della reumatologia, da un lato per precisare e sviluppare quanto già riscontrato in uno studio recente, offrendolo a una diversa lettura storico-artistica, dall’altro facendo notare un’altra patologia finora non registrata.

Uno studio italiano apparso nel 2016 su una rivista medica (Davide Lazzeri, Manuel Francisco Castello, Marco Matucci-Cerinic, Donatella Lippi e George M. Weisz, “Journal of the Royal Society of Medecine”; 2016, Vol. 109 (5), pp. 180-183) ha analizzato tre ritratti di Michelangelo - quello realizzato da Jacopino del Conte (Firenze, 1510 – Roma, 1598) nel 1535, quello attribuito a Daniele da Volterra (Volterra, 1509 - Roma, 1566) datato 1545, probabile copia da Jacopino, e il ritratto postumo fatto da Pompeo Caccini (Firenze 1577 – Roma?, 1624 circa) nel 1595 - per arrivare alla conclusione che le articolazioni della mano sinistra di Michelangelo erano affette da artrosi, patologia che lo avrebbe colpito intorno ai 60 anni. Verrebbe così spiegata la perdita di destrezza in età avanzata, ma anche la sua vittoria sulla malattia (“one plausible explanation for Michelangelo’s old age loss of dexterity, emphasising his triumph over infirmity”), essendo riuscito a continuare a utilizzare le mani fino agli ultimi giorni di vita. Come Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 1841 – Cagnes-sur-Mer, 1919), colpito in tarda età da una violenta artrite deformante che non gli impedì di eseguire grandi dipinti come Le bagnanti (1918-1919).

Per Raffa, che conferma la diagnosi, il “paziente” appare, però, più seriamente compromesso. “Seppur ipotizzato inizialmente, altri studiosi (D. Lazzeri, M. F. Castello, M. Matucci-Cerinic, D. Lippi e G. M. Weisz, cit.) non hanno confermato che Michelangelo fosse affetto da una artropatia uratica (‘gotta’), bensì da artrosi”, ma aggiunge: “tuttavia rispetto allo studio citato, in particolare il ritratto fatto da Jacopino del Conte mette bene in evidenza la mano sinistra dell’artista, che appare affetta da una ‘osteoartrite primaria’. Si tratta di una artropatia degenerativa delle articolazioni della mano che si manifesta in forma un po’ più aggressiva rispetto alla ‘classica artrosi’ ed è causa di maggiore danno articolare e di limitazione funzionale”. “In particolare”, precisa ulteriormente lo specialista, “nel ritratto è ben evidente una osteoartrite primaria dell’articolazione trapeziometacarpale e interfalangea prossimale del primo dito; altrettanto può dirsi dell’articolazione metacarpo -falangea e interfalangea prossimale del secondo dito e della articolazione interfalangea prossimale del terzo dito, che si intravede”.

Cause possibili per Raffa: “la continua sollecitazione delle articolazioni delle mani da parte dei sussulti indotti dall’utilizzo del martello e dello scalpello, ed essendo Michelangelo mancino, è pure possibile che la mano maggiormente sollecitata sia stata proprio la sinistra perché proprio con quella teneva e lanciava i colpi di martello sullo scalpello, quest’ultimo tenuto dalla mano destra. Altresì nemmeno è possibile trascurare l’attività del ‘dipingere’ col pennello e con precisione per diverse ore al giorno, perché tale attività rappresenta una continua sollecitazione sia delle articolazioni, sia dei tendini e le guaine che li rivestono e che possono infiammarsi”.

Le deduzioni che si possono fare da questa nuova diagnosi di una maggiore aggressività della malattia non sono da poco. Lo studio del 2016 si conclude con la tesi che il lavoro continuo e intenso potrebbe avere aiutato il maestro a mantenere l’uso delle sue mani il più a lungo possibile (“the continuous and intense work could have helped the Master to keep the use of his hands as long as possible”). Una tesi che con Raffa possiamo dire che non trovi fondamento scientifico: “difficile lavorare con mani infiammate e dolenti”, “possibile ipotizzare l’uso di un estratto fitoterapico a base di salicilati, già noto all’epoca per lenire ‘i dolori e le febbri’”. Mentre è più plausibile immaginare che l’enorme forza di volontà, la tempra del genio abbia agito in qualche misura da anestetizzante del più lancinante dei dolori. Una prova del valore terapeutico dell’esercizio artistico. E che un anziano Michelangelo fosse fortemente motivato lo fa pensare anche il fatto che fino a pochi giorni prima di morire lavorasse a quella che non solo è la sua ultima opera, come ricordato nello studio richiamato, ma il suo testamento scolpito nel marmo, la scultura da collocare sulla sua sepoltura: la Pietà Rondanini (1552 – 1564).

Michelangelo Buonarroti, Pietà Rondanini (1555 circa-1564; marmo, altezza 195 cm; Milano, Castello Sforzesco)
Michelangelo Buonarroti, Pietà Rondanini (1555 circa-1564; marmo, altezza 195 cm; Milano, Castello Sforzesco)

Ma non è tutto, dicevamo. Nello stesso studio si fa riferimento anche al ritratto di Michelangelo nelle sembianze di Eraclito nella Scuola di Atene (1509-1511), nella Sala della Segnatura, con cui Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520) volle omaggiare il Maestro che in quegli stessi anni stava dipingendo la Cappella Palatina, in particolare gli affreschi della Genesi (1508-1512). Il richiamo al ritratto è utile agli specialisti per documentare che a quell’epoca, quando Michelangelo aveva tra i 34 e i 36 anni, le sue mani non mostravano segni della patologia che lo avrebbe colpito trent’anni dopo (“his hands appear with no signs of deformity”). Osservandolo meglio Raffa individua, però, qualcos’altro che non va. “Nel ritratto di Michelangelo eseguito da Raffaello appare il ginocchio destro con delle deformazioni tipiche dell’artrosi, il ginocchio sinistro appare in condizioni migliori”. Non solo una mano, dunque, ma anche un ginocchio. Per il medico, questa precoce artrosi sarebbe stata dovuta “probabilmente per il continuo/discontinuo appoggio delle ginocchia insieme o alternativamente su una superficie rigida, durante il suo lavoro, che avrebbe potuto causare delle lesioni meniscali con intercorrenti episodi infiammatori del ginocchio esitati nell’artrosi”.

In precedenza anche il summenzionato Vito Franco aveva notato questo ginocchio, ma aveva ipotizzato depositi di acido urico, in linea con la tradizionale tesi che il maestro fosse affetto dalla gotta, poi superata dalla ricerca del 2016. Ma volendo prescindere anche da quest’ultima, osserva ancora Raffa, “il ginocchio non è sede preferenziale di gotta, essendo sedi principali l’alluce o la caviglia”.

Resta a questo punto da verificare se la diagnosi di una precoce artrosi al ginocchio sia compatibile con la biografia lavorativa di Michelangelo, stante che, per il bilanciamento degli arti e per la stabilità di tutto il corpo, ben possiamo immaginare che alla posizione del braccio sinistro con cui batteva i colpi di martello sullo scalpello corrispondesse il ginocchio destro appoggiato a terra. Non v’è dubbio, in effetti, che tra i 34 e i 36 anni, fosse uno scultore affermato, tanto da ricevere dal papa Giulio II la commissione nella Cappella Sistina della decorazione della parete di fondo col Giudizio Universale e della volta con episodi della Genesi. A quell’epoca aveva già realizzato, per citarne solo alcune, il Bacco (1496-97), la Pietà Vaticana (1497-1499), il David (1501-1504), il Tondo Pitti (1503-1505) o il Tondo Taddei (1504-1506). Opere scultoree per la cui esecuzione aveva potuto tenere puntato al pavimento il ginocchio in modo prolungato. Ma negli anni in cui lavorava alla volta della Cappella Sistina, tra il 1508 e il 1512, poteva aver assunto quella posizione, contribuendo all’usura del ginocchio osservato dal nostro medico? Sappiamo che si è trattato di quattro anni di impegno fisico, oltre che inventivo, che causarono non pochi danni alla salute del Maestro: 1.010 metri quadrati di pittura, centinaia e centinaia di figure. Quale fosse la posizione proibitiva in cui dipingeva lo documenta uno schizzo (nello stesso foglio di un sonetto autografo conservato a Casa Buonarroti, Firenze) di se stesso mentre a testa in su abbozza un personaggio. Oltre che in piedi sappiamo che dipingeva anche da sdraiato. Ma doveva farlo anche piegato o inginocchiato, appunto, come lascia pensare l’impalcatura da lui stesso ideata (di cui scrivono Ascanio Condivi e Giorgio Vasari), per risolvere il duplice problema di consentirgli di raggiungere il soffitto, permettendo però al contempo il regolare svolgersi delle attività religiose e cerimoniali nella cappella. Si trattava di un’impalcatura pensile a “gradoni”, appesa a sostegni ricavati da fori nei muri, tale da permettergli di lavorare alle varie superfici in diverse posizioni. Insieme alla curvatura della volta, proprio questa struttura suggerisce anche l’adozione di una posizione inginocchiata, per esempio per dipingere le vele o le lunette: era costituita, infatti, da una piattaforma centrale da cui l’artista realizzò le storie della Genesi e gli Ignudi; da gradinate laterali da cui dipinse la serie dei Veggenti e quella delle vele; mentre da un’altra piattaforma, che correva alla base del ponte e alla quale si accedeva togliendo le tavole delle gradinate, affrescò gli Antenati delle lunette.

Michelangelo Buonarroti, Versi con autoritratto nell’atto di dipingere la volta della Sistina (1508-1512, penna; Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, fol. 111)
Michelangelo Buonarroti, Versi con autoritratto nell’atto di dipingere la volta della Sistina (1508-1512, penna; Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, fol. 111)


Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale (1536-1541; affresco; Città del Vaticano, Cappella Sistina)
Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale (1536-1541; affresco; Città del Vaticano, Cappella Sistina)

C’è ancora una questione da chiarire. Come aveva fatto Raffaello a vedere le ginocchia di Michelangelo? Diversamente dagli altri filosofi abbigliati all’antica, a Michelangelo nei “panni” di Eraclito fa indossare abiti contemporanei. Compresi gli stivali logori che era solito portare e non togliere mai, come raccontò nel 1553 Condivi nella sua biografia: portava “di continovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando li voleva cavare, poi nel tirarli ne veniva spesso la pelle”. Mentre secondo la moda dell’epoca gli uomini indossavano delle calze che arrivavano poco sopra il ginocchio. Che l’anatomia della gambe (nude o fasciate in una calza) fosse visibile lo documenta anche lo schizzo già menzionato, in cui Michelangelo si ritrasse nella posizione in cui era solito dipingere la volta della Cappella Palatina. Che il maestro fosse “ossessionato” dagli stivali trova conferma anche nel famoso episodio della caduta dal ponteggio avvenuta il 15 dicembre 1540, quando stava lavorando al Giudizio Universale (1536-1541), che lo costrinse a restare chiuso in casa per parecchio tempo. Dopo le cure che lo rimisero in piedi, dovette credere a una sorta di miracolo tanto da fare un singolare voto: quello per cui non si sarebbe più tolto gli stivali per un anno.

Tornando, dunque, al ritratto di Raffaello, gli stivali appaiono calcati proprio sulla pelle nuda. Tutto lascia, quindi, intendere che in questa resa fedele dell’immagine del rivale, anche il nostro ginocchio con artrosi fosse un particolare realistico.

In conclusione, proprio il “caso” di Michelangelo indica in quale direzione possa essere inteso l’esercizio di dialogo tra discipline e competenze diverse: se un medico che si mette alla prova formulando una diagnosi a partire dalla sola osservazione di un dipinto, deve mettere in conto che l’arte implica un’esegesi che prescinde dal dato fisico, lo storico dell’arte deve essere pronto a rimettere in discussione studi anche consolidati, nell’intento di avallare una lettura medicale che può far riscrivere una parabola artistica, o al contrario di confutarla qualora rischi di essere una sopra-interpretazione forzata. In fondo medici e pittori condividono lo stesso patrono, san Luca.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).



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