Sono terminati i restauri nella chiesa di San Miniato al Monte a Firenze, possibili grazie alla donazione di Friends of Florence, la Fondazione americana che dal 1998 sostiene la conservazione del patrimonio fiorentino e toscano, grazie ai suoi donatori che da tutto il mondo quotidianamente hanno a cuore il futuro di questi capolavori. L’intervento è stato realizzato sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Firenze e le Province di Pistoia e Prato, da una squadra di restauratori e professionisti della diagnostica e della conservazione.
Il restauro ha interessato più parti dell’Abbazia: l’abside con i suoi marmi e il mosaico nel catino, l’altare e il Cristo Crocefisso di terracotta invetriata, il Pulpito e la Transenna, il Busto reliquiario di San Miniato, quest’ultimo vincitore della V edizione del Premio Friends of Florence Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze organizzato dalla Fondazione in collaborazione con il Salone omonimo.
Prima del restauro le opere si trovavano in differenti stati conservativi: se pulpito e transenna (quest’ultima con le pitture murali sul retro), pur essendo in discrete condizioni, erano coperti da depositi coerenti e incoerenti, l’altare presentava un’alterazione piuttosto estesa in corrispondenza della cornice marcapiano, degli archi e della zoccolatura che appoggia sul sedile di marmo. Il Cristo Crocefisso, oltre a un elevato strato di deposito atmosferico, presentava vecchie integrazioni pittoriche sul perizoma e sulle braccia e aveva una mano totalmente staccata e sorretta da chiodi. Il mosaico del catino absidale, anch’esso coperto da depositi incoerenti e coerenti dovuti a polveri, depositi atmosferici e nero fumo che lo avevano opacizzato, era interessato da problematiche sia strutturali come lesioni e difetti di adesione degli intonaci, sia superficiali come sollevamenti di singole tessere e strati più superficiali del mosaico. La decorazione in alcune zone si presentava molto disordinata a causa di numerose stuccature alterate e debordanti e di estese ridipinture. Infine anche il busto reliquiario si presentava in uno stato conservativo compromesso sia per i materiali costitutivi del supporto - segnato da alcune rotture - sia per la policromia interessata da ridipinture e da numerosi sollevamenti del colore e della doratura.
L’intero lavoro è durato circa un anno, fra analisi sullo stato di conservazione, studio sulle tecniche esecutive di ciascun’opera, prove e pulitura, stuccature e ritocchi. Il team di restauratori ha lavorato in profonda sinergia, nel pieno rispetto dell’Abbazia e della comunità di monaci benedettini che la vive quotidianamente, consapevoli che prima di tutto San Miniato al Monte è un luogo di spiritualità e che la cultura è e deve continuare a esserne a supporto e a servizio. Ed è in quest’ottica che il restauro di ciascuna opera non è soltanto servito a conservare le superfici, ma è stato propizio per assicurarne la leggibilità, la fruibilità e per studiarne gli aspetti tecnici e storico-artistici.
I lavori si sono svolti sotto l’alta sorveglianza di Maria Maugeri e Lorenzo Sbaraglio, funzionari storici dell’arte della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Firenze e le Province di Pistoia e Prato. Il restauro della transenna, del pulpito, dell’abside e dell’altare è stato eseguito da Daniela Manna e Marina Vincenti con la collaborazione di Laura Benucci, Vittoria Bruni, Elisabetta Giacomelli, Simona Rindi. Il restauro della pittura murale sul retro della transenna è stato eseguito da Bartolomeo Ciccone, Donato Ciccone e Sara Chiaratti. Il restauro del catino absidale è a cura della ditta Habilis S.r.l. (Andrea Vigna e Paola Viviani) con la collaborazione di Stefania Franceschini, Chiaki Yamamoto, Eleonora Bonelli, Arianne Palla, Giulia Pistolesi e Marialuce Russo. Il restauro del Cristo Crocefisso in terracotta invetriata è stato eseguito da Filippo Tattini. Il restauro del Busto Reliquiario di San Miniato è stato eseguito da Anna Fulimeni con la collaborazione di Francesca Rocchi.
Documentazione fotografica: Antonio Quattrone; Torquato Perissi per il Busto di San Miniato. Documentazione fotografica con fluorescenza UV: Ottaviano Caruso. Indagini scientifiche a cura dell‘ISPC CNR di Firenze a cura di Donata Magrini, Barbara Salvadori, Silvia Vettori per i restauri alla transenna al pulpito, all’abside e all’altare; a cura di Cristiano Riminesi e Barbara Salvadori per il mosaico nel catino absidale. Indagini con spettrometro ELIO a raggi x per la caratterizzazione e localizzazione degli elementi presenti tramite acquisizione di mappe di distribuzione elementare a cura del Dipartimento di Scienze della Terra Università degli Studi di Firenze (Alba Santo, Sara Calandra). Indagini petrografiche su campioni di colore del Busto Reliquiario di San Miniato: Marcello Spampinato. Indagini diagnostiche sul Busto Reliquiario di San Miniato: TC c/o Istituto Fanfani, Firenze, Cecilia Volpe; RX, UV, IR,Teobaldo Pasquali. Apparecchiatura Laser per la pulitura della transenna, del pulpito e dell’abside: El.En. Group. Ponteggi: EdilCalosi S.n.c. Riprese video; Artmedia studio di Vincenzo Capalbo e Marilena Bertozzi, con la collaborazione di Federico Cavallini.
I restauri appena conclusi rappresentano l’ultima tappa di un percorso iniziato nel 2017 con il restauro della Cappella del Crocifisso e dei suoi arredi, sotto la direzione di Daniele Rapino (si tratta della cappella eretta nel 1447 su progetto di Michelozzo per custodire il miracoloso Crocifisso di san Giovanni Gualberto, trasferito nel 1671 nella Chiesa di santa Trinita e sull’altare sostituito con il polittico di Agnolo Gaddi raffigurante lo stesso santo fondatore dell’abbazia di Vallombrosa). Nel 2019, il cantiere si è spostato nella Cappella del Cardinale del Portogallo eretta a seguito della morte del giovane prelato nel 1459 su progetto di Antonio Rossellino con il contributo del fratello Bernardo, Luca della Robbia, i Pollaiolo e Alessio Baldovinetti. Attraverso il delicato lavoro di pulitura dal catafalco del giovane cardinale sono emerse le tracce di oro che un tempo segnavano gli ornamenti della tomba, mentre dalla terracotta invetriata della copertura di Luca della Robbia riappariva la foglia oro originale applicata a missione grazie all’uso del laser qui impiegato per la prima volta con il quale è stato possibile anche rimuovere le ridipinture in porporina ormai alterate.
Ancora aperto questo cantiere, iniziava il nostro progetto di restauro su tutti i marmi dell’area presbiteriale rialzata, il mosaico del catino absidale con il rivestimento marmoreo della fascia sottostante, l’altare e il suo Crocifisso. In contemporanea è stato restaurato il Busto reliquario di san Miniato attribuito a Nanni di Bartolo, opera vincitrice nel 2020 del bando promosso da Friends of Florence in collaborazione con la segreteria organizzativa del Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze.
I lavori di restauro attuali sono iniziati nella primavera del 2022 dalla transenna marmorea e dall’ambone, già smontati nel 1910 dall’Opificio delle Pietre Dure, per procedere con la pulitura e le integrazioni delle fratture, pezzi unici dell’arte romanica ampiamente studiati da Guido Tigler e da Nicoletta Matteuzzi, che li datano in un periodo compreso fra il 1160 e il 1175. La transenna che recinge il coro è ripartita in formelle quadrate recanti all’interno dei rosoni finemente intagliati, decorazione questa, prossima ai motivi decorativi delle formelle dello smembrato recinto del fonte battesimale del Battistero di Firenze, ora conservati al Museo dell’Opera del Duomo. Nella sua impostazione l’ambone ripropone quello ultimato intorno al 1162 da Guglielmo per il Duomo di Pisa, ora nella Cattedrale di Cagliari, rimosso nel 1310 per lasciare spazio a quello di Giovanni Pisano. Un modello, quello di Guglielmo, diffusosi per tutta la Toscana: un esempio su tutti è l’ambone di Taglia di Guglielmo per la Cattedrale di Pistoia, con la variante fiorentina dove al figurato si è preferita la decorazione geometrica. L’ambone di san Miniato servì da modello ispiratore per altri esempi eseguiti in anni successivi, fra cui il più prossimo risulta essere è quello della Pieve di Sant’Agata in Mugello, in cui è riportata la data di esecuzione 1775, per la presenza del medesimo gruppo scultoreo, letto in chiave iconologica da Giovanni Serafini come la celebrazione della Resurrezione, composto dalla testa di leone poggiante su di una mensola modellata a foglia d’acanto, sopra la quale si alza la figura umana, una sorta di telamone a sostegno dell’aquila che a sua volta regge il littorile.
Di esecuzione più tarda è l’altare che, rispetto alla decorazione della transenna, dell’ambone e del rivestimento marmoreo del catino absidale, mostra un aggiornamento della partitura geometrica attraverso l’inserimento di due anfore stilizzate ai lati della specchiatura frontale.
Per quanto riguarda il mosaico del catino absidale, il restauro conferma quanto aveva già ampiamente argomentato Angelo Tartuferi, cioè in altre parole che esso è stato realizzato in due fasi, la fascia superiore, attribuita dallo stesso studioso al Maestro di sant’Agata datandola al 1260 circa, con Cristo Pantocratore affiancato da un lato da san Miniato che nel suo ruolo di re di Armenia gli dona la sua corona e, dal lato opposto, una Madonna poco leggibile nella sua originalità in quanto ampiamente rimaneggiata dal restauro ottocentesco. La fascia inferiore fu aggiornata con i simboli dei quattro Evangelisti intorno al 1297, data posta in calce nel catino e ammissibile nonostante le tessere originali siano state parzialmente sostituite.
Prima dell’attuale restauro, l’osservazione dal basso suggeriva la necessità di una generale pulitura per restituire lucentezza alle tessere, ma le reali condizioni conservative sono state chiare solo dopo il montaggio del ponteggio quando è stato accertato il distacco di tante tessere originali. Se è difficile circoscrivere l’intervento del 1491 di Alessio Baldovinetti, che spese gli ultimi anni della sua attività alla cura dei mosaici di San Miniato, più leggibile è stata la vasta porzione, con maggiore insistenza nella parete sinistra, soggetta al ricambio di tessere fatte arrivare direttamente da Venezia dal maestro vetraio Sante Antonio Gazzetta nel 1860, “eguagliandolo al nuovo, a segno di non distinguere da questo a quello”, un pensiero specchio della metodica del tempo orientata a rifacimenti piuttosto che a mantenere comprensibile l’intervento ed il pensiero originale dell’artista. Più contenuta è invece la sostituzione di tessere da parte dell’Opificio delle Pietre Dure nel 1907. Per sintetizzare, dopo i restauri del passato, l’area più integra di tutto il mosaico è l’area destra, parte della fascia sottostante e la decorazione dell’intradosso dell’arco, con il rifacimento totale di alcune porzioni, fra cui la figura della Madonna per la quale non è comprensibile quanto e se sia stato manomesso il disegno originario.
In fase di progettazione tutti noi abbiamo convenuto di includere nel progetto di restauro anche il Cristo Crocifisso in terracotta invetriata posto sull’altare maggiore, già attribuito a Luca della Robbia e giustamente ricondotto alla bottega di Benedetto Buglioni da Giancarlo Gentilini. Non una scultura plasmata a tutto tondo, bensì una figura appiattita e il dorso incavato, indice a mio parere che essa è ciò che resta di una composizione posta entro una nicchia demolita. L’adattamento a Crocifisso d’altare risale alla fine dell’Ottocento, datazione suggerita dalla croce lignea più antica applicata ad un’altra croce di maggiore dimensione nel 1930, quando l’opera è stata sottoposta ad un restauro per riattaccare le braccia al torso.
Molto complesso a causa delle troppe ridipinture di passati restauri non documentati, è stato l’intervento sul Busto reliquario di San Miniato, così menzionato dalle fonti, anche se la TAC non ha riscontrato all’interno della scultura nessun oggetto, da qui la deduzione che la reliquia si trovasse nel perduto basamento, poi sostituito con quello moderno.
Il Busto, di pregiata fattura, è stato condotto ad ambito senese dal Carli, forse Antonio Federighi formatosi nel 1438 all’ombra di Jacopo della Quercia nel cantiere del Duomo di Siena, mentre il nome di Baccio da Montelupo è riportato in una nota a margine di una riproduzione conservata nella fototeca del Kunsthistorisches Institut di Firenze. Più convincente invece è l’attribuzione a Nanni di Bartolo, documentato a partire del 1419 accanto a Donatello nel cantiere di Santa Maria del Fiore, confortata dal raffronto fra questa scultura e la Madonna con Bambino del Convento di Ognissanti, esposta alla grande mostra su Donatello a Palazzo Strozzi, per la comunanza della fisicità della figura e la struttura del panneggio. Accreditando questa attribuzione, la datazione del Busto reliquario di san Miniato dovrebbe cadere entro il 1423, data questa che segna la precipitosa fuga di Nanni da Firenze per debiti l’11 febbraio 1424, riparando a Venezia dove ottenne prestigiose commissioni per la Basilica di San Marco e per Palazzo Ducale.
La transenna, posta sul presbiterio a separare lo spazio della Gerusalemme Celeste dedicato alla preghiera, è costituita da due tratti brevi e due più lunghi con tre ingressi per accedere, sulla sinistra all’organo e sulla destra al coro e alla sagrestia. La transenna, oggetto nel tempo di manutenzioni e restauri con consistenti in sostituzione di porzioni di modanature e cornici usurate o danneggiate, è in un discreto stato conservativo. Le porzioni di restauro sono distinguibili per una cromia dei materiali utilizzati leggermente più chiara. Piccole ricostruzioni di elementi decorativi delle cornici sono state realizzate in gesso alabastrino. Su tutta la superficie sono stati rilevati depositi incoerenti e coerenti soprattutto in corrispondenza degli elementi angolari degli stipiti ai lati degli ingressi nonché sui rilievi delle formelle decorative particolarmente “attraenti” per le mani dei visitatori per la raffinata e minuziosa tecnica scultorea. In particolare, all’interno degli intagli era visibile una polvere consistente con fibre di colore rosato presumibilmente residuo di una pasta abrasiva utilizzata in precedenti interventi di lucidatura e manutenzione associate a residui di sostanze cerose applicate in passato. Localmente si rilevavano macchie nere derivanti da combustioni disomogenee. Gli elementi in serpentino presentavano un degrado differenziato con fenomeni di disgregazione, di scagliature, opacizzazioni e stuccature di rifacimento, associate a piccole mancanze di piccole dimensioni sia delle decorazioni vegetali delle cornici in marmo sia di piccole porzioni delle tarsie al di sotto dell’ambone. Elementi metallici, quali grappe e perni, erano presenti ai lati degli ingressi e visibili nella parte superiore della transenna.
L’intervento di restauro è stato scandito dalle seguenti fasi: 1. Accurata rimozione dei depositi di natura incoerente con aspirapolvere a bassa e media potenza con ausilio di pennelli a setole morbide di varie dimensioni; 2. Asportazione meccanica con ausilio di bisturi delle tracce di cera e delle stuccature instabili e decoese; 3. Pulitura con tamponi di cotone idrofilo imbevuti in alcool decolorato ed acetone puro e successiva rimozione dei depositi di natura più coerente con acqua demineralizzata. Ove necessario, e localmente, è stata utilizzata una soluzione acquosa di carbonato d’ammonio al 10% supportata da carta giapponese di medio spessore con ripetuti risciacqui con acqua demineralizzata; 4. Gli elementi in serpentino più deteriorati sono stati consolidati con silicato di etile applicato a pennello fino a completa imbibizione; 5. Le mancanze di piccole e medie dimensioni sono state integrate con stucco Polifilla, quelle di profondità con sabbia di fiume e grassello di calce, quelle di marmo rosa con polvere di marmo Rosso di Verona e quelle di serpentino con polveri di marmo nero e verde aggregate da microemulsione acrilica; 6. Le stuccature sono state infine velate ad acquarello.
Il pulpito poggia, dal lato del camminamento, su due colonne in breccia con capitelli in marmo in stile corinzio composito, mentre l’altro poggia direttamente sulla transenna. La trabeazione è costituita da una cornice in marmo in continuità con quella della transenna ed una cornice modanata in serpentino. Ciascun lato del pulpito è costituito da due riquadri con rosone centrale circondati da tarsie geometriche in serpentino e in marmo, inseriti in cornici di marmo. Sui riquadri corre un fregio con tarsie in serpentino e in marmo come il cornicione. Sul lato frontale del pulpito, al centro dei due riquadri, una mensola in marmo lavorato con foglie di acanto sorregge un leoncino sul quale è posto un telamone monaco con capitello a sostegno dell’aquila reggi leggio in marmo. Tutte le sculture hanno occhi in pasta vitrea.
Si è rilevato un discreto stato di conservazione con depositi di natura coerente ed incoerente piuttosto estesi. Le colonne ed i capitelli si presentavano particolarmente alterati cromaticamente per la presenza di sostanze grasse/cerose applicate durante trascorsi interventi di manutenzione. I capitelli dall’intaglio delicato, hanno subito perdite di piccole porzioni di materia con evidenti residui di cere e di combustioni di colore nerastro. La pavimentazione del pulpito in pietra serena recava crepe e ed esfoliazioni nella parte visibile sottostante, causate, molto probabilmente, da pregresse infiltrazioni d’acqua. Le specchiature e le cornici in marmo e in serpentino sono in buono stato di conservazione. Le sculture recavano depositi coerenti ed incoerenti e macchie brune solo in corrispondenza del muso del leoncello.
L’intervento di restauro è stato scandito dalle seguenti fasi: 1. Accurata rimozione dei depositi di natura incoerente con aspirapolvere a bassa e media potenza con ausilio di pennelli a setole morbide di varie dimensioni; 2. Utilizzo di apparecchiatura laser per l’asportazione di sostanze di colore nerastro visibili sul capitello sinistro; 3. Asportazione meccanica delle tracce di cera e stuccature fatiscenti; 4. Pulitura con tamponi di cotone idrofilo imbevuti in alcool decolorato e acetone puro e, ove necessario, localmente con White Spirit.
L’abside è composta da cinque nicchie intervallate da colonne in serpentino con capitelli di marmo in stile corinzio composito. Tutti gli elementi decorativi sono in marmo e serpentino. Le lastre di fondo sono in breccia di Serravezza. Tutti gli elementi in serpentino presentavano un’alterazione piuttosto estesa in corrispondenza della cornice marcapiano, degli archi e della zoccolatura in appoggio sul sedile di marmo. Gli elementi di marmo si presentavano in un discreto stato di conservazione a differenza dei capitelli per la presenza di una patinatura a base di calce piuttosto coerente al substrato lapideo. Erano piuttosto estesi i rifacimenti e le integrazioni sugli elementi in serpentino. Molto probabilmente si trattava di resine poliesteri utilizzate nel corso delle manutenzioni più recenti che hanno provocato, durante l’intervento, estese abrasioni sulle superfici di marmo originali.
Dopo un’accurata spolveratura con aspirapolvere e pennelli a setole morbide di varie dimensioni, è stato possibile eseguire una serie di test preliminari di pulitura. Gli elementi di marmo sono stati puliti con acqua demineralizzata e spugne morbide compatte previo sgrassaggio con compresse di cotone idrofilo imbevute in alcool decolorato ed acetone puro e, successivamente, con tamponi imbevuti in White Spirit. Solo localmente sono state applicate velinature di carta giapponese media per supportare una soluzione basica al 10% con l’intento di rimuovere i depositi di natura più coerente. Per la rimozione parziale delle incrostazioni calcaree sui capitelli sono state utilizzate resine a scambio cationico in tempi differenziati. Gli elementi in serpentino sono stati puliti con acqua e spugne morbide compatte consolidando contemporaneamente le superfici con silicato di litio applicato a pennello fino a completa imbibizione risciacquando scrupolosamente le zone trattate per eventuali eccessi di prodotto. Le fughe tra i blocchi sono state parzialmente integrate con Polifilla mentre le mancanze sul serpentino sono state integrate con polveri di marmo simili all’originale aggregate da microemulsione acrilica. È stato poi deciso di mascherare le vecchie integrazioni in resina con tempere, colori acrili ed acquerelli a seconda delle zone.
Anche l’altare è stato oggetto di una pulitura in varie fasi: 1. Sgrassaggio delle superfici con tamponi di cotone idrofilo imbevuti in alcool decolorato ed acetone puro; 2.Rimozione dei depositi di natura più coerente con spugne morbide compatte; 3.Rimozione meccanica con bisturi delle gocciolature di cera, parziale per le stratificazioni cerose con tamponi di cotone idrofilo imbevuti in White Spirit; 4.Stuccature delle fughe nei punti di giuntura tra i blocchi con polifilla e successiva mascheratura con acquerelli.
La tecnica esecutiva del mosaico parietale è quella diretta che prevede l’applicazione delle tessere su un intonaco ancora fresco, sul quale è stato eseguito un disegno preparatorio. Lavorando in situ, il mosaicista connota la scena con effetti chiaroscurali tramite l’inclinazione, l’andamento e l’allettamento delle tessere. La calotta absidale mosaicata ha un’area di circa 55 mq ed esprime con la sua impostazione iconografica ed iconologica la didattica delle comunità monastiche. Il mosaico di San Miniato è stato probabilmente realizzato in più fasi dagli anni Settanta del Duecento. Una delle peculiarità di questo mosaico è la tecnica esecutiva che si avvale di molti materiali lapidei naturali e artificiali e differenti tipologie di paste vitree. A un restauro ottocentesco documentato, per opera di Antonio Gazzetta, si deve un imponente rifacimento a mosaico con la tecnica indiretta, con il quale si è perso la tipica irregolarità della superficie musiva, per un mosaico molto planare e regolare nella disposizione delle tessere.
Il mosaico è costituito da tessere lapidee, vitree, a lamina d’oro, ceramiche e con frequenza minore, tessere lapidee dipinte. Particolarmente rilevante è la resa dei volti, le tessere qui sono di dimensioni molto ridotte con una tessitura irregolare.
Vista la complessità materica del mosaico di San Miniato, si è proceduto allo studio e alla classificazione della tipologia di tutte le tessere musive presenti, ordinandole in tabelle descrittive corredate da macro e microfotografie con riferimento metrico. La metodica classificazione ha semplificato la ricostruzione delle fasi esecutive originali e di restauro, favorendo la progettazione dell’intervento di restauro.
L’osservazione delle superfici e la campagna diagnostica condotta dal CNR, hanno evidenziato la presenza di problematiche strutturali (lesioni e difetti di adesione degli intonaci) e superficiali (sollevamenti di singole tessere e strati più superficiali del mosaico). La superficie era interamente coperta da depositi incoerenti e coerenti, dovuti a polveri, depositi atmosferici inquinanti e nero fumo che avevano fortemente opacizzato il mosaico. La decorazione appariva in alcune zone molto disordinata a causa di numerose stuccature alterate e debordanti, riconducibili a più fasi pregresse. Sono state riscontrate stuccature interstiziali eseguite tramite boiaccature molto fluide in corrispondenza del volto di San Miniato e del collo di un cherubino. Le tessere che presentavano maggiormente un avanzato degrado erano quelle lapidee di marmo bianco, le tessere in marmo bianco dipinto e le tessere in stucco. Le tessere vitree a foglia d’oro presentavano danni tipici legati alla struttura a strati, con sollevamenti e fessurazioni di cartelline. Altro elemento di degrado era la presenza di estese ridipinture che coprivano molte aree di tessere. Il colore principalmente impiegato era un blu intenso che le analisi hanno identificato con il blu di Prussia.
Al fine di ampliare la conoscenza dell’opera e il suo stato di conservazione, si è avviata una campagna diagnostica, prima tramite tecniche non invasive (Termografia-IR, Imaging multispettrale, XRF) e successivamente tramite indagini invasive (Spettroscopia FT-IR, SEM). Al fine di comprendere la stabilità strutturale degli intonaci dell’intera calotta absidale, si è proceduto a un’indagine termografica prima totale e successivamente nelle zone che presentavano maggiori problemi di distacco di intonaco. L’indagine ha infine consentito di mappare i principali distacchi di intonaco, la ripresa in fluorescenza UV ha permesso in prima battuta il riconoscimento dei materiali organici e inorganici, l’imaging ha inoltre favorito l’individuazione degli interventi di restauro.Per caratterizzare la natura di alcune tessere e le differenti malte di allettamento, mai studiate finora, sono stati prelevati campioni di malta e campioni di tessere.
Quanto all’intervento di restauro, i depositi sono stati rimossi in più fasi: prima tramite pennellesse morbide e micro-aspiratori, smoke sponge, fermature con infiltrazioni di malta idraulica PLM-A® e miscele di resine acriliche in emulsione acquosa, per la riadesione delle cartelline è stato impiegato il Paraloid® B72 in bassa percentuale. I depositi coerenti sono stati rimossi tramite impacchi di ammonio bicarbonato in Nevek®. Intonaci PLM perni in carbonio e resina epossidica stuccatura calce e sabbia malta incisa ritocco con tempere vernici e resina Laropal.
Le pitture murali in questione ubicate presso la chiesa di San Miniato al Monte a Firenze decorano il retro del lato destro della transenna marmorea con elementi decorativi architettonici, finti marmi, cornici ed iscrizioni in latino. Le pitture oltre che ad essere un compendio decorativo alla già ornata e ricca decorazione marmorea fungevano da monito per i monaci che si recavano a pregare in quanto l’iscrizione in latino li avvertiva che “quando siete di fronte a Dio non siate lontani dal cuore perché se il cuore non prega invano la lingua lavora”. Le pittura risalgono probabilmente al periodo più antico della chiesa, possiamo ipotizzare un’esecuzione tra i secoli XIII e XIV.
Per quanto riguarda la tecnica esecutiva ci troviamo davanti ad una pittura alla calce su intonaco fresco per la porzione di decorazione adiacente alla scalinata di accesso al pulpito, mentre a buon fresco per quella posta vicino all’ingresso del chiostro, fatta eccezione per le grandi porzioni di rifacimenti d’intonaco eseguiti lo scorso secolo a calce.
Lo stato di conservazione si presentava tutto sommato buono, fatta eccezione per le numerose ridipinture presenti e per qualche distacco d’intonaco in procinto di cadere. La pellicola pittorica si trovava in buone condizione conservative. Dopo una preliminare rimozione a secco dei depositi incoerenti tramite spugne in lattice vulcanizzato la pulitura è stata condotta con soluzione satura di carbonato d’ammonio applicato a pennello su fogli di pura cellulosa. Le estese ridipinture a tempera lavabile, applicate negli ultimi restauri, sono state rimosse a tampone con solventi organici. I consolidamenti sono stati effettuati con malta da iniezione PLM AL e le stuccature con malta a base di calce e sabbia. Il ritocco pittorico è stato condotto con acquerelli.
Il Crocefisso in terracotta invetriata, attribuito alla bottega dei Buglioni, è datato 1515 circa. Probabilmente negli anni l’opera ha subito vari spostamenti e non si esclude che facesse parte di una pala più completa, tipica delle raffigurazione delle botteghe dei della Robbia e dei Buglioni stessi. L’opera, infatti, è montata su una doppia croce lignea: la prima più piccola e più antica, l’altra più recente, probabilmente realizzata proprio per collocarsi nella zona absidale dietro al trono centrale. Il Crocefisso presenta una foggiatura insolita, poiché il modellato, da una visione laterale, si presenta con esigui spessori, mentre la testa è realizzata in altorilievo. Solo la testa si mostra ben svuotata dall’interno, mentre tutto il resto della figura ha pochi accenni di svuotatura. Il modellato si compone di quattro porzioni: le gambe, la parte che comprende il busto e la testa e le due braccia. La composizione è fatta in modo da essere autoportante: ogni pezzo va ad incastrarsi con quello adiacente, supportandosi l’uno con l’altro.
L’opera presentava un elevato strato di deposito atmosferico, oltre a vecchie integrazioni pittoriche ormai alterate presenti, in particolare sul perizoma e sulle braccia. La mano sinistra era totalmente staccata e sorretta soltanto da alcuni chiodi.
L’attuale intervento conservativo ha previsto lo smontaggio del Crocefisso dai supporti lignei. Dopodiché si è eseguita una pulitura superficiale che ha previsto la rimozione o la riduzione a livello della superficie originale dei vecchi interventi alterati. La mano distaccata è stata ripulita in frattura ed incollata nella corretta posizione. Sono state effettuate integrazioni materiche e pittoriche delle lacune. Infine l’opera è stata nuovamente montata sulle due croci lignee.
Il busto polimaterico del 1420 circa, realizzato in legno, stucco e cartapesta e raffigurante San Miniato, il soldato armeno giunto a Firenze dove fu decapitato durante le persecuzioni dell’imperatore Decio divenendo il primo martire della città, è una scultura nota alla letteratura artistica la cui straordinaria bellezza ha suggerito come autore i più rappresentativi della scultura toscana del Quattrocento: Carlo Del Bravo la riferì ad Antonio Federighi; la Martini l’attribuì a Nanni di Bartolo e Luciano Bellosi a Donatello per la profonda affinità con le opere del secondo decennio del Quattrocento. L’opera è scolpita in un blocco di legno scavato all’interno; la cartapesta è stata utilizzata per eseguire alcune parti dell’interno del panneggio. Il manto è rivestito da una tela a trama grossa e ammannita per ricevere la preparazione a gesso, il bolo e la doratura in foglia. Nei polsi il decoro presenta una bulinatura e foglia in argento.
Durante la fase preliminare del restauro, l’opera è stata sottoposta a indagini diagnostiche tramite TC, RX, UV e IR seguite da indagini sul colore e sulla doratura per comprendere la tecnica artistica e lo stato di conservazione. È stato appurato che l’opera era in cattivo stato di conservazione. La policromia del carnato era oscurata da ridipinture stese nel tempo per ragioni devozionali: il volto era stato pesantemente ‘rinfrescato’. Estesi sollevamenti della doratura erano presenti nella veste e nei capelli. La vistosa trama punzonata sul bordo della veste, le nappe, il fermaglio che stringe la tunica e la corona si presentavano offuscate e ridipinte.
In accordo con la Direzione dei Lavori si è proceduto alla disinfestazione dell’opera a base di Permetrina, seppure l’attacco dei tarli non era attivo, quale prevenzione futura. In alcune parti lignee dove erano presenti fragilità, in particolare nel collo, è stato eseguito un consolidamento con resina Balsite. Successivamente è stata effettuata la fermatura della pellicola pittorica con colla di origine organica e carta giapponese.
Per caratterizzare le superfici pittoriche da trattare sono stati eseguiti i prelievi stratigrafici e saggi che nel carnato hanno individuato tre stesure di colore rosa applicate su altrettante preparazioni a gesso. Nelle parti rese lucenti dalla doratura (capelli, manto e veste) si notano due applicazioni di foglia d’oro con preparazione a bolo. Sui bordi della veste sono presenti tracce di foglia in argento. Nella corona dorata sono inserite delle gemme in pastiglia e pasta vitrea. Nel carnato, attraverso una pulitura graduale volta al ripristino della stesura pittorica più antica, composta da biacca e cinabro, è stato applicato il Solvent Gels con acetone e alcool benzilico poi rifinito con vari passaggi a bisturi; nella doratura composta da doratura a foglia oro su preparazione a bolo rosso è stata utilizzata un’emulsione grassa neutra ripetuta più volte per la presenza di vernici e beveroni applicati nel corso del tempo.
A questa fase sono seguite la stuccatura a gesso e colla delle lacune presenti sulla policromia e la stuccatura dei fori dei tarli nelle parti a legno. L’integrazione pittorica delle lacune presenti sulla policromia del carnato è stata eseguita tramite selezione cromatica con colori a vernice; le lacune in oro sono state risarcite con il bolo e l’oro in conchiglia cui è seguita una protezione finale a vernice Matt nell’oro e nel carnato.
Il restauro ha recuperato i valori espressivi del busto concepito come una statua a tutto tondo. Di straordinaria qualità è anche il retro intagliato e modellato con grande perizia nell’articolazione del manto risolto con pieghe di sorprendente bellezza. La policromia diafana dell’incarnato di colore rosa chiaro del giovane santo dallo sguardo contemplativo con una corona sul capo impreziosita da gemme che affonda nella plastica massa dei capelli dorati, come la veste frastagliata dove spiccano le mani in posa raffinata, restituisce, a questa scultura dipinta, una luminosa bellezza quasi fosse un oggetto di oreficeria sacra.
“Come è ineffabile lo stupore generato dalla contemplazione della bellezza del mosaico bizantino e degli altri preziosi apparati in marmo che anticipano qui in terra qualcosa dello splendore della Gerusalemme Celeste”, afferma l’Abate di San Miniato al Monte, padre Bernardo Gianni, “così è davvero altrettanto difficile per noi trovare sillabe adeguate per esprimere la gioia, la gratitudine e l’ammirazione della intera comunità monastica di San Miniato al Monte di fronte al concorso di amore, competenza, dedizione e soprattutto disinteressata generosità che hanno reso possibile l’impresa condotta adesso a termine, sotto lo sguardo scrupoloso e partecipe della Sovrintendenza fiorentina e in particolare della dottoressa Maria Maugeri, da maestranze che con insonne passione hanno restituito questo capitolo fondamentale dell’arte e dell’architettura di Toscana al suo sorgivo nitore. Desiderio ringraziare in modo tutto speciale e con perenne e orante memoria l’impegno straordinario e costante dei Friends of Florence per la salvaguardia del patrimonio millenario di San Miniato al Monte e, con una intensità tutta speciale, quello davvero eccezionale della famiglia Simon che dona a Firenze e al mondo intero tanta ritrovata meraviglia”.
“San Miniato è da sempre nel cuore di Friends of Florence: è di pochi anni fa il sostegno ai restauri del Tempietto e della Cappella del Cardinal di Portogallo”, sottolinea la Presidente di Friends of Florence Simonetta Brandolini d’Adda, “questi nuovi interventi permettono di apprezzare e vivere nel profondo la bellezza che l’Abbazia dona a chi vi entra per pregare, per conoscere, per ammirare. I restauri consentono di restituire alla comunità di tutto il mondo, un patrimonio d’inestimabile valore fatto di dettagli che finalmente tornano visibili e arricchiscono una narrazione che potrà essere raccontata per gli anni a venire. Ringrazio a nome della nostra fondazione la Dott.ssa Maria Maugeri funzionaria della Soprintendenza ABAP di Firenze che ha diretto i lavori, l’Abate Padre Bernardo Gianni e la Comunità dei monaci di San Miniato al Monte per aver accolto l’intervento di restauro, e tutto il team di restauratori che sono intervenuti sulle opere assicurando a tutti noi e alle future generazioni di persone la fruizione di questi capolavori. E infine un grazie speciale va alla nostra consigliera Stacy Simon che ha scelto di sostenere il restauro in memoria di suo marito Bruce: è proprio attraverso il suo dono che abbiamo potuto realizzare l’intero progetto di restauro”.
“Un intervento minuzioso e approfondito che ha richiesto grande impegno e passione: poter ammirare in tutta la sua bellezza queste parti restaurate dell’Abbazia è un vero e proprio dono alla città e questo è il risultato straordinario di un grande lavoro di squadra”, sottolinea la vicesindaca e assessora alla Cultura Alessia Bettini. “Non possiamo che dire grazie a Friends of Florence che da sempre sostiene il patrimonio artistico e monumentale fiorentino. Un esempio di generosità, cittadinanza attiva, amore per Firenze e per l’arte e la cultura”.
“Il restauro ci permette di apprezzare molto di più e meglio l’intera area presbiteriale, lo spezio sacro della preghiera riservato alle celebrazioni e ai monaci, sopraelevato dall’aula e ricchissimo di opere insigni”, afferma la Soprintendente Antonella Ranaladi. “Le transenne, il pulpito, il Crocefisso, il Busto di San Miniato, gli affreschi e gli splendidi mosaici sono stati restaurati e studiati da eccellenti specialisti. Nel mosaico si sono riconosciute le parti originali dove grandeggia proprio il volto di Cristo, risalente al 1270 circa, dai rifacimenti e restauri successivi tra cui quelli estesi ottocenteschi. Inoltre si può apprezzare la varietà dei materiali, le modalità di esecuzione di artisti e maestranze. Sono opere che erano corali e tornano a essere corali nel restauro compiuto, grazie al contributo di specialisti eccellenti e all’attenzione e alla generosità di Friends of Florence che conferma qui in San Miniato il suo amore per Firenze. Grazie”.