Le visioni di Armando Testa, tra Mondrian, Malevič e Pollock


Al MART di Rovereto una mostra per analizzare la produzione di Armando Testa, visualizzatore globale tra Mondrian, Malevič e Pollock

Gillo Dorfles aveva detto bene: se si considerasse Armando Testa (Torino, 1917 - 1992) solo come designer o come grafico pubblicitario, si finirebbe col ridurre notevolmente la portata della sua arte. “Artista dotato di vivaci e robuste qualità pittoriche”, “prestigioso creatore di immagini, inventore di paradisi” nonché, sempre utilizzando le definizioni di Gillo Dorfles, “visualizzatore globale dei rapporti tra uomo e mondo, tra produzione e consumo, tra creatività pura e creatività finalizzata a uno scopo”, Testa ha saputo indossare tanto i panni dell’artista concettuale quanto quelli del comunicatore popolaresco, ma anche quelli dell’ardito sperimentatore che fondeva assieme medium diversi per suscitare effetti originali e sorprendenti, quelli dell’ingegnoso creatore di accattivanti metafore e simpatici personaggi che ancora popolano l’immaginario degli italiani (e non solo di quelli che s’incantavano davanti alle sue pubblicità mentre guardavano Carosello), e ancora quelli del visionario capace di sondare con curiosità, intraprendenza e vivacità la lezione dei grandi maestri del Novecento (ma non senza guardare al passato).

Non a caso l’ultima mostra a lui dedicata, quella del MART di Trento e Rovereto (dal 22 luglio 2017 al 15 ottobre 2017, curata da Gianfranco Maraniello e da Gemma De Angelis Testa, moglie di Armando), s’intitola Tutti gli “ismi” di Armando Testa: l’idea è quella di far percepire quanto fosse importante, per lui, l’esplorazione dei grandi movimenti artistici del Novecento (Futurismo, Suprematismo, Surrealismo, Neoplasticismo... ), alla costante ricerca d’uno spunto, di un’idea, ma anche per riconoscere in anticipo le trasformazioni della società. Un’attenzione che, come scrive nel suo saggio a catalogo Gianfranco Maraniello, “corrisponde a una tensione alla comprensione del proprio tempo attingendo diffusamente a forme espressive che tradizionalmente abitano il contesto specifico dell’arte come forma assoluta, ossia sciolta dalla necessità di una verifica di effettualità nella dimensione dell’economico”. Testa, tuttavia, si muoveva entro due poli: da un lato l’urgenza di comunicare a un pubblico di consumatori che il committente necessitava di raggiungere con rapidità ed efficacia (ogni pubblicitario dovrebbe interrogarsi sulle motivazioni da offrire al proprio target affinché si trattenga a leggere o a osservare il messaggio), dall’altra quella di confrontarsi con gli esiti più aggiornati dell’arte contemporanea.

Questa continua tensione faceva sì che anche le creazioni apparentemente più facili celassero sempre ricerche accurate che facevano riferimento tanto all’arte quando alla psicologia: volendo addurre un esempio, Maraniello individua le radici del celeberrimo ippopotamo Pippo (creato per la Lines) nel dadaismo, per via del rifiuto della dimensione razionale, della decostruzione della componente “adulta” dell’informazione e dell’utilizzo del meccanismo tipicamente infantile della ripetizione onomatopeica, ma anche nella psicanalisi di Freud e in quella di Lacan in virtù della volontà di agire non sulla deliberata consapevolezza dello spettatore, bensì sul suo inconscio. E anche personaggi altrettanto noti come Carmencita e Caballero, i due pupazzetti “western” del Caffè Paulista della Lavazza, hanno le loro origini nell’arte astratta del Novecento: in occasione di una mostra su Armando Testa che si tenne a Rivoli nel 2001, l’artista americano Haim Steinbach, che ricordava di come, sei anni prima, fosse stato invitato a casa di Gemma Testa, definì “volumi geometrici fatti di gesso, ceramica o plastica, forme inanimate ma al tempo stesso viventi” i personaggi di Armando Testa, che Steinbach aveva visto esposti su una scaffalatura in sala. Carmencita e Caballero non sono altro che due coni che trovano la loro caratterizzazione in pochi elementi aggiunti al solido geometrico di base, alla forma pura: entrambi un naso, due palline a formare gli occhi e un segno grafico per la bocca, e in più le trecce di Carmencita, il cappello da cowboy e la pistola di Caballero. E tutto senza colori: la superficie completamente bianca è uno dei segni più distintivi dei due personaggi di Testa.

Armando Testa, Pippo
Armando Testa, Pippo (1966-67; poliuretano espanso; Collezione Gemma De Angelis Testa)


Armando Testa, Carmencita e Caballero
Armando Testa, Carmencita e Caballero (1965; gesso; Collezione Gemma De Angelis Testa)

Da Mondrian e, più in generale, dagli artisti di De Stijl, Armando Testa mutua la necessità di un’arte che, come da intento programmatico del grande artista olandese e dei suoi epigoni, si riduca all’essenzialità per farsi veramente universale e per arrivare veramente a tutti attraverso sintesi ed equilibrio. “La visione abituale”, scriveva Mondrian, “non percepisce il colore, in natura, come piano, ma percepisce le cose (e il colore) come corporeità, come rotondità. Ma in realtà le cose prendono forma da un complesso di piani che si esprimono plasticamente attraverso l’angolarità: la forma appare sempre più o meno come un’angolarità fluente. Dunque lo sviluppo tecnico del pittore, anche nell’insegnamento accademico, consiste soprattutto nell’imparare a vedere la planarità nell’apparenza delle forme”. Da qui la necessità di un’arte che non ammetta gli espedienti e che accolga un messaggio di purezza votato a ridurre il più possibile la soggettività e a ricercare, viceversa, la verità assoluta. Seppur lontano dal rigore spesso drammatico che contraddistinse l’azione e la carriera di Mondrian, Testa accolse da lui l’aspirazione a raggiungere l’essenziale e l’universale, con un’ammirazione forte al punto da sfociare nell’omaggio diretto. Ne è testimone un’opera priva di titolo, realizzata tra il 1967 e il 1985 e conservata nella collezione di Gemma Testa: entro una cornice del 1850, che l’artista considerava parte integrante dell’opera stessa, trova spazio un logotipo costruito attraverso le formule di Mondrian, con le campiture dei colori primari segnate dalle linee nere orizzontali e verticali, benché Testa si conceda l’uso della linea obliqua che Mondrian aveva rifiutato (come la linea curva, la linea diagonale avrebbe rotto, secondo Mondrian, l’equilibrio della composizione, e avrebbe rimandato a una componente passionale aliena al suo modo di vedere l’arte).

Anche in un’opera come la Sedia con matita, una scultura in legno dipinto che diventa pungente e sagace allusione al lavoro del grafico la cui produttività è vincolata parimenti alla sedia e alla matita (con quest’ultima che trattiene la sedia a terra, quasi a costringere l’artista a lavorare e a creare) si riconoscono le specifiche del neoplasticismo: come non pensare alla Sedia di Gerrit Rietveld, animata dalle stesse ragioni estetiche?

Dalla purezza di Mondrian a quella di Kasimir Malevič, il passo è breve: l’artista russo è stato spesso indicato come un ulteriore punto di riferimento per Armando Testa. Particolarmente significativa, per cogliere questo particolare ascendente, è una delle sue campagne più fortunate e persistenti nell’immaginario, quella creata nel 1960 per il vermut Punt e Mes (un “punto di dolce e mezzo di amaro”, recita il cosiddetto payoff elencando, con sintetica ma icastica sveltezza, le caratteristiche del prodotto). L’idea è tanto semplice da apparire banale: l’essenza dell’aperitivo piemontese è suggerita soltanto da due forme, una sfera e una mezza sfera che, in tensione verticale, rievocano il nome dell’alcolico. Per Gillo Dorfles è un “manifesto talmente famoso da essere ormai un classico non solo italiano, ma internazionale”. Una “declinazione totemica”, per usare ancora le parole di Maraniello, del vermut torinese che viene visiamente ridotto alle sue due principali specifiche tramite un’astrazione che mira a raggiungere, ancora, l’essenziale, puntando sulla forma pura e sul colore puro. Suprema sensibilità, alla Malevič: anzi, la sfera rossa ricorda il cerchio rosso del più interessante allievo del grande artista russo, Ilya Chashnik, un cerchio poi usato, a sua volta, per manifesti e copertine. E poi, notava uno storico dell’arte attento come Arturo Carlo Quintavalle, specializzato in arte rinascimentale, il Punt e Mes di Testa è anche un omaggio alla divina proportione di Luca Pacioli: come pressoché tutti i grandi artisti italiani del Novecento, anche Armando Testa non può rinunciare al confronto con la tradizione.

Armando Testa, Senza titolo
Armando Testa, Senza titolo (1967-1985; formica colorata, cornice livornese del 1850 ca.; Collezione Gemma De Angelis Testa)


Armando Testa, Sedia con matita
Armando Testa, Sedia con matita (1987; legno dipinto; Collezione Gemma De Angelis Testa)


Armando Testa, Punt e Mes
Armando Testa, Punt e Mes (1960; acrilico su tela; Collezione Gemma De Angelis Testa )

Da notare come l’astrazione geometrica sia sempre stata una costante nell’arte di Armando Testa, fin dagli esordi, quando, nel 1937, appena ventenne, vinse il concorso per un manifesto pubblicitario per un colorificio di Milano (ICI - Industria Colori Inchiostri), che poi non fu mai stampato ma che è considerato di rimarchevole importanza per trovare un “punto di partenza” di uno dei più grandi artisti della pubblicità che l’Italia abbia mai conosciuto: su un campo nero venivano appaiati due triangoli, uno giallo e uno rosso, che tra di loro lasciavano spazio sufficiente a consentire l’inserimento di un parallelogramma bianco. Ne scaturiva una specie di origami, una strana figura che non rimandava ad alcuna forma immediatamente riconducibile alla realtà concreta ma che, attraverso la sintesi, si faceva portatrice d’un carico di significati probabilmente più eloquente di qualsiasi altra più dettagliata allegoria. Le ricerche più originali di Malevič risalivano a circa quindici anni prima, e Mondrian doveva ancora partire per New York, città dove la sua arte avrebbe conosciuto nuovissimi impulsi: Testa, al quale non era mancata una buona dose d’audacia dacché il gusto del regime fascista non corrispondeva al suo, dimostrò subito di recepire questi input di altissimo livello. “La sintesi”, avrebbe poi dichiarato in seguito, “per me è stata una legge di vita nei segni e nelle parole. La sintesi è meravigliosa e, quando la usi, tutti te ne sono grati. Essere conciso, essenziale nel segno e nella forma, questa è la mia aspirazione”.

Di Testa stupisce anche la sua capacità di provare strade nuove, anche opposte rispetto a quelle battute fino a un dato momento del suo percorso artistico. Scriveva, ancora, Quintavalle: “Testa ha assimilato l’espressionismo astratto, gli è certo piaciuto Cy Twombly, gli è piaciuto Tobey, gli è più di tutti piaciuto Pollock e su questo strato, che spiega l’intervento vibrante dei segni che traversano certe sezioni della tela, ha saputo inserire un differente impianto di discorso che consiste nella costruzione di un’immagine come profondamente corrotta dall’interno, un’immagine dove la struttura si sgrana, dove non cogli un soggetto anche se il titolo vi allude”. Soprattutto nell’ultima fase della sua carriera (quando, quasi ottantenne, Armando Testa tentò di intensificare la sua produzione pittorica: temeva infatti che la critica tralasciasse le sue pitture, che pure rappresentavano per lui una modalità espressiva di elevata importanza) arrivò a sperimentare modi vicini a quelli degli espressionisti astratti: ne sono un esempio gli Spaghetti su tela che comunque, come è per pressoché tutte le opere di Armando Testa, non abbandonano mai del tutto il dato naturale, che qui sussiste sotto forma dell’oggetto stesso (gli spaghetti), del quale però viene sovvertito il significato. È come se questi spaghetti fossero un’espressione di quella sconfinata vitalità che animava le creazioni dell’artista, ma che nella grafica pubblicitaria era sempre legata a un messaggio da far arrivare in modo chiaro ai destinatari e che quindi nella pittura poteva trovare il proprio massimo compimento.

Armando Testa, Spaghetti su tela
Armando Testa, Spaghetti su tela (1991; fotografia a colori; Collezione Gemma De Angelis Testa)

Questo rapporto tra pittura e pubblicità è fondamentale per analizzare a fondo il percorso di Armando Testa. L’artista ravvisava una sorta di continuità tra la sua attività di grafico pubblicitario e quella di pittore, ma non solo: la pittura (e la sua era immediata quanto i suoi manifesti pubblicitari, ma più forte) era per lui un modo per ritrovare se stesso, per dare struttura a un linguaggio, forse anche una maniera di trovare quella grande libertà necessaria al lavoro creativo ma che nella pubblicità rimane comunque in subordine rispetto alle esigenze del committente e a quelle del target. Ancora Gillo Dorfles sosteneva che, qualora Armando Testa si fosse dedicato esclusivamente alla pittura, adesso staremmo parlando di uno dei più fecondi e talentuosi artisti sul confine tra naturalismo e astrazione, che trovava una peculiare originalità nel farsi interprete proprio di quell’espressionismo astratto che lo aveva tanto affascinato. Un’immagine che fa ben comprendere quanto fossero vasti l’estro, l’inventiva, la fantasia, l’ampiezza di vedute e la ricettività di questo grande “visualizzatore globale”.

Bibliografia di riferimento

  • Gianfranco Maraniello, Gemma De Angelis Testa (a cura di), Tutti gli “ismi” di Armando Testa, catalogo della mostra (Rovereto, MART, 22 luglio - 15 ottobre 2017), Electa, 2017
  • Ida Gianelli, Giorgio Verzotti, Gemma De Angelis Testa (a cura di), Armando Testa, catalogo della mostra (Rivoli, Castello di Rivoli, 21 febbraio - 13 maggio 2001), Charta, 2001
  • Gillo Dorfles, Preferenze critiche. Uno sguardo visivo sull’arte contemporanea, Dedalo, 1993
  • Germano Celant, Gillo Dorfles, Armando Testa. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 9 maggio - 11 luglio 1993), Electa, 1993
  • Omar Calabrese, Gillo Dorfles, Arturo Carlo Quintavalle, Armando Testa. Il segno e la pubblicità, catalogo della mostra (Torino, Mole Antonelliana, luglio - ottobre 1985), Mazzotta, 1985


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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