Fabio Viale: visioni oltre il virtuosismo


Recensione della mostra 'Door release' di Fabio Viale, al Fortino di Forte dei Marmi, dal 24 giugno al 3 settembre 2017.

Di Fabio Viale (Cuneo, 1975) conservo una memoria (ancorché piuttosto vaga) che rimonta alla Biennale di Carrara del 2008, quando l’artista piemontese portò all’ombra delle Apuane una sua scultura in marmo bianco che riproduceva un aeroplanino di carta. Allora come oggi, erano due gli assi portanti della sua ricerca artistica: il virtuosismo sulla materia, e quelli che i critici che di lui si sono occupati definiscono "spiazzamenti semantici“. Nel catalogo di quella mostra, Gabriella Serusi scriveva in tali termini a proposito della scultura di Fabio Viale: ”le opere sono frutto di un sottile gioco mentale innescato dall’artista per provocare slittamenti di senso e spiazzamenti percettivi. Con destrezza e ironia, Viale conduce lo spettatore dentro una finzione talmente reale da sembrare vera. Tutto può diventare occasione per esercitare un uso irriverente dell’immaginazione, tutto può finire nel mirino dell’arte: la realtà non aspetta che di essere trasformata, reinventata, ricodificata".

E fin dagli inizî della sua carriera, l’artista è sempre rimasto fedele a questa sua volontà di spiazzare l’osservatore, ma anche a quella sfida continua che la materia gli pone e che Fabio Viale decide di trasformare con gli strumenti dello scultore virtuoso che gli sono proprî. Per Viale, un blocco di marmo racchiude possibilità potenzialmente illimitate. Ce lo dimostra anche con la sua ultima personale, Door release, che si tiene quest’estate al Fortino di Forte dei Marmi e che è curata da un critico sensibile e preparato come Enrico Mattei. Da una parte, le sculture dello “spiazzamento” più logico ed evidente, quello inscenato dalle statue classiche che Viale copre di elaborati tatuaggi, talora evocanti i segni che portavano sulla pelle i detenuti delle carceri sovietiche, talaltra quelli dei criminali giapponesi della Yakuza. Sul fronte opposto, le sculture forse più ardite e ardimentose, quelle che riproducono copertoni piegati su se stessi o intrecciati a formare il simbolo dell’infinito, oppure grandi pneumatici di macchine movimento terra, o ancora i capolavori della classicità con il marmo che assume le sembianze del polistirolo: la durezza, la pesantezza e la nobiltà del materiale per eccellenza della scultura si scontrano con la fragilità del polimero da imballaggio, con la banalità grossolana delle ruote d’una ruspa.

Fabio Viale, Door release
Fabio Viale, Door release (2017; marmo bianco e pigmenti, 198 x 100 x 85 cm)


Fabio Viale, Venus
Fabio Viale, Venus (2017; marmo bianco e pigmenti, 214 x 68 x 65 cm)


Fabio Viale, Venus, Dettaglio
Fabio Viale, Venus, Dettaglio


Fabio Viale, Earth
Fabio Viale, Earth (2017; marmo nero, 162 x 138 x 96 cm)


Fabio Viale, Earth, Dettaglio
Fabio Viale, Earth, Dettaglio

Il visitatore è accolto, ancor prima di varcare l’ingresso del Fortino, dalla grande mano di Costantino, quella che si trova a Roma al Palazzo dei Conservatori, della quale Viale propone una riproduzione a grandezza naturale ma colma di tatuaggi dei criminali russi. Si tratta di Door release, l’opera che dà il titolo alla mostra. Strappata dal suo contesto, allontanata dagli altri resti della statua colossale di Costantino, issata su una base al centro della piazza principale della cittadina versiliese, spostata nella sua temporalità mediante l’apposizione dei segni sull’epidermide, la mano mantiene la propria carica di rappresentazione collettiva per assumere però significati diversi, ferma restando l’importanza dell’arte all’interno della sfera pubblica. Entrando poi nel Fortino, ci si trova dinnanzi alla Venere di Milo tatuata (Venus il nome scelto per l’opera): il “disorientamento percettivo” che contrappone la bellezza classica della Venere alla rudezza dei criptici tatuaggi sovietici, in una particolare sintesi tra scultura e pittura, aspira a catturare l’osservatore, probabilmente anche a farlo sentire a disagio. È una sorta di détournement situazionista rivisitato a sessant’anni di distanza: rispetto alle esperienze d’allora, tuttavia, lo “spiazzamento” di Viale manca dell’ironia feroce, della denuncia sociale, del sostrato politico. E non poteva essere diversamente: già alla fine degli anni Sessanta, Noszlopy scriveva che le avanguardie avevano raggiunto il paradossale effetto d’essere accettate dalla borghesia, e di conseguenza lo stesso linguaggio antitradizionale di Viale si muove all’interno di una tradizione, scontando un embourgeoisement che riguarda ormai grandissima parte dell’arte contemporanea.

Fabio Viale, Orbitale
Fabio Viale, Orbitale (2017; marmo nero, 63 x 90 x 67 cm)


Fabio Viale, Nike
Fabio Viale, Nike (2017; marmo bianco, 123 x 88 x 65 cm)


Fabio Viale, Nike, Dettaglio
Fabio Viale, Nike, Dettaglio


Fabio Viale, Venere Italica
Fabio Viale, Venere Italica (2016; marmo bianco, 53 x 41 x 45 cm)


Fabio Viale, Venere Italica, Dettaglio
Fabio Viale, Venere Italica, Dettaglio

Il grande pregio da riconoscere a Fabio Viale, tuttavia, è l’invito a guardare alla scultura, e al marmo, da una prospettiva diversa. Lo si comprende tanto da opere come Door release e Venus, quanto da realizzazioni come Orbitale, una camera d’aria sgonfia e ripiegata, o come Flatline, scultura in marmo bianco che riproduce una putrella di ferro, ma anche dalla Venere italica e dalla Nike “di polistirolo”. Lo slittamento semantico da un lato (Fabio Viale ha dichiarato più e più volte che, per lui, il passato non provoca alcun coinvolgimento e che le statue della classicità assumono il ruolo di icone), un’arte che si potrebbe quasi definire di pura mímesis dall’altro. Opere che procedono per contrasti, e opere che usano il mezzo dell’illusione per creare nello spettatore lo stesso sconvolgimento, lo stesso stupore causato dalla visione di tatuaggi su una statua antica. Un’illusione che Fabio Viale ottiene imitando, per mezzo del marmo, altri materiali. Il risultato è che la nostra stessa percezione della materia viene alterata: le opere dell’artista piemontese ci appaiono pervase da una incommensurabile leggerezza, e questa sensazione, peraltro, cresce se si ha la fortuna di toccare un’ala della Nike, o una ciocca di capelli della Venere italica. Una sfida che, anche in questo caso, s’inserisce nel solco di una ben definita tradizione, soprattutto se pensiamo al fatto che Fabio Viale ha lavorato spesso a Carrara, città che ha dato i natali a uno degli scultori più coraggiosi e ostinati della storia, ovvero Pietro Tacca, e che ha visto arrampicarsi sulle sue cave virtuosi d’ogni epoca, da Canova a Guadagnucci passando per schiere di artisti neoclassici, puristi, veristi, tutti accomunati dalla stessa volontà di oltrepassare i limiti imposti dalla materia.

Quello di Fabio Viale è l’iperrealismo barocco, fondato sulla poetica dell’ossimoro, di un artista non facile e non scontato, che colloca le proprie opere in una dimensione atemporale, evidenziando che la sopravvivenza delle immagini è questione di gesti che costellano il corso della storia (è vero che Viale non si sente direttamente chiamato in causa dalla memoria storica, ma è anche vero che l’artista deve fare i conti con la storia: in tal senso, anche Viale non può esimersi dal rileggere i simboli del passato), e che mira a stimolare nel pubblico che osserva le sue realizzazioni un sentimento che vada ben al di là del mero compiacimento estetico: c’è, in sostanza, una visione al di là del virtuosismo e dello spiazzamento. Ed è probabilmente in questa visione che risiede il senso più alto della ricerca di Fabio Viale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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