“Ecco come permettiamo a tutti di comprare opere d'arte e vederle nei musei”. Parla Francesco Bellanca, AD di Feral Horses


Feral Horses è una startup londinese fondata da tre under 25: la mission dell'azienda è rendere le persone comproprietarie di opere d'arte che vedranno poi nei musei. Abbiamo parlato con l'AD di Feral Horses, il livornese Francesco Bellanca, che ci ha raccontato come funziona la piattaforma.

Un gruppo di imprenditori under 25, gli italiani Francesco Bellanca e Christian De Martin e la francese Lise Arlot, ha fondato, nella primavera del 2017, la startup Feral Horses, una piattaforma che offre a tutti la possibilità di diventare comproprietari di opere d’arte che normalmente avrebbero elevate barriere economiche. Selezionata da Financial Times e Google tra i “Top 100 digital pioneers” d’Europa, Feral Horses propone un modello innovativo per la promozione e la valorizzazione del patrimonio culturale in chiave internazionale: la piattaforma si occupa di vendita online di quote di opere d’arte, collocate sul mercato a un prezzo fisso. Le opere, una volta acquistate, vengono dapprima prestata ai musei dove tutti possano vederle, e successivamente viene data agli investitori la possibilità di effettuare operazioni di compravendita sulle opere stesse. A oggi, sono 2.600 gli utenti che si sono registrati alla piattaforma e 18 le opere vendute in comproprietà, e al momento Feral Horses è l’unica azienda che propone un modello di business fondato sulla vendita di opere in azioni seguita dal prestito ai musei. L’azienda ha base a Londra. Abbiamo parlato con Francesco Bellanca, AD di Feral Horses (livornese, classe 1994, una laurea di primo livello alla University of Greenwich e un MA al King’s College di Londra) e ci siamo fatti raccontare com’è nato il progetto, e come funziona nei dettagli. Intervista a cura di Federico Giannini e Ilaria Baratta.

Il logo di Feral Horses
Il logo di Feral Horses


Francesco Bellanca
Francesco Bellanca

FSA. Come nasce l’idea di Feral Horses?
L’idea nasce da una constatazione che Lise Arlot, Christian De Martin e io abbiamo maturato durante l’università: ovvero, ci troviamo in un sistema in cui non abbiamo accesso all’arte, sia da un punto di vista economico (per l’acquisto di opere che ci piacerebbe avere, o quanto meno possedere in parte), sia da un punto di vista di contatti, ovvero non abbiamo accesso a una comunità di persone all’interno dell’ecosistema dell’arte. Così abbiamo cominciato a studiare dei modelli di comproprietà che erano già estesi a diversi asset o diversi tipi di proprietà, e abbiamo cercato di cominciare a pensare possibili modelli di comproprietà per l’arte. L’idea è nata in questo modo, e nell’ultimo anno e mezzo abbiamo cercato di capire come strutturare al meglio l’offerta per le persone che vogliono prendere un pezzetto di un’opera d’arte e far parte di una comunità.

Come funziona nel dettaglio la piattaforma Feral Horses? Quali i meccanismi che ne sono alla base?
Legalmente si parla di comproprietà, per il resto c’è un percorso di selezione delle opere che viene fatta da noi insieme a una board esterna (cerchiamo di capire quanto l’opera in sé sia rilevante per la nostra user base, sia in relazione al soggetto stesso che l’opera tratta), quindi si procede con un’analisi più ampia della carriera dell’artista, che serve per definire il modello di pricing insieme ai collaboratori esterni e al venditore (sia esso una galleria, un collezionista o l’artista stesso). In seguito, l’analisi coinvolge le istituzioni museali: noi proponiamo le opere in prestito a musei, istituti, fondazioni pubbliche e private. Quando proponiamo l’opera sulla piattaforma, e quindi quando proponiamo l’opera per la vendita in quote, in azioni, noi definiamo già il primo step di un percorso museale. L’opera ha un periodo di vendita che può durare dai due agli otto-nove mesi, durante il quale l’opera non può essere venduta altrove. Alla fine della campagna, se l’opera raggiunge il target di vendita, allora viene acquistata, nel caso contrario c’è un refund, un rimborso per tutti coloro che hanno partecipato. Se l’opera viene venduta parte un percorso museale il cui primo step, come si diceva, viene definito prima della vendita in modo da dire alle persone dove finirà l’opera e dove potranno vederla per la prima volta: si tratta di un prestito che dura dai cinque ai dieci anni. Alla fine del percorso museale l’opera viene nuovamente venduta, e questa vendita può essere pubblica o privata, con un’attenta valutazione dei rapporti costi-benefici per gli utenti. I proventi della vendita vengono poi divisi in maniera proporzionale tra tutti gli azionisti.

La home page di Feral Horses
La home page di Feral Horses

Alla base della piattaforma c’è anche una selezione delle opere. Quali sono i criteri che definiscono questa selezione? Vi interessate solo di contemporaneo o anche di arte antica?
Il processo di selezione è abbastanza complesso e tocca tre aree: la prima è il topic trattato, un fattore importante per noi perché prendendo delle opere e provando a riportarle nel dominio pubblico facendo sì che centinaia se non migliaia di persone ne abbiano la comproprietà, l’importanza dell’argomento trattato diventa importante, e noi abbiamo molte metodologie di analisi (per esempio, indagando i trend delle conversazioni su Google o sui social) per comprendere la rilevanza di un soggetto. Una seconda area è l’analisi di carriera o di valutazione dell’evoluzione dell’artista sul mercato, che nel caso dell’arte contemporanea prende in considerazione vendite passate, esposizione, fattori di valore qualitativo, analisi fatte dagli advisor ed esperti che si sono pronunciati sull’artista: acquisiamo tutte queste informazioni e proviamo a tradurle in dati, stilando dei ranking. La terza e ultima area è l’istituzione: se non riusciamo a trovare nessuna istituzione che abbia la volontà di accettare l’opera, ci troviamo bloccati, dal momento che parte della nostra proposta consiste nell’offrire alle persone la possibilità di andare al museo e vedere opere che sono anche loro. Il percorso di selezione prende poi in considerazione anche il prezzo, non per un’idea secondo la quale il prezzo equivalga alla qualità, ma per un discorso di relazione tra l’utente e l’opera: se io propongo un’opera da 500 euro e faccio cinquecento quote da un euro l’una, la base non comprende le motivazioni per cui partecipare con una quota da un euro. Il nostro presupposto è diverso: la necessità è quella di provare a portare nel dominio pubblico opere che hanno una barriera d’ingresso monetaria piuttosto alta per chi vuole acquistare opere. Noi vogliamo creare accessibilità per opere cui normalmente molti non avrebbero accesso. Solitamente il target minimo che proponiamo è di 80-90.000 euro, ma non è né fisso né forte, è solo per avere un’idea minima, già testata coi nostri utenti, a partire dalla quale la cosa diventa interessante. Quanto al tipo di opere di cui ci occupiamo, oggi lavoriamo solo sul contemporaneo: questo è legato alla possibilità di lavorare con gli artisti che condividono con noi una visione più ampia del mercato. Si tratta di un’idea di partecipazione attiva dell’artista nel percorso di Feral Horses. Ovviamente abbiamo ricevuto anche molte offerte da dealer del moderno, sulle quali stiamo riflettendo: noi vorremmo dare alle persone anche la possibilità di essere comproprietarie di opere che non siano necessariamente contemporanee, in questi casi ovviamente il percorso diventerebbe più lungo (pensiamo ai processi di verificazione sulle opere d’arte antica), e per noi si tratta di comprendere quando arriverà il momento di compiere anche questo passaggio.

Le immagini Polaroid di alcuni dei comproprietari
Le immagini Polaroid di alcuni dei comproprietari

Per adesso, pubblico e addetti ai lavori come stanno rispondendo all’idea di Feral Horses?
In maniera molto positiva. La maniera in cui raccontiamo e proviamo a modellare il nostro framework di lavoro ha impattato sulla risposta, perché ha fatto sì che i nostri utenti ci chiedano di voler far parte di una comunità, di entrare a far parte dell’ecosistema dell’arte, di aiutarli a connettersi a questo ecosistema rendendo loro la vita più semplice. E noi li rendiamo comproprietari di opere d’arte: con questo sistema, tutto il mercato dell’arte in realtà ci sta aprendo porte, perché i musei hanno la necessità d’esser sempre più rilevanti all’interno di un mondo che sta cambiando in maniera veloce e le istituzioni sono rimaste a framework arretrati. E, per loro, il fatto di acquisire opere in comproprietà diventa interessante perché fondato su un aspetto partecipativo. Per chi vende è interessante perché diventa una maniera di allargare il potenziale mercato del venditore, e creare anche una base di persone che supporta l’artista e vuole bene all’opera, ragion per cui noi stiamo cercando di tessere interazioni sempre positive con tutti i diversi player del mercato. Noi non vogliamo essere un’alternativa alla galleria: noi diciamo che se una persona compra cinquemila euro di opere all’anno, allora perché non chiedere a quella stessa persona, per esempio, 150 euro in più da spendere in comproprietà di opere d’arte? Noi, in sostanza, cerchiamo di espandere il mercato, non di essere un competitor di altri player esistenti. E questo aspetto diventa interessante per il mercato stesso.

L’idea di Feral Horses è stata sviluppata in Inghilterra: lei riuscirebbe a immaginare un’idea simile sviluppata però in Italia, o nel nostro paese ancora non c’è il potenziale per un progetto del genere?
In realtà, nella nostra piattaforma molti utenti sono italiani e alcune delle ultime operazioni che abbiamo seguito hanno acceso i riflettori sul mercato italiano: addirittura ci sono diversi utenti italiani che hanno chiesto, per esempio, di poter regalare quote per Natale o per il compleanno. Quello che stiamo vedendo è che in Italia c’è tanta volontà di essere e di avere un ruolo attivo all’interno del patrimonio culturale, e che ci sono in realtà pochissime maniere per farlo. Appena si dà una possibilità a un mercato che magari ha tasche meno profonde di quello inglese (ma questo non è importante ai fini del nostro progetto), il mercato diventa molto interessante. Poi, in Italia ci sono barriere tecnologiche più elevate, è necessario fornire un servizio di customer care molto più attento, ma c’è anche molta volontà. Io credo che la base italiana sia pronta per soluzioni di questo tipo: c’è da stare però attenti perché si può essere un po’ indietro dal punto di vista dell’alfabetizzazione tecnologica, ma questo problema se trattato bene non crea grossi impedimenti.

Quali saranno le fasi successive del progetto? Come se lo immagina sul breve e sul lungo termine?
La nostra progettualità ad oggi passa attraverso la creazione di una comunità, la più grande del mondo, di comproprietari di opere d’arte. Nel prossimo anno e mezzo continueremo a espanderci in Europa e lavoreremo per aprire in America. L’obiettivo è quello di ascoltare gli utenti e cercare di capire cosa vogliono dalla comunità: comprare una quota di un’opera è un gesto, un passaggio, e noi stiamo cercando di capire dagli utenti cosa vogliano in più una volta diventati parte della comunità. Stiamo quindi facendo dei workshop e dei giri in galleria a Londra con gli utenti: una volta fatto ciò, gli step successivi dipenderanno dalle risposte che avremo avuto fino a quel momento. In sostanza, ci muoveremo verso i focus che il mercato e la base ci indicheranno. Ma al momento la priorità è ascoltare gli utenti, creare comunità e far sì che quelle persone che normalmente non potevano far parte del sistema dell’arte oggi possano invece farne parte.

Un’ultima domanda, che probabilmente le avranno fatto tutti: perché avete deciso di chiamare questo progetto “Feral Horses”?
“Feral” è una parola che ci piacque tantissimo, perché nel British English ha un’accezione molto specifica e indica quei cavalli che nascono liberi, vengono messi in cattività, e poi vengono nuovamente liberati. L’idea di questo percorso di libero-cattività-libero ci piacque tantissimo e non riuscivamo a tradurla... però poi abbiamo pensato ai “feral horses” perché, effettivamente, da un punto di vista ideologico, questo era un po’ quello che stavamo cercando di fare con l’ecosistema arte: l’arte nasce come dimostrazione della creatività umana e dello spirito umano, e in un secondo momento viene legata in dinamiche di mercato, spesso elitarie ed elitiste. Noi nel nostro piccolo cerchiamo di allargare queste dinamiche provando a far tornare l’arte nuovamente libera.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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