Gian Maria Tosatti: “con la mia opera cerco di capire perché la democrazia ci muore tra le mani”


Intervista a Gian Maria Tosatti sul suo ultimo progetto, Kalbim Ayna Gibi Boş - İstanbul Bölümü, sulla crisi della democrazia e sulla scomparsa della civiltà occidentale.

Fino al 25 luglio 2021, Gian Maria Tosatti (Roma, 1980), uno degli artisti più interessanti della sua generazione, è presente a Istanbul col suo progetto Kalbim Ayna Gibi Boş - İstanbul Bölümü - מייַןהאַרץאיזליידיקוויאַַשפּיגל-יסטאַנבולעפּיזאָד, ovvero “Il mio cuore è vuoto come uno specchio - episodio di Istanbul”. Il progetto, presentato da The Blank Contemporary Art di Bergamo e Depo di Istanbul, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura a Istanbul, è realizzato grazie al sostegno di Italian Council. Al centro della riflessione di Tosatti è la crisi della democrazia e la conseguente scomparsa della civiltà occidentale, nata nell’Atene di Pericle. Nel 2018, l’artista ha iniziato un pellegrinaggio in giro per il mondo che lo ha portato in diverse città e paesi con l’obiettivo di ritrarre la complessità del loro stato attuale. Ogni opera creata attraverso questo processo rappresenta un episodio all’interno di un ideale romanzo visivo, dove visioni, profezie e realtà sono indistinguibili. L’opera risultate è un lavoro che nasce dopo una ricerca pluriennale. Abbiamo raggiunto l’artista per approfondire i contenuti del progetto. L’intervista è di Ilaria Baratta.

Gian Maria Tosatti
Gian Maria Tosatti

IB. Dal 2018 è impegnato in un articolato progetto che l’ha portata in giro per il mondo: un grande affresco composto da diverse città attraverso il quale intende raccontare la crisi della democrazia e la scomparsa della civiltà occidentale. Al complesso progetto ancora in corso ha dato un titolo che definirei ermetico: cosa sta a significare “Il mio cuore è vuoto come uno specchio”? Il titolo tradotto dall’originale in Yiddish: perché questa scelta?

GT. In realtà la frase da cui è tratto il titolo ha il suo originale in svedese ed è pronunciata nel film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo. Dice queste parole il cavaliere Antonius Blok, un uomo che avrà la mia età e che torna a casa dopo aver compiuto quello che per la cultura e la morale dei suoi tempi era “il suo dovere”, ossia una Crociata. E quando la morte lo raggiunge, lui chiede ancora qualche giorno per capire cosa sia questa vita che gli scappa dalle mani e che gli pare di non aver vissuto affatto. Talvolta, infatti, come diceva santa Teresa d’Ávila, viviamo al di fuori di noi, al di fuori della nostra anima e il nostro cuore resta vuoto, non utilizzato. Se ci guardiamo dentro il suo vuoto riflette ciò che siamo. E questo non vale solo per gli individui, ma vale per i popoli. Ho quarantuno anni, appartengo alla generazione che ha unito l’Europa e oggi la governa, alla generazione che oggi ha il potere di determinare il futuro. Ma a che punto siamo? Guardiamo nel cuore delle nostre creature, guardiamo nel cuore dell’Europa, che non ha neppure una costituzione e, invece, ha al suo interno stati pseudo-dittatoriali e anche vere e proprie guerre decennali. Guardiamo al modo in cui stiamo ancora evitando di saldare i nostri conti coloniali, stringendo patti con dittature extra-europee che torturano e spesso uccidono gli uomini e le donne che cercano di raggiungere paesi che anni addietro hanno imposto loro la lingua in cui si esprimono e il dio in cui credono. Non voglio parlare del passato però. Parliamo di noi. Chi siamo noi, oggi? Che cosa c’è nel cuore della nostra generazione. Se ci penso con onestà mi viene in mente la frase di Antonius Blok e così, essa ha finito per essere il titolo di questa mia grande indagine sul campo dell’Europa di oggi, la nostra Europa, la nostra comunità culturale. Lo Yiddish, che è la lingua in cui ho tradotto la frase per il titolo e lo statement di questo progetto è una lingua in cui, come disse Isaac B. Singer, non è mai stato pronunciato un ordine militare. Se è vero che la lingua è l’infrastruttura del pensiero, credo dovremmo iniziare a scegliere anche le lingue che parliamo per dire davvero ciò che desideriamo.

I suoi progetti, che spesso si estendono su diversi anni, si concentrano principalmente sul concetto d’identità, sia dal punto di vista politico che da quello spirituale. Da cosa è scaturita l’idea di questo lungo progetto a cui si sta dedicando dal 2018? Si è ispirato a qualcosa in particolare? Questo è poi suddiviso in vari capitoli e sezioni; con l’ultimo episodio in ordine di tempo, quello di Istanbul, ha completato il Dittico del Trauma: cosa vuole intendere con quest’altro titolo significativo?

Nel 2018 ho pensato che non avevo voglia di perdere il poco tempo che ho inseguendo proposte e commissioni di altri. Ho deciso di concentrare tutta la mia ricerca su un progetto che investisse davvero il mio interesse. E così ho iniziato questo pellegrinaggio per fare un ritratto della nostra comunità culturale. Fare ritratti è il primo compito di un artista. Il ritratto è lo specchio che svela l’anima del soggetto. E il mio cerca di essere un grande autoritratto collettivo, un autoritratto generazionale. E se è vero che la storia dell’arte è la vera storia dell’umanità, la storia dei suoi pensieri, dei suoi valori, dei suoi sogni, la storia del suo spirito, allora penso che il mio primo dovere sia quello di compilare questa pagina della nostra storia. E lo faccio in un momento molto delicato. È il momento in cui ci accorgiamo come la chimera della democrazia che abbiamo inseguito fin dall’inizio della nostra civiltà (nell’Atene di Pericle) una volta raggiunta, ci stia morendo tra le mani. Perché? Questo è quello che da anni vado chiedendo ad ognuno degli uomini e delle donne che incontro nell’Africa ex coloniale, nei paesi dell’Unione o ai confini dell’occidente, come ho fatto a Istanbul in questi ultimi mesi.

Gian Maria Tosatti, Kalbim Ayna Gibi Boş - İstanbul Bölümü (“Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Istanbul”), The Blank Contemporary Art (Bergamo) e Depo (Istanbul), in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura a Istanbul, un progetto realizzato grazie al sostegno dell'Italian Council (7a Edizione, 2019), programma di promozione internazionale dell'arte contemporanea italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura
Gian Maria Tosatti, Kalbim Ayna Gibi Boş - İstanbul Bölümü (“Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Istanbul”), The Blank Contemporary Art (Bergamo) e Depo (Istanbul), in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura a Istanbul, un progetto realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (7a Edizione, 2019), programma di promozione internazionale dell’arte contemporanea italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura


Gian Maria Tosatti, Kalbim Ayna Gibi Boş - İstanbul Bölümü (“Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Istanbul”), The Blank Contemporary Art (Bergamo) e Depo (Istanbul), in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura a Istanbul, un progetto realizzato grazie al sostegno dell'Italian Council (7a Edizione, 2019), programma di promozione internazionale dell'arte contemporanea italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura
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E ha cercato di rispondere anche con questo progetto. Dopo Catania, Riga, Cape Town e Odessa, ciascun episodio con un suo proprio tema, ha scelto di focalizzarsi sulla situazione di Istanbul, dedicato alla distruzione di antichi edifici per costruirne altri più nuovi e moderni, con tutte le sue conseguenze. Può parlarci dei temi di ciascuna città protagonista degli episodi realizzati finora, soffermandosi in particolare sull’ultimo, quello di Istanbul, realizzato nell’antico quartiere curdo? Secondo quali criteri sceglie le città a cui dedicare un episodio del progetto? Ha già qualche idea sulle successive?

Catania è stato l’episodio del Mediterraneo. La Sicilia è parte dell’Italia, è vero, ma per la sua storia e la sua posizione è, prima di tutto, una grande isola al centro del mare che ha collegato le più antiche civiltà dell’occidente e che oggi è diventato una fossa comune, un luogo di inaudita e costante violenza che noi tolleriamo e consentiamo. Questo ci rende alleati della morte. Se rimuoviamo dallo specchio le mille giustificazioni politiche è questo che vediamo, uomini che lavorano al servizio della morte. Camus direbbe che questo fa di noi dei morti in primo luogo. È di questo che parlava l’episodio di Catania. Riga, invece, parlava della scomparsa del nostro corpo politico che è fondamento dello stato democratico. In molti paesi lo spazio pubblico sta scomparendo e questa è un’avvisaglia della scomparsa di quei luoghi in cui noi esercitiamo i nostri diritti e doveri di collettività. È lì che esiste lo stato, nelle piazze dove si discute, nei luoghi in cui ci si riunisce. Nella solitudine delle case, davanti ai nostri televisori, invece, c’è solo il deserto come diceva Pasolini. E i nostri computer ci danno solo l’impressione di interagire maggiormente. In realtà diventiamo sempre più passivi. È dallo schermo di un computer che il naufragio di un gommone ci appare tollerabile. A Cape Town ho provato a concentrarmi su questa indifferenza, su questo diventare estranei a tutto e a tutti, finché non ci ritroviamo anche estranei a noi stessi. La storia di quel paese mi ha consentito di andare molto a fondo in questo senso. L’opera ha riaperto una ferita che non si era mai veramente chiusa. E poi, a Odessa, sono finito in riva a un lago che non ha orizzonte. E lì l’unica cosa di cui potevo parlare era la fine della nostra specie. In Ucraina abbiamo fatto le prove generali con Chernobyl. Non ci sono bastate. Continuiamo anche più forte di prima. Sui giornali leggiamo spesso che staremmo distruggendo il pianeta. In realtà il pianeta se la caverà benissimo. Distruggiamo solo la nostra specie. E il mondo dopo di noi ci sarà ancora, più bello e più fiorente, come scriveva Giorgio Caproni. L’ultimo episodio l’ho realizzato a Istanbul. Sei anni di lavoro. È nel quartiere curdo di Tarlabasi. Un luogo vitale che sta venendo raso al suolo per molte ragioni. Ho provato a mettermi nella prospettiva di chi vede sparire la propria casa, la propria storia, per un presunto progresso che, ancora una volta, non vede la vita umana come valore principale. Dopo Istanbul, con il mio studio, abbiamo episodi calendarizzati fino al 2025 e poi andremo avanti. I prossimi saranno in Russia e a Gerusalemme, altri due luoghi fortemente conflittuali. Ora dovrei essere in Russia, infatti, ma sono stato arrestato dall’FSB (ex KGB) durante una delle fasi di studio dell’opera qualche giorno fa e rispedito a casa. Ci stiamo organizzando per ripartire. E, infine, stiamo lavorando a costruire la doppia tappa di Torino e Parigi. C’è molta strada davanti a noi.

Principio di fondo su cui si basa l’intero progetto, da quanto Lei ha dichiarato, è che l’Europa è tutt’altro che una confederazione di stati che vivono in pace e in prosperità, ma la verità, Lei dice, “è alquanto differente”...

Mi pare che tra ciò che diciamo di essere e ciò che siamo ci sia una grande distanza. Il compito dell’artista è quello di fare sempre un passo indietro da ogni convinzione, ogni posizione, ogni prospettiva personale e fare il ritratto più crudele e veritiero di ciò che vede. Anche se questo gli è odioso. I tragici greci non hanno parlato di ciò che ritenevano giusto, ma di ciò che era. Per questo ancora oggi li leggiamo. L’Europa che sto ritraendo non è quella delle strette di mano fra Von der Leyen e Draghi o tra Merkel e Macron. Io i miei ritratti li vado a fare dove non ci sono scenografie, pareti di cartone blu, bandiere e bandierine. Vado, come i registi del neorealismo italiano, dove scorre il sangue e dove purtroppo spesso viene versato. Osservo tutto questo con un sentimento di sconfitta che però non è definitivo. Il concetto di crisi, infatti, ha a che fare con un destino incerto, con la possibilità di soccombere, sì, ma anche di reagire, risollevarsi, cambiare. Dopo Germania Anno Zero la storia di quel popolo non è finita. Io credo fortemente nel potere che ha l’arte di farci percepire la realtà fin negli strati più profondi dell’essere, di farcene sentire l’intollerabilità fino nei nervi, per spingerci a cambiare, a migliorare, a farla finita con l’immagine di noi stessi che non tolleriamo più.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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