Allestimento del museo di Vulci, la risposta delle archeologhe responsabili


Le archeologhe Patrizia Petitti e Simona Carosi (responsabili scientifiche dell’allestimento del Museo Archeologico di Vulci) e Sara De Angelis (attuale direttrice) rispondono al direttore di Finestre sull’Arte, Federico Giannini, che aveva criticato l’allestimento. In calce la replica del direttore.

In merito all’articolo del 22 agosto del direttore Federico Giannini sull’allestimento del Museo Archeologico di Vulci, riceviamo e pubblichiamo la risposta delle archeologhe Patrizia Petitti, Simona Carosi (responsabili scientifiche del progetto) e Sara De Angelis (direttrice del Museo). In calce la replica del direttore.

Museo Archeologico Nazionale di Vulci
Museo Archeologico Nazionale di Vulci

“Come non si scrive su un allestimento di museo archeologico”. Il caso dell’articolo del giornalista non archeologo di Finestre sull’Arte.

Dal nulla, senza un aggancio ad una occasione reale, se non un “imminente compleanno” del Museo Archeologico Nazionale di Vulci che però cadrà tra due anni, apprendiamo che il giornale on-line Finestre sull’Arte, che si occupa di arte antica e contemporanea, disquisisce dell’attuale allestimento, risalente al 2015/2016, realizzato dalla competente Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale, allora guidata da Alfonsina Russo Tagliente. A parte l’evidente anacronismo, sorprende il tono celebrativo, si direbbe di parte, con cui si difende l’allestimento del 1975 da parte di F. Correnti e P. Moretti, anche richiamando il commento di A.M. Moretti in un volumetto su Vulci del 1993. Eleganti vetrine, chiare, armoniche e semplici: come non essere d’accordo visto che il materiale prescelto era il vetro, per sua natura trasparente e dalle linee pure e pulite? Peccato che non se ne ricordino i problemi di visuale, provocati dal riflesso delle grandi superfici, o le difficoltà di gestione (le mosche morte nelle vetrine in genere sono percepite dal visitatore con più immediatezza delle immagini sulla ceramica greca, purtroppo). Ma soprattutto pochissimo si riflette sul progetto scientifico di allora, evidentemente perché impercettibile rispetto alla necessità di rendere i materiali archeologici un mero “riempitivo” di enormi spazi di cristallo. Una scelta cronologica quella, si dice; poco importa se nessuna o quasi nessuna spiegazione era fornita al povero visitatore sul come, perché, chi, da dove quegli oggetti venissero e perché fossero giunti fin lì. Il nostro giornalista, evidentemente, non ha vissuto mai la desolante consapevolezza di fallimento che prende il direttore di un museo quando vede sfilare con indifferenza i visitatori davanti a vetrine piene di oggetti di cui nessuno si è preso la briga di decodificare il significato.

Dopo la celebrazione dell’eleganza dell’allestimento Correnti-Moretti si passa alla aggressiva critica all’allestimento “didattico” attuale, citando maldestramente la mancanza di un percorso cronologico a favore di quello tematico (per un giornalista deve essere complicato capire la successione delle fasi cronologiche nonostante queste seguano il circuito delle sale!), nonché riportando un passo sui materiali archeologici visti come “strumento” del racconto storico (si trattava della veloce spiegazione del concept che era sotteso al progetto scientifico vero e proprio), mancando di ragionare sul fatto che per un archeologo il dato materiale è ovvio, è il suo pane quotidiano: il racconto non esclude l’analisi e lo studio, anzi, ne è una conseguenza (sarebbe come dire che un medico fa una diagnosi senza analizzare i sintomi). Tutto questo per giungere a formulare una certezza: una scelta di comunicazione museale per teen-agers.

Chi oggi è avvezzo a lavorare sugli allestimenti dei musei archeologici, sa benissimo quale grande impegno essi comportino e quante competenze debbano coinvolgere. Dietro il progetto scientifico del 2015/2016 non ci sono solo le due funzionarie che allora seguivano Vulci e il suo museo (i cui nomi e cognomi sono stati ampiamente ricordati) ma un gruppo di archeologi e tecnici della Soprintendenza, coordinati dal Soprintendente, esperti di preistoria e protostoria, di etruscologia, di archeologia sperimentale e di comunicazione e poi coloro che hanno scavato con le proprie mani Vulci, che hanno accuratamente ricognito i depositi, analizzato i contesti, quelli che senza preconcetti si son fatti aiutare dall’etnografia, dai confronti con le recenti teorie sui commerci nel Mediterraneo e dalle riflessioni sulla città come termine e ripartenza del processo storico, al fine di raccontare la storia di una comunità. Gli approfondimenti sono stati affidati ad una app (https://izi.travel/it/5da3-museo-archeologico-nazionale-di-vulci/it) realizzata a costo zero per la Soprintendenza e gratuita tuttora per il pubblico. La scelta dei contesti, per quanto possibile ricostruiti, è stata fatta tra quelli che, tra essi, potessero meglio comunicare le vicende, del tutto peculiari, che vivono i materiali archeologici, i loro usi primari o la selezione per gli usi funerari, la giacitura nella quale sono stati rinvenuti, o semplicemente, la preferenza di una forma o di una rappresentazione figurata. Questo è stato possibile grazie ai progressi che dal 1975 l’archeologia ha sperimentato, arricchendosi del portato di scienze applicate le quali ormai garantiscono il superamento della mera visione estetica del pezzo. Gli scenari che fanno da sfondo ai contesti o ai materiali esposti, sono quelli creati dai grafici della Soprintendenza che, con oltre 30 anni di esperienza nel campo della comunicazione, hanno fornito un mezzo in più per comprendere come era fatta una porzione di necropoli o l’interno di una tomba a camera.

È chiaro che dietro la comunicazione (tanto più di un di un museo archeologico) deve esserci una mediazione dell’esperto che in modo leale e non “preconfezionato”, ma sulla base della sua conoscenza e della natura dei materiali, sceglie cosa possa essere meglio compreso dal pubblico e con quali parole e o mezzi sia meglio spiegato. In alternativa, si torna ad un museo che è soltanto una “galleria di vasi o pezzi muti”, davanti a cui il visitatore non ha mezzi né per poter dare una sua lettura, né, tanto meno, per “vedersi dischiudere altre possibilità”.

In tal senso diventa quasi risibile che un giornalista parli di “ceramica istoriata” e di cosa possa raccontare.

Ma l’aggressività dell’autore dell’articolo arriva a parlare di sciatteria, la sciatteria ad esempio di proporre “font goffi”. A proposito, chi decide che un font è goffo? E non si dovrebbe piuttosto parlare della leggibilità della parola scritta? Anche questo entra negli strumenti della comunicazione. Noi, essendo molto più consapevoli del nostro interlocutore di quanto fosse cambiata e progredita la museologia dal 1975 al 2016, non avremmo imputato come goffaggine, o peggio, agli allestitori di allora l’aver usato i materiali archeologici come riempitivi di “gabbie di cristallo” senza accorgersi delle tracce di tessuto e di iscrizioni su alcuni vasi. E non avremmo criticato un allestimento fatto in altri tempi (quasi la preistoria per la comunicazione museale) di enormi vetrine del tutto ingestibili, perché evidentemente immaginate come immutabili e intoccabili, in un museo in cui alla “novità” prodotta dalla ricerca non era stato lasciato alcuno spazio. Questo museo cristallizzato (e scusate il gioco di parole) è difeso del tutto aprioristicamente a fronte di un sistema mobile, adattabile alle novità della ricerca e ai suggerimenti dei visitatori.

Sul “trionfo di kylix, hydria…” non vale la pena tornare: è chiaro che chi scrive trascura le più recenti riflessioni sulla banalizzazione, se spiegata, di termini che in parte erano già entrati nella lingua etrusca e che oggi- questo sì- anche un bambino sarebbe capace di collegare ad una forma che può ritrovare in vetrina.

La differenza tra il vecchio e il nuovo allestimento per fortuna non lo fa google street view ma gli apprezzamenti del pubblico di ogni età e formazione.

I commenti dei visitatori riscontrati sia in Museo sia nei social network sono infatti positivi, ne riportiamo solo alcuni come esempio:

“All’interno del castello, si può visitare il piccolo ma molto interessante e ben tenuto Museo Nazionale Etrusco di Vulci, contenenti reperti rinvenuti a Vulci e in alcune tombe della zona. Veramente bello!” (giugno 2023)

“Bellissimo l’impatto con il castello appena si arriva e con il ponte del diavolo… Il museo è molto interessante e le signore che lavorano lì molto gentili e pronte a dare molte informazioni” (aprile 2023)

“Il museo del castello è ben fatto e contiene reperti che vale la pena contemplare. Bellissima la visita. Consigliatissimo” (agosto 2022)

“Luogo bellissimo, paesaggio stupendo. Abbiamo visitato il museo, dentro al castello. Personale molto gentile e disponibile. Piccolo, interessante e molto dettagliato” (agosto 2022).

Sul progetto scientifico molto ancora si fa nel presente, grazie alla intensa collaborazione che ormai la DM Lazio, che gestisce il Museo dopo la riforma c.d. Franceschini, intrattiene con la Soprintendenza. L’intera sala al piano terra è stata lasciata dal nuovo allestimento come spazio per le ricerche archeologiche che si svolgono in tempo reale nel Parco di Vulci e la direzione del Museo sta lavorando a ricavare altri spazi per ampliare lo stesso allestimento. Allo stesso tempo si sta lavorando per una integrazione dei percorsi di visita tra il Museo e il Parco di Vulci.

Un Museo può presentare molteplici livelli di lettura e quindi consentire diversi approcci: c’è chi osserva soltanto le figure, chi è incuriosito da una iconografia, chi può cercare e rintracciare confronti e spunti per i suoi studi. Chi preferisce osservare da solo, chi preferisce una visita guidata per entrare nei meandri di dettagli e curiosità. L’importante è che il Museo, scrigno di un patrimonio culturale, possa aiutare la crescita degli individui. Il pubblico comprende tutto questo così come coglie in maniera piuttosto immediata che l’immagine del Ponte dell’Abbadia all’interno del Museo è il simbolo di una strada da percorrere, che unisce e collega (molto più di quanto possa avvenire tra gli Uffici e Ponte Vecchio a Firenze) il Museo/Castello al Parco/città e necropoli di Vulci.

Per quanto riguarda invece il calo di visitatori a cui si accenna in chiusura dell’articolo si deve sottolineare come l’abbassamento di utenti osservato sia di fatto registrabile a partire dagli inizi del 2000, quindi con il primo allestimento ancora in funzione e non imputabile alle modifiche apportate con il nuovo progetto museale. Infatti tra il 1996 e il 2002 la media dei visitatori annuale era di 32.731, mentre tra 2002 e il 2015 la media era di 19.478 visitatori (non considerando il picco registrato nel 2004 a seguito della mostra di grande successo sui dipinti staccati della tomba François, di proprietà della famiglia Torlonia). A seguito del nuovo allestimento dal 2016 e prima delle chiusure e delle limitazioni connesse alla pandemia Covid-19, i visitatori registrati sono stati intorno ai 20.000 in linea con quanto registrato a partire dal 2002. Il calo notato sembra connettersi quindi piuttosto alle trasformazioni avvenute negli ultimi 20 anni nelle modalità di approccio turistico al territorio e alla sua fruizione che non alle modifiche delle scelte allestitive museali.

Forse studiando un po’ di più il contesto vulcente e toccando con mano -come un buon cronista sa fare -il territorio e sentendo chi vi lavora con passione per un progetto condiviso di archeologia pubblica e senza farsi sedurre da sciocche esaltazioni personalistiche, l’articolo polemico e vacuamente critico sarebbe potuto diventare un’ottima occasione di riflessione, che avrebbe potuto travalicare il confine del bello/non bello, piace/non piace, a cui in fondo, si è ridotto.

Patrizia Petitti (Ex Funzionario MiC ed ex Direttrice del Museo di Vulci)
Simona Carosi (Funzionario Soprintendenza ABAP per la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale ed ex Direttrice del Museo di Vulci)
Sara De Angelis (Funzionario del Polo Museale del Lazio e Direttrice del Museo di Vulci)

Replica di Federico Giannini

Le archeologhe Petitti, Carosi e De Angelis, turbate dall’idea che si possa scrivere d’un dato argomento “senza un aggancio ad una occasione reale” (occorrerà rivelar loro che sì, si può scrivere di qualsiasi cosa in qualsiasi momento), cominciano a rispondere definendo molto elegantemente il sottoscritto “giornalista non archeologo”, e poiché potrebbe non esser sufficiente sottolineare che dinnanzi a una critica servirebbe rispondere sui contenuti e non spostando l’attenzione sui titoli di chi l’avanza, converrà ricordare in cosa consista il lavoro di giornalista: in casi come questo, verificare una situazione, raccogliere dati, confrontarsi con archeologi (perché evidentemente c’è anche chi, nel loro stesso ambiente, ha altre e più che legittime idee circa gli allestimenti dei musei) e poi assumere una posizione.

Si può sorvolare su tutta la prima parte del pezzo, nella quale le archeologhe, secondo il più classico schema di quello che nel gergo della comunicazione si chiama straw man argument (la deliberata distorsione di una delle tesi dell’interlocutore per attribuirgli una determinata convinzione), sperano di far passare il sottoscritto come qualcuno che “celebra” l’allestimento precedente per opporre una “difesa di un museo cristallizzato”, dimenticando che io stesso sottolineavo come l’allestimento originale non fosse intoccabile, e che si potesse “intervenire in maniera meno radicale, apportando gli aggiornamenti laddove necessario, senza alterare il percorso immaginato quando il museo è nato”, avendo anche menzionato il caso del Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona, dove le vetrine storiche non sono state toccate dall’ultimo riallestimento (se non con l’aggiornamento degli apparati).

Quando Petitti, Carosi e De Angelis dicono che “per un archeologo il dato materiale è ovvio”, va ricordato che il pubblico d’un museo non è composto esclusivamente da loro colleghi, ma da persone che lo visitano per i motivi più svariati. E ci mancherebbe che in un museo non lavorino “esperti di preistoria e protostoria, di etruscologia” ecc.: non vedo perché sottolinearlo, non avendo chi scrive mai messo in dubbio le competenze di chi ha lavorato all’allestimento (peraltro ho anche rivolto parole di apprezzamento all’audioguida). Quando scrivono che “gli scenari che fanno da sfondo ai contesti o ai materiali esposti, sono quelli creati dai grafici della Soprintendenza che, con oltre 30 anni di esperienza” ecc., occorre far presente, di nuovo, che la mia critica non è diretta alla competenza di chi ha creato gli scenari, ma all’idea d’aver stravolto il percorso originale per allestire pressoché l’intero museo in quel modo. Nessuno, men che meno il sottoscritto, ha detto che l’alternativa a un museo tutto allestito a scenari sia una “galleria di vasi o pezzi muti”, anche perché vorrebbe dire che la stragrande maggioranza dei musei archeologici, dove l’esposizione dei pezzi e la ricostruzione dei contesti prescindono dall’idea che occorra intervenire quasi dappertutto con scenari illustrati con navi antiche o fondali con fotografie del paesaggio, si colloca al di fuori degli standard della comunicazione più aggiornata secondo le scriventi.

Sul fatto che il sottoscritto trascuri “le più recenti riflessioni sulla banalizzazione, se spiegata, di termini che in parte erano già entrati nella lingua etrusca e che oggi - questo sì - anche un bambino sarebbe capace di collegare ad una forma che può ritrovare in vetrina”, si può tralasciare la sterminata letteratura che, al contrario, caldeggia vivamente la resa in termini comprensibili dei nomi dei reperti: basterà ricordare alle archeologhe che le “Linee guida per la comunicazione nei musei” del loro stesso datore di lavoro (il Ministero della Cultura), propongono, tra i vari consigli, quello di “tradurre in italiano le parole straniere” (e l’esempio è proprio il termine kylix: concediamo che forse a Vulci arriva il pubblico più preparato del mondo se lì “anche un bambino”, solo leggendo il termine, è capace di ricollegarlo “ad una forma che può ritrovare in vetrina”).

Per quanto riguarda il calo di visitatori, non l’ho mai attribuito al presente allestimento (mi sono limitato a dire che una rivisitazione potrebbe invertire la tendenza: non capisco come mi si possa dunque ascrivere una volontà deterministica), quindi è futile parlarne. Quanto ai commenti di non meglio specificati “social network” (si tratta dei commenti che si trovano su Google, che peraltro non è un social network), non si comprende perché se i commenti sono positivi allora d’un tratto i titoli o la professione degli autori non contano più, ma al di là di questo, va detto che prenderne quattro a caso non ha alcun valore per corroborare una tesi, perché lo stesso stratagemma si può usare per sostenere la tesi contraria, dato che non mancano neppure i commenti negativi (auspico vivamente che in sede scientifica le tre archeologhe non utilizzino metodi così fragili per avvalorare i propri convincimenti). Con criteri un poco più solidi si possono analizzare le recensioni Google degli ultimi tre mesi: emerge che 33 utenti votano ma non commentano, 11 commentano ma non si sa se parlano del castello o del museo (dalle foto probabilmente si riferiscono al castello), 10 commentano ma parlano del castello o del ponte (addirittura uno di loro dice che “non si può visitare niente”), 10 commentano positivamente, uno dice che è “molto interessante ma con i fondi opportuni si potrebbe valorizzare ancora di più”, mentre per i rimanenti 7 dubito si possa parlare di “commenti positivi” (“il museo un po’ una delusione”, uno lamenta il fatto che parco e museo abbiano due gestioni diverse, “bello ma carente la cartellonistica stradale e parte delle sale del museo inutilizzate”, “Ambiente straordinario e affascinante nonostante sia stato trascurato. Nessuna segnaletica che indichi l’ingresso e le poche presenti sono erose”, “il posto ha più potenziale”, uno lamenta che ci sono pochi pezzi, “interno delusione vera e propria, quattro piccole salette in cinque minuti visto tutto”). I lettori traggano le proprie deduzioni.

Le archeologhe scrivono che il pubblico “coglie in maniera piuttosto immediata che l’immagine del Ponte dell’Abbadia all’interno del Museo è il simbolo di una strada da percorrere”: ecco, a giudicare dai commenti “social”, come li definiscono le archeologhe, sembra che il pubblico conosca castello e ponte più del museo, quindi, secondo la stessa logica, forse sarebbe meglio piazzare sul ponte una gigantografia dell’interno del museo. Peraltro, un commento di un anno fa su Google rilevava il guasto all’ascensore (“da chissà quanto”): quindi, poiché l’inconveniente s’è presentato anche al sottoscritto quest’estate, forse il mezzo è un poco difettoso. E allora, visto che alle archeologhe sta a cuore l’inclusività, per cortesia, chiamate un tecnico e fate vedere quell’ascensore.


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