L'arte contemporanea al tempo delle superchiacchiere. Il nuovo libro di Ugo Nespolo


È appena uscito per Einaudi il libro “Per non morire d'arte” di Ugo Nespolo, un'analisi cruda e colta dell'attuale sistema dell'arte, fatto di opere che, in epoca di postmodernità, disorientano e hanno perso significato e orizzonti teorici. È possibile uscirne?

Si può morire d’arte facilmente. È questo il punto di partenza di Per non morire d’arte, il nuovo libro di Ugo Nespolo, edito da Einaudi (152 pagine, 12 euro, ISBN 9788806247379). Nespolo, artista e ingegno completo e multiforme (è anche giornalista, designer, scultore, regista, scenografo), con il suo pamphlet esegue una disamina cruda e quasi sconsolata del cosiddetto Artworld: si muore d’arte, dunque, quando si assiste a un’arte vuota immersa in un “brodo creativo” (il mondo in cui tutti sono artisti e tutto può essere definito un’opera d’arte) che è però svuotato di certezze e convinzioni, privo di punti di riferimento, dove non esistono più teorie e teorici in grado di dettare le linee di un progetto estetico. Secondo Nespolo, quello che stiamo vivendo è “il tempo delle superchiacchiere”, preconizzato da Duchamp quando nel 1964 avvertiva contro i danni di una produzione sovrabbondante: siamo sommersi da opere d’arte prive di reale significato culturale, e ci muoviamo nel quadro di un’arte contemporanea dove, secondo l’autore, sembra sia stato abolito anche il mestiere (dove, per mestiere, Nespolo intende l’insieme di capacità manuale e intellettuale) in nome di un “concettualismo d’accatto privo di qualsiasi profondità e appeal”, votato esclusivamente al decorativismo. E soprattutto, ci muoviamo in un mondo in cui l’arte contemporanea è sottoposta a quella che Nespolo chiama “dannazione del prezzo”, secondo l’assioma “ciò che costa vale”, che ci porta a valutare gli artisti e le opere solo sulla base del loro prezzo.

Questo è il punto di partenza. Ma come ci si è arrivati? Nei capitoli che seguono il primo, in cui l’autore mette a fuoco il problema, Nespolo redige una piccola storia dell’arte del secondo Novecento, aprendo sempre i capitoli con ricordi personali. Uno degli eventi fondamentali che hanno informato l’attuale Artworld è stato, secondo l’artista, il successo degli artisti americani (Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Frank Stella, Jim Dine e altri) alla Biennale di Venezia del 1964, passata anche alla storia come la Biennale della Pop Art: accadimento che ha sancito il definitivo spostamento del baricentro mondiale dell’arte, da Parigi agli Stati Uniti. La capitale francese, ricorda l’autore, “aveva perso artisti, collezionisti, gallerie e risorse senza avere il tempo di ricostruire un tessuto ormai sfibrato nonostante i testardi tentativi di provare a ridare gloria alle vecchie avanguardie col ritorno di molti artisti in patria”. Tuttavia, a fronte di questi testardi tentativi, l’Europa non ebbe modo di opporre una vera resistenza alla “potenza organizzativa ed economica degli Usa”. L’espressionismo astratto, il movimento che si impose all’attenzione del mondo in quegli anni, fu favorito, spiega Nespolo facendo riferimento agli studi di Frances Stonor Saunders, dalla situazione politica del tempo: in altri termini, l’arte di Pollock e colleghi fu promossa (anche attraverso il ricorso alla Cia e ai potentati economici) nel tentativo di opporre al realismo socialista un’arte di segno radicalmente diverso, un’arte eminentemente americana. Nonostante l’operazione sia stata in qualche modo orchestrata, è tuttavia da leggere in chiave positiva secondo Nespolo (lui stesso rimase molto affascinato dagli spunti che arrivavano da oltre oceano), dal momento che “la radice culturale e politica”, rammenta l’artista, “aveva da fare con una sorta di mutuo riconoscimento tra i liberals americani e i liberali europei” (si trattava, in altri termini, di opporsi allo stalinismo che, citando Massimo Teodori, “ancora vagheggiava in fatto d’arte un atteggiamento demagogico e del peggior realismo sociale”).

La nuova arte che arrivava dagli Stati Uniti innescò pertanto un fascino che si diffuse anche in Europa: “il magazzino del mondo reale sembrava adesso a totale disposizione degli artisti che ne potevano prelevare a man bassa elementi, icone, frammenti senza limiti intellettuali in una sorta di totale esaltazione del valore iconico della merce e anche del suo potere, instaurando un possibile, felice connubio di arte e vita”. A rileggere però la storia di quegli anni si ha la sensazione che quell’humus abbia prodotto un percorso nel quale la definizione dei valori e le scelte espressive sarebbero state favorite da strumenti economici, dalle logiche di musei guidati secondo modelli imprenditoriali, dalla costruzione di un Artworld “tutto regole e obblighi supinamente osservati da artisti, critici, curatori e collezionisti in un tacito e interessato gesto d’osservanza e di rispetto indotto”.

La copertina del libro
La copertina del libro


Installazione di Studio Painting di Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964. Dietro, la Double Flag di Jasper Johns
Installazione di Studio Painting di Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964. Dietro, la Double Flag di Jasper Johns


La mostra High and Low al MoMA nel 1990
La mostra High and Low al MoMA nel 1990


La mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst a Venezia nel 2017. Ph. Credit Finestre sull'Arte
La mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst a Venezia nel 2017. Ph. Credit Finestre sull’Arte

L’estremizzazione di questo modello poté giovarsi dell’affermazione del postmodernismo, cui è dedicato il terzo capitolo del libro, e della debolezza delle reazioni in ambito europeo. Il postmodernismo ha scardinato il meccanismo legato “alla possibilità di credere all’incessante alternanza di novità dopo novità, complici il sicuro ottimismo e la fede in una modernità senza fine e limiti”: né è conseguita un’arte che, in piena crisi del modello storicistico, più che cercare modelli e riferimenti nel passato, si è aperta a una sovrapposizione di elementi diversi, a un diffuso citazionismo che ha comportato la perdita del centro, con in più l’idea che tutto possa essere arte ma niente abbia la garanzia di esserlo davvero (e se cade la distinzione tra arte e non arte, cadono anche le distinzioni tra materia artistica e materia di uso comune: si genera pertanto una diffusa incertezza nei confronti dell’opera d’arte, facilmente riscontrabile ancora oggi). “Secondo una tesi centrale del pensiero postmoderno”, ha scritto Peter Bürger, “nella nostra società i segni non rimandano più a un significato, ma sempre e soltanto ad altri segni, e noi con i nostri discorsi non cogliamo più qualcosa come un significato, ma ci muoviamo solo lungo una catena infinita di significanti”. Ne consegue un’arte che rinuncia a teorizzazioni e motivazioni fondative. Ed è la situazione in cui ci troviamo tuttora: come uscirne sembra essere una delle esigenze dell’arte attuale.

I successivi capitoli raccontano le origini e lo sviluppo dei movimenti e delle tendenze artistiche che hanno tentato una reazione: un ruolo importante viene assegnato all’internazionale situazionista, che secondo Nespolo è stata l’ultima vera avanguardia della storia dell’arte. L’arte dei situazionisti, libera, ironica, anti-ideologica, grottesca, complessa, rivoluzionaria, abituata alla pratica del cinema e del détournement, fondata su solidi presupposti teorici, tesa a “coniugare la rivoluzione con il superamento dell’arte attraverso uno stile di vita in grado di costruire situazioni rivoluzionarie dove poter effettivamente proseguire il cammino verso la libertà umana contro lo sfruttamento, la repressione, l’alienazione del proprio essere sociale” (così Gianfranco Marelli), fu quanto di più innovativo e lucido si poté vedere in quegli anni (il ’68 nacque anche sulla scorta di queste esperienze), ma sarebbe entrata presto in una crisi irreversibile dovuta sia a fattori interni, sia a fattori esterni (non riuscì a non soccombere allo spettacolo del postmodernismo). Altri tentativi furono quelli operati dalla patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, e da Fluxus, cui sono dedicate le sezioni seguenti del libro.

Si torna agli eventi che hanno modellato il mondo dell’arte contemporanea con la mostra High & Low. Modern Art and Popular Culture tenutasi al MoMA nel 1990: un capitolo di Per non morire d’arte è dunque dedicato all’abolizione del confine tra cultura alta e cultura popolare. “L’arte diffusa”, argomenta Nespolo, “ha trovato espressione nella prospettiva postmoderna, che ha tradotto in libero gioco il compenetrarsi di arte e vita nelle esperienze piú svariate, senza alcun limite. Il dogmatismo storicistico si è capovolto in un possibilismo senza regole che ha rotto ogni confine anche tra i generi, fondendo parola, immagine, suono”. La contaminazione riguarda anche cultura alta e cultura popolare: il nuovo paradigma dell’arte diffusa (non solo per mezzo della sua riproducibilità tecnica: Walter Benjamin fu il primo a parlare della perdita dell’aura dell’opera d’arte), con incroci tra i generi, ha tuttavia determinato, secondo Nespolo, “un possibilismo senza regole” che ha rotto tutti i confini ma ha portato a una “libertà senza direzione”.

Come reagire? Nell’ottavo e nel nono capitolo, Nespolo sembra indicare un paio di direzioni. La prima è la fuga nel minimale: contro il gigantismo e le accozzaglie di certa arte (l’autore fa l’esempio della celeberrima mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst) la risposta, suggerisce Nespolo, è “la bellezza del ’portatile’”, rileggendo Duchamp in cui l’autore vede un antesignano delle “cose da viaggio”, ovvero “opere consultabili ovunque, facilmente dissimulabili e minimali, cose davvero effimere da nascondere in valigette tanto affini ai campionari di eleganti agenti di commercio”, l’autore che manifestò l’intenzione di trasformarsi in una macchina celibe, l’idea di “restare un uomo libero e delirante, assolto dai pesi tanto gravosi degli obblighi della vita”. La seconda direzione è l’uscita dai recinti disegnati dal sistema dell’arte verso territori liberi, lontani dalle ragioni del mercato: l’esempio è quello del cinema d’avanguardia (“il cinema”, scrive Nespolo ripensando al se stesso degli anni Sessanta, “m’appariva come un campo aperto, una concreta possibilità di ricerca e, al tempo stesso, un’esperienza ludica, un’estensione naturale della produzione artistica e un linguaggio solo apparentemente leggero capace di piegarsi e dar vita a esperienze diverse”).

Se la reazione riguarda la pratica artistica, c’è però un altro problema: il mercato di un sistema costruito su di un “profitto arbitrario e insensato che alimenta l’ingordigia speculativa di collezionisti, mercanti e artisti i cui atteggiamenti, spesso arroganti e teatrali, hanno saputo rendere ripugnanti e volgari pose per lo più soltanto esteriori e frigide”. E questo è stato possibile, ritiene Nespolo, perché il valore economico affonda le radici nel terreno della postmodernità, sul quale tutti sono artisti: e se cade la distinzione tra arte e non arte, ne risente la qualità. “Ogni elemento del visivo e dell’esistente”, scrive l’artista, “può essere potenzialmente classificabile come opera d’arte purché l’oggetto – materiale o immateriale – sia prelevato formalmente attraverso un evento decisionale in un processo di estetizzazione strumentale infinita. Un sistema economico vorace in cui le opere d’arte si mutano con facilità in pretesti indispensabili alle esigenze del sistema, non può che esigere rapida alternanza e sostituzione dei prodotti, quella stessa che regola e governa le leggi economiche delle merci tutte e la loro esile vita temporale”. L’arte è dunque vincolata a un sistema mercantile in cui le opere sono diventate beni d’investimento, per lo più immagazzinate in depositi appositamente costruiti: la gran parte delle opere neppure vede la parete. Cosa fare? Le vie d’uscita, conclude Nespolo, sembrano “strette e assai poco luminose”. Occorre domandarsi se l’arte possa vivere e prosperare in un mondo in cui è diventata una commodity, una merce di scambio, e se in sostanza possa ancora contare qualcosa per il mondo: e in questo quadro “l’unica medicina e rimedio ha la forma del rifugio in seno a quella malinconia rivolta al mondo, quella che in Dürer si rivolge verso l’interiorità come forma di concentrazione, quella Besonnenheit, riflessione consapevole, suggerita dallo storico tedesco Aby Warburg nella quale si cristallizza l’uomo moderno”.


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