In un libro tutta la storia della chiesa dei Girolamini di Napoli nel Seicento


È uscito il libro “I Girolamini. Storie di artisti e committenti a Napoli nel Seicento”, ricco lavoro dello storico dell’arte Gianluca Forgione che ricostruisce le vicende seicentesce della chiesa partenopea.

C’è la scoperta di una gran mole di documenti inediti alla base del volume I Girolamini. Storie di artisti e committenti a Napoli nel Seicento, il libro di Gianluca Forgione, uscito quest’anno ed edito da Editori Paparo (208 pagine, € 50,00, ISBN 9788831983334), una monografia completa, aggiornata e scrupolosa sulle vicende artistiche che hanno interessato il complesso napoletano, e in particolare la sua chiesa, nel XVII secolo. È un lavoro che parte dalla tesi di dottorato dell’autore, storico dell’arte, e che ha condotto al ritrovamento di contratti, testamenti, lettere e svariati documenti che hanno permesso allo studioso di ricostruire con dovizia molte delle più importanti vicende che hanno riguardato i Girolamini nel Seicento, quando vi lavorarono (o lavorarono per la chiesa) alcuni tra i più grandi artisti del tempo, da Guido Reni a Luca Giordano, da Pietro da Cortona a José de Ribera, dal Domenichino a Francesco Algardi. Un’operazione significativa anche perché, ricorda lo stesso Forgione nella premessa, lavorare sul complesso dei Girolamini non è stato semplice: “sono ben note”, scrive Forgione, “le difficoltà che la comunità scientifica ha da sempre riscontrato nello studio del monumento, motivate in primo luogo dall’ostinata chiusura dell’archivio della Congregazione napoletana, ancora inaccessibile”, circostanza questa che ha sempre reso difficoltoso lo studio dei Girolamini.

Il libro è strutturado in sei capitoli, dedicati rispettivamente alle vicende costruttive della chiesa dei Girolamini, alla presenza di Guido Reni nel complesso e soprattutto alle imprese collezionistiche del suo committente Domenico Lercaro (dalla cui raccolta ebbe origine la celebre quadreria dei Girolamini), agli episodi di mecenatismo di cui si rese protagonista la principessa Anna Colonna Barberini, agli interventi secenteschi nella cappella dei santi Carlo e Filippo per opera del padre oratoriano Carlo Lombardo, a quelli dovuti ad altri episodi della committenza filippina, e al ruolo della committenza di padre Francesco Gizzio per la cappella di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Ogni capitolo è chiuso da un’appendice documentaria che riproduce con cura i documenti (molti dei quali, come anticipato, inediti) di cui Forgione si è avvalso del suo studio, e a chiudere l’intera trattazione è una ricca bibliografia.

La storia dei Girolamini, ricorda Forgione, ha inizio nel 1586 quando Francesco Maria Tarugi, Antonio Talpa e Giovenale Ancina, “fra i primi e più importanti seguaci di san Filippo Neri, decisero di stabilirsi nella capitale del Viceregno, accogliendo l’invito dell’arcivescovo Annibale di Capua e i frequenti incoraggiamenti dei padri teatini di Napoli”. Era il 15 agosto del 1592 quando il viceré di Napoli, Juan de Zúñiga Avellaneda y Bazán, presenziò alla cerimonia della posa della prima pietra della chiesa dei Girolamini, ma gli anni che intercorsero tra l’arrivo dei padri “napoletani” e l’inizio della costruzione della chiesa sono densi di scambi epistolari tra i tre seguaci di Filippo Neri stabilitisi in Campania e i vallicelliani di Roma. Scambi da cui s’apprendono i desideri, le ambizioni, le volontà dei tre (l’idea dei padri napoletani, ad esempio, era quella di costruire una chiesa simile a quella di San Giovanni dei Fiorentini a Roma), gli scambi dei disegni (architetto della chiesa era il toscano Giovanni Antonio Dosio) e altre informazioni che chiariscono le circostanze che portarono alla nascita dell’edificio. Il libro segue nei dettagli queste vicende, dedicando un approfondimento anche all’approvvigionamento del materiale. Il corpo della chiesa era terminato nel 1619, ma i lavori erano destinati a proseguire perché per tutto il secolo la chiesa dei Girolamini continuò a esser ampliata e riempita di opere d’arte.

Copertina del libro I Girolamini. Storie di artisti e committenti a Napoli nel Seicento di Gianluca Forgione
Copertina del libro I Girolamini. Storie di artisti e committenti a Napoli nel Seicento di Gianluca Forgione


Interno della chiesa dei Girolamini. Ph. Credit Olivo Scibelli
Interno della chiesa dei Girolamini. Ph. Credit Olivo Scibelli

Tra queste, quelle di Guido Reni, arrivato a Napoli nel 1621: il libro, come anticipato, dedica una parte del secondo capitolo al suo coinvolgimento nell’impresa dei Girolamini, senza trascurare alcune interessanti note di colore, come il fatto che l’artista, com’è ben noto, fosse giunto a Napoli per attendere alla decorazione della cappella di San Gennaro, ma fosse stato poi costretto a rinunciare per via delle minacce dei pittori napoletani, che ingaggiarono anche un sicario per uccidere un collaboratore del pittore bolognese a scopo intimidatorio. Reni, pertanto, se ne tornò immediatamente a Roma ma mantenne saldi i rapporti con un committente partenopeo (ma d’origini pugliesi), il sarto e commerciante di tessuti Domenico Lercaro, attivissimo collezionista d’arte, per il quale Reni eseguì alcune opere destinate alla sua raccolta. Tra queste l’Incontro di Cristo con Giovanni Battista, giunto a Napoli nel 1629, e probabilmente il San Francesco in Estasi e la Fuga in Egitto. Ma Lercaro intrattenne anche rapporti con altri grandi artisti del tempo, come Fabrizio Santafede, Giovanni Bernardnio Azzolino, José de Ribera (a quest’ultimo Lercaro ordinò cinque quadri, un Cristo alla colonna e quattro dipinti dedicati ad altrettanti santi, ovvero Andrea, Pietro, Paolo e Giacomo maggiore, oggi tutti conservati nella quadreria dei Girolamini). Una curiosità riguarda il modo con cui Lercaro, uno dei migliori sarti della città, pagava gli artisti: ovvero, con abiti. È anche il caso di Guido Reni, grande appassionato di moda, che era solito vestire con abiti elegantissimi: “Lercaro poté omaggiarlo”, scrive Forgione, “con qualcuna delle sue creazioni migliori, e Guido lo ricambiò in modo altrettanto generoso, poiché a Napoli rimise mano ai pennelli solo per lu”. Quello di Lercaro è, insomma, un rarissimo caso di sarto collezionista: come anticipato, è dalla sua raccolta che nasce la quadreria dei Girolamini, poiché fu Lercaro stesso a voler donare al complesso, con la condizione di mai vendere i quadri, la sua collezione (il libro ne ripercorre le vicende riproducendo i documenti inerenti la storia collezionistica di Lercaro e il testamento con cui fece dono della collezione ai Girolamini).

Altro caso di mecenatismo è quello di Anna Colonna Barberini, che, scrive Forgione, “legò il proprio nome a importanti episodi di mecenatismo, seppure questi fossero spesso motivati dalla sua fede fervorosa più che da un incondizionato amore per le arti”. Tra coloro che la principessa favorì vi furono i padri dell’oratorio dei Girolamini: la presenza di due rilevanti opere, il San Pietro di Pietro da Cortona e gli Angeli reliquiari di Alessandro Algardi (questi ultimi trafugati dalla chiesa nel secolo scorso), si devono alla generosità di Anna Colonna Barberini. Ma non solo: la principessa finanziò anche la pala della cappella di Sant’Alessio (la Morte di Sant’Alessio di Pietro da Cortona, tuttora in loco, opera di capitale importanza per la pittura napoletana del Seicento, i cui spunti furono ben colti da due grandi partenopei del tempo come Luca Giordano e Francesco Solimena), caso che il volume ricostruisce avvalendosi di documenti inediti.

Attraverso i capitoli dedicati alle puntuali ricostruzioni delle vicende dei santi Carlo e Filippo, quest’ultima nota soprattutto per l’intervento d’inizio Settecento di Luca Giordano, ma la cui decorazione marmorea d’inizio Seicento fu eseguita per iniziativa dell’oratoriano Carlo Lombardo (è questo l’intervento su cui si concentra il libro, sul quale “pochi sforzi sono stati compiuti finora dagli studi”, sottolinea Forgione) ad opera di Dionisio Lazzari, e a quelle che videro come committenti altri due padri oratoriani, Giovanni Tommaso Spina e Antonio Scotti (il primo destinò parte della sua eredità alla decorazione dell’altare maggiore e della cupola della chiesa, mentre l’altro fece realizzare alcune opere tra cui un imponente paliotto d’argento per l’altare maggiore: sono meritevoli d’un capitolo a loro dedicato in quanto si tratta d’esempi di committenza che non proveniva da personalità della politica o da facoltosi devoti, ma dai filippini stessi), si giunge all’ultima sezione del libro che, come anticipato, indaga il ruolo di padre Francesco Gizzio per la cappella di Santa Maria Maddalena.

Gizzio fu per trent’anni prefetto per la Congregazione ai Girolamini, ed era noto anche come drammaturgo (scrisse anche un dramma su Maria Maddalena de’ Pazzi). Le ricerche di Forgione hanno permesso di ritrovare il testamento di padre Gizzio che, spiega lo studioso, “fornisce informazioni preziose sulla personalità dell’oratoriano e sul suo ruolo di mecenate ai Girolamini”, in quanto nominò la cappella di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi come sua “herede particolare et universale”. L’eredità di Gizzio doveva servire, intanto, per terminare la decorazione marmorea della cappella, inoltre il padre lasciava al complesso la strumentazione scientifica che era in suo possesso (cannocchiali, macchine idrauliche e ottiche, strumenti meccanici, mappamondi, e anche curiosità naturali e artificiali). Il suo sogno era quello di far diventare il suo studio, la sua “Galleria Gizziana”, un vero “Museo della congregatione dell’Oratorio di Napoli”, sulla falsariga di quello che Athanasius Kircher aveva fondato nel 1651 all’interno del Collegio Romano. Per la cappella, Gizzio aveva anche fatto dipingere un quadro da Luca Giordano, una Santa Maria Maddalena de’ Pazzi con il Crocifisso: giova peraltro rilevare che fu lo stesso Gizzio a introdurre il culto di Maddalena de’ Pazzi nella chiesa dei Girolamini. Anche in questo caso i documenti ritrovati da Forgione hanno permesso di ricostruire la cronologia del lavoro di Luca Giordano, che Gizzio cominciò a pagare nel 1689.

Storie di grandi artisti, dunque, ma non solo. Nel libro di Gianluca Forgione, storie di committenti s’intrecciano a quelle dei pittori, degli scultori, degli architetti, degli intagliatori rivelando pieghe inaspettate di uno degli episodi più straordinari della storia dell’arte dell’Italia meridionale, raccontate con tono scientifico (e con approccio e metodo molto orientati alla ricerca documentaria, come s’è visto), ma ch’è anche in grado di restituire un affresco interessante anche per chi non è abituato a letture di questo tipo: un affresco che racconta di una Napoli operosa e centro artistico di grande rilievo, dove si collocò un cantiere in continua espansione, tra i più significativi dell’Europa del tempo, sebbene forse oggi poco conosciuto. E questo libro potrebbe anche essere l’inizio di un nuovo capitolo della plurisecolare storia di questo tesoro d’arte.


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