Restauro, conservazione e tutela del patrimonio artistico. Una conversazione con Giovanni Urbani


Una conversazione, risalente al dicembre del 1989, tra Bruno Zanardi e Giovanni Urbani. A trentatré anni di distanza alcuni temi, come i termini della dichiarazione di bene culturale, i fini pratici della tutela, il rilancio del patrimonio, sono ancora di grande attualità.

L’aspetto di Giovanni Urbani che più continua a colpire me, suo vecchio allievo all’Istituto centrale del restauro (icr), è quello del destino, certo singolare e sicuramente non felice, di “grande emarginato”. Una condizione che lo ha portato al gesto tanto inconsueto quanto coerente delle dimissioni dalla direzione dell’icr, nel 1983. Forse le ragioni di questa sua emarginazione nascono dalla colpa (imperdonabile in un settore assolutamente immobile quale è quello dei beni culturali) di aver tentato di uscire, nei primissimi anni Settanta, dallo schematismo di una concezione del restauro unicamente legata alle scelte di gusto di parte umanistica; e di aver addirittura presunto che la tutela potesse divenire un esercizio razionale fondato su rigorose basi tecnico-scientifiche e non una «attività facoltativa» quale è quella attualmente svolta dal Ministero dei Beni culturali, come egli stesso insiste a dire. Per questa ragione la nostra conversazione si snoda soprattutto attorno al fatto che, né la legge di tutela 1089 del 1939, né i due distinti disegni di riforma di quella legge presentati di recente in parlamento dal Partito comunista italiano (pci) e dallo stesso Ministero dei Beni culturali, disciplinano, rendendole finalmente obbligatorie, attività fondamentali di tutela quali la conservazione, il restauro, il catalogo e perfino lo strumento della notifica.

NdR. Questo contributo (la conversazione risale al dicembre 1989) è stato pubblicato in: Il Giornale dell’Arte, luglio-agosto 1990, n. 80, (ins. Vernissage, s. p.). Titolo redazionale: Così la nuova notifica secondo Pci e Ministero. È stato poi ripubblicato in Bruno Zanardi, Conservazione, restauro e tutela. 24 dialoghi, Milano, Skira, 1999, pp. 31-39.

Giovanni Urbani
Giovanni Urbani

BZ. Professor Urbani, circa un anno fa il Partito comunista presentò un disegno di legge che avrebbe dovuto mandare finalmente in soffitta la legge di tutela 1089 del 1939. Adesso è la volta del ministro Facchiano, con un altro progetto di riforma che, a quanto si dice, è un distillato di tre o quattro altri elaborati del genere prodotti negli anni dall’illustre giurista Massimo Severo Giannini. Di queste proposte di legge, e in particolare della prima, si è fatto un gran parlare, definendole spesso “fortemente innovative”. Quali sono, a suo parere, gli elementi di novità eventualmente presenti nei due disegni di legge, e a quale dei due vanno le sue preferenze?

GU. Se devo dire quel che penso, l’unica novità mi pare stia nel proposito, forse inconscio, o forse solo malamente dissimulato, di mandare in soffitta non tanto la legge Bottai del ‘39, ma gli organi tecnici territoriali del Ministero, cioè le Soprintendenze. E questo semplicemente dando mandato alle Regioni di creare dei propri organi tecnici, con compiti in tutto e per tutto identici a quelli delle Soprintendenze statali. Se le cose funzionano male oggi, s’immagini come funzionerebbero quando tutto si dovesse ridurre a un continuo conflitto di competenze tra Uffici statali e regionali: i primi ritualmente soccombenti di fronte agli interessi dei potentati locali e i secondi in mano a un personale politico, magari di risulta dalle Usl. Quando vedo a cosa si riducono i pensieri dei nostri legislatori sul patrimonio artistico, mi viene in mente quello che Cocteau fa dire a un losco personaggio di non ricordo più quale sua commedia: “Puisque ces mystères nous dépassent, feignons d’en être les organisateurs”.

E del nuovo ruolo che il disegno di legge del Pci affida al Consiglio nazionale dei Beni culturali cosa ne pensa?

Ne penso se possibile ancora peggio. Invece di riportare questo organismo alle dimensioni e alle funzioni ragionevoli di un normale Consiglio superiore, la proposta è di confermarlo nell’attuale struttura elefantiaca, e addirittura di farlo somigliare, forse in omaggio al bicentenario del 1789 nel quale ci troviamo, a un governo assembleare di tipo rivoluzionario, dotato di tutti i poteri e le funzioni del Governo vero e proprio. Il quale ultimo, pur continuando a dover rendere conto del proprio operato in Parlamento, di fatto non opererebbe un bel nulla se non su direttive o facendosi tramite di questa assemblea di oltre settanta membri debitamente lottizzata tra i diversi partiti.

Lei afferma che i due disegni di legge non innovano in nulla la 1089/39. Ma coi tempi che corrono, così poco propizi a riforme sensate, questo immobilismo non può alla fine risultare il minore dei mali?

Veramente io penso che la radice di tutti i mali attuali stia proprio nella legge del ’39. Dico attuali, perché a quell’epoca ci si poteva pure contentare d’una visione così riduttiva del problema della tutela, per cui a porre in salvo le “cose di interesse artistico e storico” basta “notificarle” ovvero “dichiararle” come tali, e non per quel che sono, quante sono e in che stato sono, ma solo quando se ne presenti l’occasione. Provi a rigirare da tutte le parti la legge del ’39, così come i due disegni di legge di cui parliamo, mi dica se riesce a tirarne fuori una indicazione o anche un semplice accenno a altri modi possibili di esercitare la tutela in aggiunta a quello della notifica. Strumento sulla cui efficacia se ne potrebbero dire delle belle, di cui la più bella di tutte è che a oltre mezzo secolo di distanza dalla sua nascita, o meglio seconda o terza rinascita dai tempi del cardinal Pacca, nessuno, e meno di ogni altro il Ministero a questo compito preposto, è in grado di precisare quali e quante siano le opere notificate.

Tuttavia c’è chi dice che la notifica sia l’unico baluardo di fronte ai pericoli di dispersione e saccheggio che comporterebbe l’apertura delle frontiere nel 1993.

Ma cosa vuole che succeda nel ’93 che non succede già oggi? Coi Tir che passano le frontiere stipati di materiale archeologico e gli yacht che possono sbarcare dove e quando vogliono il capolavoro sconosciuto, posto che ancora ce ne sia qualcuno. Per sventare questi pericoli lo Stato non deve fare altro che portarsi quale compratore corretto e puntuale. Come fa la Francia con i suoi capolavori che sconosciuti o meno che siano le costano una cifra che, bonne année, mauvaise année, non supera la ventina di miliardi di nostre lire.

Secondo lei dovremmo allora rinunciare del tutto alla notifica?

E chi l’ha detto? Anzi, al contrario, dovremmo piuttosto rivalutare lo strumento della notifica, cioè finalizzarlo seriamente a scopi di tutela chiari e definiti, e non, come ora, a una pura e semplice tesaurizzazione il cui primo effetto – paradossalmente – è quello di svalutare la cosa notificata. Cerco di spiegarmi. A giustificare l’atto della notifica non dovrebbe mai bastare “l’interesse particolarmente importante” della cosa da notificare. Dovrebbe contare molto di più che questa cosa possa essere posta in funzione di un ben preciso fine conservativo o valutativo, da conseguirsi in tempi e con modalità definiti caso per caso. Sia per i beni mobili che per quelli immobili si tratta insomma di integrare l’atto della notifica con una serie di disposizioni e di accorgimenti che invece di mummificare la cosa notificata la rendano partecipe, assieme ai beni di proprietà pubblica, di una unica e coerente strategia di tutela. Penso in particolare ai beni immobili, per i quali la distinzione tra pubblico e privato diventa inessenziale se ci si decide a far valere questi beni come traguardi o punti fissi per la messa a fuoco sia di qualsiasi disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica, sia dei criteri per le “valutazioni di impatto ambientale”. Mi rendo conto che è troppo chiedere che l’attuale Amministrazione dei Beni culturali sia capace di legare il trastullo della notifica, come da essa è concepito, a questa sfera di interessi e competenze che sovrastano a volo d’aquila, per complessità giuridica e livello tecnico, quelli suoi propri. Ma mi sarei accontentato che i due disegni di legge di cui parliamo avessero mostrato di possedere, almeno allo stato larvale, la coscienza di questo tipo di problemi.

E invece?

Invece tutto quello di cui sono stati capaci è di estendere la notifica alle opere d’arte contemporanea. Il testo ministeriale prevede infatti che queste possano essere notificate anche se siano vecchie meno di 50 anni, quest’ultimo il tempo di legge a partire dal quale scattano le logiche di tutela, purché ne sia già morto l’autore. A parte gli scongiuri del caso, verremmo così a essere l’unico paese civile che sanzioni per legge la superiorità di un artista defunto rispetto a un suo coetaneo vivente, e che si preoccupi di ostacolare la diffusione all’estero della propria cultura. E siccome al provincialismo, come alla stupidità, non ci sono mai limiti, ecco che il disegno di legge comunista propone addirittura di notificare le opere di artisti viventi, purché vecchie di trent’anni. E’ aperta così la strada per arrivare a conferire un marchio statale di qualità agli artisti viventi: ovviamente secondo le solite lottizzazioni partitocratiche. E a esclusivo beneficio degli artisti mediocri o pessimi, perché i più bravi se la filerebbero subito a Parigi o New York.

Quindi, secondo lei, la “dichiarazione di bene culturale”, come si vuole chiamare ora la notifica, potrebbe addirittura portare alla scomparsa dell’arte italiana contemporanea dal mercato internazionale.

Di sicuro porterebbe al suo svilimento sul mercato interno, come ora già accade per l’arte antica. Non c’è infatti dubbio che se il mercato antiquario italiano è oggi infinitamente più povero di quello di ogni altra Nazione occidentale, questo si deve all’effetto perverso della notifica. Non c’è arte nazionale, per quanto di grande lignaggio, che si avvantaggi sul mercato internazionale della povertà del proprio mercato interno. Ecco perciò spiegato come alle grandi aste di Londra o New York può oggi accadere che una qualsiasi natura morta olandese del Settecento faccia aggio su un fondo oro del gotico senese. Neanche il più libero dei mercati è abbastanza libero da non risentire di condizionamenti come le mode o i pregiudizi nazionalistici, specie se questi ultimi garantiscono un forte e costante sostegno della domanda sui mercati nazionali. Non c’è dubbio che una sana politica culturale dovrebbe per prima cosa curare un’attenta liberalizzazione del mercato artistico, ad esempio favorendo il più possibile le importazioni. Naturalmente, senza più nascondersi dietro l’assurdo paravento della importazione temporanea, ma riducendo l’Iva a un 2-3%, se non addirittura annullandola, e soprattutto esentando una volta per tutte le opere importate dallo spauracchio della notifica. Ci si deve insomma decidere a prendere atto che ovunque esista un libero mercato, le condizioni dei musei e di ogni altra istituzione affine sono infinitamente più sane e vitali che da noi. Non dico che in questo sia da vedere un rapporto diretto di causa-effetto, ma piuttosto la conseguenza di quel movimento di lunga durata per cui le collezioni e le opere di proprietà privata, quando sono davvero importanti, finiscono inevitabilmente in museo. Ma direi che quest’aspetto del problema, per quanto importante, passa comunque in seconda linea rispetto a quello che riguarda il patrimonio pubblico propriamente detto.

Sul quale aspetto del problema come ci si dovrebbe pronunciare?

Anzitutto aprendo finalmente gli occhi di fronte all’assurdità che ci porta a parlare di un patrimonio senza che si sia in grado di specificare da quali cose concrete è costituito, al punto che invece di designarle coi loro nomi (pitture, sculture, chiese, torri, castelli, eccetera), ci si rassegna a omologarle sotto la denominazione collettiva di “beni culturali”. Se dovessi indicare la ragione principale dei nostri mali, credo proprio che me la prenderei prima di tutto con l’oscura coercizione ideologica per cui di punto in bianco, una trentina d’anni fa, ci ritrovammo tutti a non parlare più di opere d’arte e testimonianze storiche, ma di beni culturali. Binomio malefico funzionante come un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali: beni artistici, storici, archeologici, architettonici, ambientali, archivistici, librari, demoantropologici, linguistici, audiovisivi e chi più ne ha più ne metta. Un enorme scatolone vuoto entro cui avrebbe dovuto trovare posto, secondo l’aulico programma spadoliniano, “tutta l’identità storica e morale della Nazione”, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri.

Ma come si può rimediare a questo stato di cose?

Con una nuova legge di tutela, che però, diversamente da quella esistente e da tutte le sue successive proposte di riforma, o meglio di rifrittura, dovrebbe essere incardinata sul principio che il patrimonio di proprietà dello Stato - e dei vari tipi di enti che a esso ne rispondono -, non è assimilabile ai cosiddetti beni pubblici indisponibili, come le risorse idriche o del sottosuolo, in quanto è solo impropriamente riducibile a una entità generica, non determinata che dalla corrispondente astrazione concettuale. Questo patrimonio è piuttosto una entità ben determinata, costituita da un numero altissimo, ma certamente finito, di cose concrete, ciascuna di loro dotata di caratteristiche sue proprie che la rendono unica e irripetibile. L’equivoco, che per me è piuttosto uno scandalo, di considerare il patrimonio culturale come una entità generica, e non come un insieme di cose individue, nasce sul presupposto del tutto erroneo che la parte sostanziale di tale patrimonio sia costituita da cose di proprietà privata, alla individuazione delle quali non si possa pervenire che accidentalmente, a seguito di circostanze fortuite o non prevedibili. Ora, anche e dato non concesso che il patrimonio privato sia nel suo insieme indeterminato e indeterminabile, non si vede perché uguale sorte debba toccare per legge al patrimonio pubblico, che è invece sotto gli occhi di tutti. Mi dica lei se non è uno scandalo che per farsi un’idea di questo patrimonio tornino infinitamente più utili le Guide rosse edite dal Touring Club, di tutti gli atti finora prodotti dall’Amministrazione competente, incluse le farse di Memorabilia e dei Giacimenti culturali.

Inclusa la legge Galasso?

Quella la definirei piuttosto il sogno di una persona dabbene, nei panni della quale non avrei però voluto essere il giorno in cui si sarà risvegliata, trovandosi attorno delle Regioni e un Ministero per i quali un Piano paesistico non deve essere cosa molto diversa dall’araba fenice.

Temo di aver perso il filo del ragionamento precedente. Mi sbaglio o eravamo arrivati al punto in cui, se si accettano le sue premesse, resta da definire cosa ne consegue, per il patrimonio artistico pubblico, ai fini pratici della tutela?

Ne consegue che la tutela non può essere un compito generico da esercitarsi, come accade ora, discrezionalmente e facendo conto solo sulla buona volontà dei Soprintendenti. La tutela andrebbe esercitata in strettissima relazione alla quantità delle cose da tutelare, definite una per una quanto a qualità immateriali, e per ben circoscritte categorie omogenee quanto a caratteristiche materiali, condizioni ambientali di contorno, stato di conservazione e sua tendenza evolutiva. Solo così si può uscire dall’assurdità di una legislazione per la quale il patrimonio pubblico è una specie di oggetto misterioso, un’entità aeriforme nei cui confronti è perciò impossibile esplicare delle azioni di tutela concrete e definite. Un po’ come succederebbe all’Anas, tanto per fare un esempio, se non sapesse nulla delle strade affidate alla sua gestione, e quindi ancor meno dei modi tecnici in cui questa vada esercitata. Si tratterebbe insomma di riportare il patrimonio pubblico dallo stato gassoso a quello solido; dopo di che potremmo anche immaginare il patrimonio privato come una sorta di fascia di asteroidi, destinati per legge storica a ricongiungersi al pianeta pubblico, sempre che questo sia abbastanza consolidato e vitale da esercitare una sufficiente forza di attrazione. Perché, come diceva Tocqueville: “on ne s’attache qu’à ce qui est vivant”.

Se ho ben capito, la sua proposta di legge sarebbe una specie di rivoluzione copernicana: nel senso che rovescerebbe i termini della legge del ’39, mettendo al centro del sistema della tutela il patrimonio pubblico e parapubblico, e lasciando a se stesso, o quasi, quello privato.

Rivoluzione, e oltretutto copernicana, mi sembra un po’ troppo. Qui si tratta di semplice buonsenso. Ripeto: da una parte c’è un patrimonio pubblico la cui entità è o dovrebbe essere, se qualcuno se ne desse pena, quantificabile e qualificabile con grande esattezza. Dall’altra, c’è un patrimonio privato che invece è, in linea di principio e di fatto, sostanzialmente indeterminabile, fatta eccezione per la parte dei beni immobili, ma che comunque, tutto compreso, pesa infinitamente meno di quello pubblico. Ora, l’assurdità della legge vigente è che l’indeterminatezza della parte privata viene assunta come un assoluto, che ricomprende in se anche la parte pubblica. Col risultato piuttosto assurdo che proprio la parte pubblica del patrimonio artistico - come lei dice e come di fatto tutti possono vedere - viene a essere abbandonata a se stessa.

Mi faccia capire ancora meglio. Una volta rovesciati i termini del problema, cioè una volta che lo Stato avesse, diciamo così, contato ciò che gli appartiene, notificandolo per così dire a se stesso, cosa caratterizzerebbe questo nuovo tipo di tutela?

Semplicemente che questa verrebbe finalmente esercitata in maniera attiva invece che passiva. Mi spiego meglio. Abbiamo detto che l’unico strumento di tutela oggi definito per legge è la notifica. Strumento passivo se mai ce ne furono, in quanto d’impiego discrezionale da parte dell’Amministrazione pubblica, e senza che ai privati ne derivi altra sollecitazione che a nascondere la cosa notificata come fa l’avaro con le sue monete d’oro. Cioè sperando che tutti se ne dimentichino e prima di ogni altro lo Stato che l’ha notificata: peraltro una eventualità, come abbiamo visto, tra le più probabili. Fortuna vuole che questo Stato sia servito assai meglio di come meriterebbe, e cioè che i Soprintendenti, senza che nessuna legge lo richieda loro, e anzi con gli impedimenti ministeriali che tutti sanno, cercano di serbare memoria del bene pubblico con il catalogo e di ritardarne la rovina con il restauro. Azioni degne e benemerite, ma di cui non si può tacere quanto meno la mancanza di consequenzialità. Visto che il catalogo, per essere stato concepito come una tela di Penelope, da disfarsi e ritessere con il progresso degli studi, è abissalmente lontano da ogni conclusione; così che, nella perdurante indeterminatezza del patrimonio pubblico, ne sappiamo se possibile ancora meno circa il suo stato di conservazione, e perciò circa i criteri da cui far discendere, ad esempio, la decisione razionale di restaurare una cosa piuttosto che un’altra. Non parliamo poi di come restaurarla.

Ma almeno sul principio di esercitare la tutela su un patrimonio definito di beni, e in rapporto a altrettanto definite cause di deterioramento, sembra che il Ministro Facchiano non la pensi diversamente da lei. E’ ormai cosa fatta la legge che finanzia, se non sbaglio, con 30 miliardi, l’operazione Carta del rischio, chiaramente ispirata a quanto lei stesso propose nel 1976 col Piano pilota per la conservazione dei beni culturali in Umbria. Direi anzi che questa legge mira ancora più in alto, dato che si propone di individuare addirittura su tutto il territorio nazionale i vari fattori di deterioramento - inquinamento, sismicità, spopolamento, eccetera -, che mettono a rischio le nostre opere d’arte. Le quali verrebbero finalmente iscritte in un “inventario di massima” da realizzarsi in pochi mesi, contro i decenni che occorrerebbero per il catalogo vero e proprio.

La ringrazio per la evocazione del Piano pilota, fantasma a me carissimo, ma che certamente non abita le alte stanze ministeriali. Vorrei però farle notare che le conclusioni operative di quello studio, che non a caso si presentava come un Progetto esecutivo di ricerca, erano rinviate alla verifica sul campo delle nostre ipotesi progettuali. Queste consistevano principalmente in una serie di indicazioni circa l’entità e la distribuzione sia del patrimonio umbro, sia dei vari fattori di deterioramento a cui esso era presumibilmente sottoposto. Indicazioni in qualche caso molto dettagliate, ma tutte risultanti da dati noti, perché pubblicati o comunque desumibili da informazioni, censimenti o statistiche normalmente accessibili. Si trattava perciò di individuare il metodo più corretto e meno dispendioso per valutare la pertinenza di tali dati allo stato di fatto. Ciò che facemmo indicando strumenti, modalità, oggetti e luoghi di quella che allora ho chiamato “verifica sul campo”. Dall’esito di questa sarebbero quindi dipese le scelte da operare, entro un certo numero di variabili che avevamo comunque definito, riguardo alle dimensioni, all’organizzazione e ai metodi di lavoro di una struttura addetta alla conservazione del patrimonio artistico umbro. L’intento finale era ovviamente, una volta realizzato il piano umbro, di derivarne le linee guida di un piano nazionale. Mi sembra invece che il progetto Carta del rischio presuma di poter arrivare a questo stesso risultato sulla base su per giù delle indicazioni di metodo del Piano pilota, partendo invece che dall’Umbria da tre o quattro diverse aree di studio. Con quale vantaggio per l’economia e la fattibilità dell’impresa non saprei proprio dire. Comunque molti auguri.

Mi associo agli auguri, anche se mi sembra che l’impresa, nascondendo o quasi la sua derivazione dal piano umbro, lasci parecchio a desiderare quanto a onestà intellettuale. Ma poniamo pure che riesca, si troveranno poi i mezzi, che presumo ingentissimi, per passare dal piano degli studi a quello delle realizzazioni pratiche?

Le sembrerà strano, ma l’ultima cosa di cui mi preoccuperei sarebbe proprio questa. Ripetere, come si ripete da decenni, che è impossibile far fronte alle necessità del settore destinandogli solo lo 0,20%, o giù di lì, del totale della spesa pubblica, è una diceria pura e semplice. Se non si conosce nulla circa l’entità reale del patrimonio, è insensato pronunciarsi come che sia circa l’entità dei finanziamenti da destinargli. Bisognerebbe piuttosto partire da un’idea precisa e rigorosa non del quanto ma del come spendere.

Sarebbe a dire?

Ha mai visto in che cosa consistono i cosiddetti progetti di restauro e le relative perizie di spesa in base ai quali il Ministero distribuisce i suoi fondi tra le Soprintendenze? I progetti, nella maggior parte dei casi, si riducono a una mezza paginetta di vaniloquio sui pregi storico-artistici della cosa da restaurare, seguita da un’altra mezza paginetta di lamentele sul suo stato di conservazione. I preventivi non sono nient’altro che una specie di conto della serva, in cui le varie operazioni di restauro vengono valutate, senza una logica decifrabile, quando “a corpo”, quando “a misura” e quando “in economia”, ovvero in due o in tutti e tre i modi. Quanto ai prezzi decide l’impresa, o ci si regola in base ai prezziari circolanti tra le Soprintendenze in base a non so quale consuetudine ufficiosa. Passi per il Ministero, che tutti sappiamo trovarsi nella situazione grottesca in cui sta, ma è possibile che nemmeno alla Corte dei Conti si trovi qualcuno a cui salti agli occhi che in tutto questo non c’è nulla che assomigli, nemmeno da lontano, alle norme che per i lavori pubblici sono in vigore addirittura da quasi un secolo? Dove sono i rilievi della cosa da restaurare, i disciplinari di contratto, gli elenchi ragionati dei prezzi, le specificazioni dei sistemi di misura, i capitolati speciali? E poi, una volta in corso o a lavori ultimati, dove sono i registri di contabilità, i giornali dei lavori e i manuali del direttore dei lavori? A chi sono affidati i collaudi in corso d’opera, chi redige i relativi verbali e via dicendo? So bene che il restauro di un’opera d’arte è cosa assai diversa dalla costruzione di una diga o di un viadotto, e che quindi sarebbe insensato di assoggettarlo alla stessa disciplina che vale per il progetto e l’esecuzione di questo tipo di lavori. Ma questo forse significa che il restauro può fare a meno di una qualsiasi disciplina specifica, di un metodo istruttorio codificato, di un corpo organizzato di norme contabili e specificazioni tecniche che reggano il confronto, quanto a raziocinio, con quelle a cui è tenuto a conformarsi chiunque metta mano a un’opera pubblica?

Sembra quasi che lei proponga di rifare in questo senso una nuova Carta del Restauro.

Lasci stare questa benedetta Carta, che magari, come dichiarazione di intenti storico-critici, ha una sua dignità culturale, ma che quanto a contenuti tecnici se la batte con i precetti di Frate indovino. Qui si tratta di uscire dal circolo perverso che da un Ministero, non solo sordo, ma ferocemente ostile a ogni istanza di progresso tecnico, conduce a degli organi tecnici periferici, le Soprintendenze, che lo ripagano con una totale mancanza di fiducia e quindi con un impegno limitato a quel tanto che basta per farlo fesso e contento. Aggiunga la dissennata demagogia assistenzialista che ha portato a intasare gli organici delle Soprintendenze con personale il più delle volte privo di qualsiasi qualifica professionale, come è sostanzialmente quello della legge sulla disoccupazione giovanile 285/79, e avrà completato il quadro del disastro.

Sono il primo a non crederci, ma glielo domando lo stesso. L’entrata in campo delle grandi imprese edilizie, attraverso le procedure Fio e l’istituto della concessione, non può servire a incentivare, mettendola in qualche modo in concorrenza, la crescita tecnica delle Soprintendenze? E della unificazione tra i Ministeri della Ricerca scientifica e dei Beni culturali, nel nome dei corsi di laurea in Beni culturali, cosa ne pensa?

Innanzitutto, fa benissimo a non credere alla prima delle due vicende. Perché in quel caso le Soprintendenze vengono addirittura trasformate da uffici tecnici in “Stazioni appaltanti”: cioè in puri e semplici committenti. E beato chi crede che, riservandosi la direzione lavori, le Soprintendenze possano fronteggiare in esperienza e capacità la direzione del cantiere, che spetta alle imprese. Quanto al secondo caso e al ridicolo della situazione, considerato lo stato della nostra Università, la sua associazione col Ministero mi fa pensare a quella classica tra il cieco e lo storpio.

Ma a formare i restauratori, nei disegni di legge del Pci e ministeriale, ci penseranno le Regioni.

E qui, per sommo scorno, devo prendermela con me stesso, per non aver saputo prevedere, quando mi adoperai nel 1982 perché Stato e Regioni sottoscrivessero un protocollo di intesa per la formazione dei restauratori, in quale inghippo politici e burocrati avrebbero trasformato questa iniziativa. La mia idea era che i nuovi laboratori-scuola venissero creati sul modello dei corsi triennali dell’Istituto del restauro, integrato a quello delle vecchie e gloriose Stazioni sperimentali dell’Industria e dell’agricoltura. Vale a dire che pensavo a questi laboratori-scuola come a organismi al finanziamento e alla organizzazione dei quali avrebbero dovuto collaborare col Ministero, cui comunque sarebbe spettato il compito primario di sorveglianza e di indirizzo, le Regioni e eventualmente l’Università e l’imprenditoria privata. Il disegno di fondo era di rendere questi laboratori-scuola delle strutture di servizio principalmente per le Soprintendenze e poi per quanti altri, in primo luogo le Regioni, avessero interesse a sviluppare in ambiti territoriali definiti la formazione dei restauratori. Uno sviluppo dunque da commisurare alle concrete necessità locali, in modo che le Soprintendenze potessero programmare la formazione dei restauratori in rapporto a tali necessità. Alle quali si sarebbe poi potuto provvedere sia col personale interno e con gli allievi, o con gli ex allievi organizzati in consorzi o cooperative. Nei disegni di legge comunista e ministeriale i laboratori-scuola dipendono invece totalmente e esclusivamente dalle Regioni, relegando l’Amministrazione statale a un ruolo assolutamente marginale. Con un danno gravissimo per le Soprintendenze, che verrebbero così esautorate da un compito che più di ogni altro avrebbe potuto riqualificarle sul piano tecnico-scientifico, e che certamente troverà le Regioni del tutto impreparate.

Dunque, nessun spiraglio di speranza, nessun elemento positivo in questo panorama di disastri?

Dipende. Se ci si dimentica del patrimonio storico-artistico e si pensa solo ai nostri interessi di contribuenti, una nota positiva esiste: i mille miliardi di residui passivi che il Ministero è stato incapace di spendere, e che perciò lo Stato potrebbe recuperare. Chi ha detto che la burocrazia ministeriale non serve proprio a nulla?


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