No, nessuno ha scoperto i “resti delle Colonne d'Ercole” in Spagna


Spiace deludere, ma nessuno in Spagna ha scoperto i “resti delle Colonne d’Ercole” in Spagna. Ecco cosa c’è di vero nella notizia rimbalzata sui giornali italiani nelle ultime ore.

In Spagna sono stati davvero scoperti i “resti delle Colonne d’Ercole” come nelle ultime ore hanno titolato molti giornali, per esempio Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Il Secolo d’Italia e altri? Ovviamente no: tutto frutto di una gran confusione tra storia e leggenda e di titoli sensazionalistici che hanno riportato in termini molto più roboanti del dovuto una scoperta che non ha niente. “Un gruppo di ricercatori in Spagna”, scrive per esempio Repubblica in un articolo pubblicato quest’oggi, “porta nuova luce sui resti proprio di quelle colonne di Ercole su cui tanto, a cominciare da Dante, la letteratura occidentale si è interrogata”.

Ma è davvero così? Sono stati trovati resti di due costruzioni mitologiche sulla cui posizione neppure gli autori antichi erano d’accordo? Se fosse vero sarebbe la notizia archeologica del secolo, sarebbe come se qualcuno avesse scoperto i resti di Atlantide, per esempio. Ma ovviamente nessuno ha scoperto le colonne d’Ercole. Vediamo dunque cosa c’è di vero nella notizia.

Il monumento alle colonne d'Ercole di Ceuta (2005)
Il monumento alle colonne d’Ercole di Ceuta (2005)
L'articolo di Repubblica
L’articolo di Repubblica

La scoperta vera (che è comunque dibattuta): la possibile ubicazione del tempio di Ercole Gaditano

Su Finestre sull’Arte avevamo già dato notizia, lo scorso 17 dicembre, della scoperta che è stata equivocata in queste ore da molti giornali nostrani come il rinvenimento delle Colonne d’Ercole: in realtà non c’è niente di mitologico, la scoperta è molto più prosaica. In breve, alcuni ricercatori dell’Università di Siviglia e dell’Instituto Andaluz del Patrimonio Histórico (IAPH) hanno scoperto la possibile ubicazione del tempio di Ercole Gaditano, un complesso citato nei documenti antichi ma di cui non sono rimaste tracce (e molti peraltro hanno cercato indizi per decenni dell’esistenza e dell’ubicazione di questo importante santuario). L’ipotesi era stata formulata da un dottorando dell’Università di Siviglia, Ricardo Belizón Aragón, supportato dai suoi colleghi: a suo dire, le tracce del tempio sarebbero state rinvenute nel canale Sancti Petri, area che si trova nei pressi della baia di Cadice. Tutto questo attraverso analisi dei rilievi del territorio con un apposito software che sfrutta la tecnologia LiDAR (Light Detection and Ranging).

“I dati raccolti”, spiegava l’Università di Siviglia in una nota, “hanno messo in luce l’esistenza nell’antichità di un ambiente totalmente diverso da quello fin qui ipotizzato: un nuovo paesaggio costiero e un litorale fortemente antropizzato fin dall’antichità, con la presenza di possibili frangiflutti, grandi fabbricati e anche possibile molo porto chiuso”. In breve, nella baia di Cadice, secondo Belizón Aragón e colleghi, ci sarebbero tracce di antichi edifici che, si legge ancora nel comunicato diffuso dall’Università, “possono avere una correlazione con le informazioni che autori antichi come Strabone, Silio Italico o Filostrato forniscono sul Santuario di Melqart”, che devono comunque “essere approfonditi per ricostruire la storia del territorio e determinarne la cronologia , tipologia e usi di ciascuna delle strutture rilevate”. Anche se gli esperti che hanno lavorato alla ricerca guardano con fiducia ai risultati dello studio: “Le fonti documentarie che abbiamo analizzato, le informazioni archeologiche insieme alle immagini ottenute con i modelli digitali del sito”, ha detto a Euronews Milagros Alzaga García, a capo del Centro per l’Archeologia Subacquea dello IAPH, “ci portano a credere che questo potrebbe essere il mitico tempio di Ercole”.

Il prosieguo della ricerca, spiegava ancora l’ateneo andaluso, si concentrerà “sullo svolgimento di indagini archeologiche (terrestri e subacquee), studi documentari e geoarcheologici specifici e campionamenti paleoambientali”. Il tutto con l’obiettivo di “promuovere la conoscenza del nostro passato” e di “valorizzare alcuni eccezionali resti archeologici che consentono alla società andalusa di conoscere e godere di un aspetto singolarmente notevole della sua storia”. Quello che era chiaro fin da subito agli studiosi, ma molto meno a chi ha fatto improvvidi collegamenti con le “colonne d’Ercole” parlando addirittura di “resti”, è che si tratta di ipotesi ancora tutte da approfondire e da valutare. Tant’è che, nei giorni seguenti, sono state commentate con scetticismo da alcuni membri della comunità scientifica.

Una delle immagini rilevate con la tecnologia LiDAR dall'Università di Siviglia
Una delle immagini rilevate con la tecnologia LiDAR dall’Università di Siviglia

Chi non è d’accordo sui risultati della ricerca

A guardare con contrarietà i risultati della ricerca dell’università di Siviglia è Antonio Monterroso Checa, docente di archeologia all’Università di Cordova, che nel 2020 aveva pubblicato sulla rivista Spal dell’Università di Siviglia un articolo dove parlava di un’altra possibile ubicazione del tempio di Ercole, sul Cerro de los Mártires, e che ha contestato il metodo adoperato dai colleghi. “Tutto ha un metodo e non c’è scienza senza metodo”, ha dichiarato al quotidiano locale Cordopolis. “Il telerilevamento applicato all’archeologia ha il suo. E, se non viene applicato, viene promossa la vocazione dei cacciatori di tesori più di quella dei ricercatori con responsabilità nei confronti del patrimonio”. Monterroso Checa, scendendo nei dettagli, ha detto che la tecnologia LiDAR non è paragonabile a un radar, cioè “non attraversa le superfici perché è una luce emessa da un sensore attivo di cui si misura il rimbalzo. Si può adoperare per fare rilevamenti di al massimo qualche centimetro sott’acqua, ma su una superficie indiscriminata. Con l’acqua, la luce emessa dal LiDAR ha un effetto specchio, non passa attraverso e l’elaborazione del computer genera come soluzione una pixelizzazione casuale. Il RaDAR è un’onda radio che in determinate bande di frequenza, passa attraverso superfici. Sono cose diverse”.

“La collisione con l’acqua della luce LiDAR”, ha spiegato ancora Monterroso Checa, “genera quello che viene chiamato un artefatto: cioè una cattiva triangolazione dei punti e una pixelizzazione a forma di triangoli, che possono essere molto eterogenei. Lo stesso accade con le rocce delle montagne: la tecnologia LiDAR non legge bene la loro deformazione e le altezze e le triangolazioni anomale sono pixelate”. La proposta del docente di Cordova è semmai quella di continuare a cercare la possibile ubicazione del tempio di Ercole Melqart con metodi meno aleatori. Insomma: il dibattito sulla scoperta va avanti.

Il Canale e l'Isola di Sancti Petri
Il Canale e l’Isola di Sancti Petri. Foto Visit Andalucia

E allora le colonne d’Ercole?

Le colonne d’Ercole sono semplicemente un mito. Lo spiega bene lo storico dell’arte Marcello Fagiolo nel suo libro Architettura e massoneria: L’esoterismo della costruzione: “se i mitografi antichi attribuivano a Ercole l’innalzamento delle due montagne colonniformi dello stretto di Gibilterra, alcuni geografi come Posidonio di Apamea (I secolo a.C.) divulgavano la presenza delle due colonne bronzee del Tempio di Melqart (l’Ercole fenicio) a Gades (Cadice), colonne che i sacerdoti locali identificavano con quelle del mito. Il motivo delle colonne gemelle, sempre isolate e prive di funzione portante, era frequente nei templi fenici sia all’esterno che all’interno: Erodoto ricorda le due leggendarie e preziosissime colonne del Tempio di Melqart-Ercole a Tiro, la prima d’oro e la seconda di smeraldo”. Secondo la leggenda, si tratterebbe di due colonne che l’eroe della mitologia, Ercole, avrebbe eretto prima di compiere la decima fatica, e rappresentavano il limite del mondo conosciuto.

Si trattava, tuttavia, di un mito. L’archeologo Luca Antonelli, che ha dedicato diversi studi alle rappresentazioni mitiche dell’estremo Occidente conosciuto, parla del tema in un articolo pubblicato nel 2000 su Hesperia e dedicato a Mainake, l’insediamento greco posto più a Occidente (che doveva trovarsi nei pressi dello stretto di Gibilterra): nell’articolo viene riportato un passo dello Pseudo Scimno, autore di un’opera geografica intitolata Periodos a Nicomedes e probabilmente vissuto nel II secolo a.C., in cui si legge che “la bocca del mare Atlantico misura 120 stadi: il braccio di mare è chiuso dai promontori di Libia e di Europa. Nei pressi di entrambe le sponde affiorano delle isole, che distano fra loro circa 30 stadi: da alcuni sono dette Colonne d’Eracle”. Spiega Antonelli che in Grecia si tendeva a rappresentare in modo ostile la realtà locale iberica e a tal fine veniva sfruttata la leggenda di Eracle. Scrive infatti lo studioso che “la diffusione del racconto sulle stele che l’eroe, diretto a Tartesso per scontrarsi con Gerione, avrebbe posto in corrispondenza dello stretto, sembra assumere la precisa funzione di sancire la definitiva vittoria dell’Eracle greco sul barbaro”. Il passo dello Pseudo-Scimno introduce poi una variante rispetto al racconto, in quanto l’autore “associa i monumenti non ai contrafforti rocciosi che delimitano il braccio di mare, bensì a due isole che affiorano tra Abila e Calpe: di questo filone tradizionale è testimone Pseudo-Scimno, che nelle vicinanze della Colonna europea colloca l’insediamento greco di Mainake”.

Delusi dunque gli appassionati di fanta-archeologia: le “Colonne d’Ercole” continueranno a rimanere un mito... 


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