Canaletto e Guardi forever


Il vedutismo settecentesco conobbe due grandi protagonisti: il Canaletto e Francesco Guardi. Canaletto ebbe una fortuna continua, mentre Guardi fu riscoperto solo agli inizî del Novecento. Due pittori così vicini, ma che intesero la veduta in maniera profondamente diversa.

Che colpo per il vecchio Luca Carlevarijs questa storia. Era a Venezia da diverso tempo dedito al paesaggismo pittoresco e perciò era anche il principale specialista nella veduta topografica, genere che coltivò col merito dello studio tecnico-scientifico riconosciutogli da più parti. Sembra essere, nella parte finale del Seicento, il più dotato dal punto di vista della preparazione, tanto da far pensare che fosse motivato sui problemi della meccanica della composizione richiesta dalla ricognizione topografica dei luoghi. Difatti, il ritratto dell’artista maturo fattogli da Bartolomeo Nazzari (Oxford, Ashmolean Museum) mostra la strumentazione di cui si circondava abitualmente, mappamondo, compasso, misuratori, testi scientifici e, solo più defilata, la tavolozza.

Tanto il maestro appare meccanico nella costruzione, quanto emerge l’ariosità della visione che invece sarebbe stata la quintessenza dello sguardo del Canaletto applicato agli orizzonti lagunari.

Stefano Conti, il nobile lucchese erede delle fortune di famiglia nel mercato delle stoffe, era vedovo e non viaggiava più; oramai erano passati parecchi anni da quando aveva visitato Venezia e perciò aveva voglia di avere ancora delle vedute di Luca Carlevarijs, che conosceva e a cui voleva affidarsi di nuovo per ricordare le ore felici trascorse in quella città spettacolare.

Si rivolse ad Alessandro Marchesini, un pittore veronese che l’aveva già guidato negli acquisti, ma inaspettatamente si vide contraddetto in una lettera inviatagli da Venezia il 14 luglio 1725: «V.S.Ill.ma desidera per li due accennati quadri da accompagnare gli altri che tiene dipinti dal Sig. Luca Carlevari. Ma adesso veramente vive il soggetto, se non fosse superato di maggior stima dal Sig. Ant. Canale, che fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede le sue opere, che consiste sul ordine del Carlevari ma vi si vede lucer entro il sole… ». Nel giro di circa un anno il Canaletto si dedicò a quattro nuove vedute per Stefano Conti, finite nella collezione Elwood B. Hosmer a Montreal: il Ponte di Rialto e il Canal Grande dal Ponte, due scorci che sviluppano la direzione dello sguardo proprio dall’appartamento preferito del cliente lucchese, e quindi anche l’infinita nostalgia (e forse il rimpianto) del luogo e dei giorni felici, e poi il Canal Grande con Santa Maria della Carità e il Campo Santi Giovanni e Paolo.

Forse il passo più bello, tra le centinaia e centinaia di lettere settecentesche, per un artista veneziano avviato a larghissima fama è quel “stordire” riferito da Alessandro Marchesini (étonner se volessimo pensarlo nella lingua più internazionale del momento) e cioè qualcosa che ci lascia scossi, immobili e muti per la meraviglia, momentaneamente meno coscienti, tanto da avere bisogno di un ventaglio per rianimarci, giusto per coltivare le abitudini dell’epoca. Questo capitò agli sguardi curiosi che videro l’opera del Canaletto esposta in occasione della festa annuale di San Rocco il 16 agosto 1725.

Tali convinzioni di ordine squisitamente formale vestono d’interesse il particolare rapporto del Canaletto col vedutismo di Luca Carlevarijs. Dunque appaiono più cospicui, perché interni al dispositivo della nascita della veduta veneziana moderna, i riferimenti di Alessandro Marchesini all’esperienza della luce, che per certi versi, sebbene muta e immota, ci appare visibilmente superiore a quella di cui abbiamo esperienza. Un rapimento dei sensi e innesco del persuasivo inganno degli occhi, come se lo spettatore fosse risucchiato nei cieli spalancati di Venezia. Canaletto sembrava godere di una nuova vitalità andando a caccia di quella seduzione direttamente sui luoghi in cui si manifestava che, attraverso gli occhi, divenivano il laboratorio mentale dell’artista, il varco offerto dall’elaborazione degli schizzi. Come la vivacità del disegno dell’Ashmolean Museum di Oxford, Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia, realizzato in preparazione del primo dipinto commissionato dal nobile lucchese al Canaletto: il frammento veneziano è nato all’impronta, senza mediazioni tecniche, sul luogo e sul momento, come sta a dimostrare l’appunto “sole” in basso, a destra del foglio, che corrisponde puntualmente al magnifico colpo di luce sull’acqua nella versione definitiva.

Canaletto, Chiesa del Redentore (1746 circa; olio su tela, 47,4 x 77,3 cm; Londra, Moretti Fine Art)
Canaletto, Chiesa del Redentore (1746 circa; olio su tela, 47,4 x 77,3 cm; Londra, Moretti Fine Art)
Canaletto, Ponte di Rialto (1725; 90,5 x 134,6 cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer)
Canaletto, Ponte di Rialto (1725; 90,5 x 134,6 cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer)
Canaletto, Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia (1725; penna a inchiostro bruno su traccia di gessetto rosse e nero, 140 x 202 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
Canaletto, Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia (1725; penna a inchiostro bruno su traccia di gessetto rosse e nero, 140 x 202 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
Canaletto, Canal Grande dal Ponte di Rialto (1725; olio su tela, 89,5 x 131,4 cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer)
Canaletto, Canal Grande dal Ponte di Rialto (1725; olio su tela, 89,5 x 131,4 cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer)

È un occhio che partecipa dall’interno alla vita della città, che ne sa ora cogliere il brillare delle cose, animate e inanimate, la certezza del tempo che si identifica interamente con l’opera, se consideriamo ad esempio i dettagli dei ponteggi che descrivono quanto stava capitando nell’edilizia cittadina, con le sue trasformazioni che permettono di datare i quadri anche se non possediamo dichiarazioni scritte. Canaletto fabbricava a sua volta, con fascino e con originalità (e senza copiare), la città dei desiderî; non si compravano ancora vetri, borse, scarpe e altri ricordini, come oggi capita, ma la visione di quel mondo, maturata con la relativa lentezza dello stile del viaggio, seguiva a casa in nuove visite, quando i cieli invernali si facevano grigi e (bastava un’occhiata) tornava l’estate di Venezia.

La scoperta della realtà che si rivela agli occhi nei suoi più completi propositi è conquista libera del Settecento, ma non bisogna trascurare quanto fossero diffusi l’attenzione e lo studio della meccanica compositiva propria degli impianti scenografici. Anzi, per essere il visibile un gran teatro con le sue varianti di luce e cose, era raccomandabile a uno specialista addentrarsi nei segreti di quella tecnica. La matrice comune alle regole di composizione scenografica, con l’abilità di organizzare nella verosimiglianza le diversissime parti del panorama, qualifica una delle peculiarità del XVIII secolo. Il tema del capriccio in particolare, che in sé rappresenta una declinazione tutta speciale del genere vedutistico, è la quintessenza del concetto di varietà e sorpresa, capace di stringere in sé ragione e piacere. Lo stesso Canaletto non esitava a dedicarsi con successo a questo genere, pur avendo già trovato una precisa identità vedutistica dopo le prime esperienze con l’incarico di scenografo.

Affiancati in una sala di villa Giovanelli a Noventa Padovana stavano due tele giganti con rovine classi che, architetture e figure; erano state acquistate probabilmente con la mediazione di Domenico Coronato, uno dei più conosciuti “bottegheri da quadri” della piazza veneziana, proprietario di quei negozi particolari paragonabili a certi odierni discount. Ma il Canaletto, firmando e datando 1723 uno degli esemplari (come raramente gli capitò) volle avvertire che le sue capacità erano grandi e si mostravano nello spazio tridimensionale del capriccio. Vi si apprezza l’idea registica, si allestiscono paesaggi mostrando insieme spazio e macchina scenica: per scoprirne meglio il segreto, si dovrebbe immaginare una sorta di esame del teatro dietro le quinte. E così si acquisterebbe familiarità con le varianti compositive, con sempre nuovi scenarî che lusingano gli amatori dell’epoca ad accogliere nei salotti di casa quello scherzo della natura, capace di piegare all’arrangiamento pittoresco scorci e testimonianze dell’antica grandezza delle città visitate.

Potremmo parlare di capricci anche per la famiglia settecentesca della conoscenza palladiana, col suo passato e il gravame dei miti e dei riti (i viaggi tra Venezia e Vicenza, per dire, a visitare le sue opere) che interessavano la buona educazione dell’upper class europea, soprattutto inglese. Fu così che la collaborazione di Antonio Visentini e Francesco Zuccarelli prese a modello le chiese di San Giorgio Maggiore e del Redentore, o di palazzo Chiericati, posti in un contorno di campagna tanto irrealistica quanto invitante.

Il gesto d’amore verso Andrea Palladio si compie nel percorso che aveva trovato materia fertile nella rievocazione dipinta compiuta dal Canaletto per desiderio di Joseph Smith, il console britannico a Venezia, famoso per proteggere gli artisti, per gli inviti nella magnifica casa sul Canal Grande ai Santi Apostoli, dove ai bei tempi si faceva anche mercato di quadri e altro. Gli aveva commissionato tredici sopraporte con monumenti dell’architettura veneziana, tra cui le miglior cose del Palladio, San Giorgio Maggiore, San Francesco della Vigna e quel Ponte di Rialto sul progetto mai realizzato dal grande architetto, divenuto prova generale per il capriccio più palladiano della storia, di cui scrisse il colto Francesco Algarotti nella lettera del 28 settembre 1759, con Rialto ancora, palazzo Chiericati e la Basilica di Vicenza: «un nuovo genere, quasi direi, di pittura, il quale consiste a pigliare un sito dal vero, e ornarlo di poi con belli edifizi o tolti di qua e di là, ovveramente ideali. In tal modo si viene a riunire la natura e l’arte, e si può fare un raro innesto di quanto ha l’una di più studiato su quello che l’altra presenta di più semplice».

La conversazione del Canaletto con le architetture di Palladio continuò a Londra, dove si trasferì dal 1746 per una decina d’anni. Nuovi dipinti erano richiesti per diffondere l’eredità del vicentino, come la Chiesa del Redentore, riemerso in Inghilterra a metà Ottocento per essere riacquistato con intatta passione.

Questa veduta ci permette di chiarire come l’equilibrio tra verosimiglianza spaziale e sensibilità atmosferica, pur ammettendo tutti i tecnicismi della camera ottica, vera e propria strumentazione fotografica ante litteram per impostare lo scorcio, stia nel respiro della rappresentazione finale, in cui si concentra la complessità e tutta l’energia dell’invenzione, dunque ben al di là di una semplice meccanica compositiva.

Venezia nel Settecento era divenuta una delle più popolari città d’Europa, luogo delle apparenze e del piacere per il popolo dei viaggiatori, specularmente riflessi nell’opera dei vedutisti e in quella particolare del Canaletto, che poteva sembrare uno squisito fiore tutto sentimentale col suo plein air a cui aveva saputo dare sempre nuove variazioni su alcuni t emi prediletti. Quel suo repertorio sembra rinascere ancora a Londra. Nella grande capitale pare rivitalizzarsi la sensibilità per la veduta con l’arrivo nelle raccolte di Giorgio III dei Canaletto di Joseph Smith (1762), quando l’artista era da tempo rientrato a Venezia.

Tanti doni avrebbero scaldato i cuori dei molti innamorati di Venezia anche durante l’Ottocento e fu così che i quadri elaborati per la collezione di Stefano Conti, tra i molti che vi erano già presenti, nel 1832 entrarono nella casa di Robert Townley Parker a Londra, città dove il Canaletto aveva a lungo lavorato.

Già: l’Ottocento e la fortuna del vedutismo veneziano. Canaletto, che pure non ebbe buoni rapporti con l’Accademia di casa, dove entrò a fatica solamente a fine carriera, continuò ad essere copiato nei banchi di scuola tramite le sue celebri incisioni. Non ebbe gloria ufficiale, ma ad esempio troviamo l’eccentrico Niccolò Tommaseo con un’interpretazione teorica da Romanticismo cristiano della figura del vedutista (1838), che consegna a un commento ideale basato su alcune opere viste a Montpellier, in realtà di Francesco Guardi. Un artista, questi, ritrovato e scoperto agli inizi del Novecento da Simonson e Damerini in chiave preimpressionista per la rapidità e l’esuberanza del suo dipingere vedute, quelle forme evocate tra cieli e acque che però apparivano frutto di un’immaginazione priva di regole ai cultori del classicismo di fine Settecento. Eppure egli non mancò d’interessare una ristretta cerchia di amatori, come ci ha raccontato Francis Haskell indagando anche sulle uscite di certe sue opere nel corso del diciannovesimo secolo, apprezzatissime in Inghilterra. C’è da chiedersi quanto non fossero piuttosto attratti dalla tradizionale fortuna del tema vedutistico rassegnandosi all’assenza nel mercato collezionistico di esemplari del rinomato Canaletto, quasi niente del nipote Bellotto, poco del Marieschi, forse qualche capriccio di Visentini, Joli e Battaglioli. «Restano le cose del Guardi», raccontava Pietro Edwards allo scultore Antonio Canova, che da Roma, nel 1804, s’interessava all’argomento, «scorrette quanto mai, ma spiritosissime, e di queste vi è adesso molta ricerca, forse perché non si trova di meglio. Ella sa però che questo Pittore lavorava per la pagnotta giornaliera; comprava telacce da scarto con imprimiture scelleratissime… ». Un’immagine che in una specie di transfert visivo ha lasciato tracce evidenti nella storia grama dell’artista, se ancora il milanese Giuseppe Bertini lo ritraeva, in un dipinto presentato a Brera nel 1894, un poco imbronciato a vendere i suoi quadretti ai clienti perdigiorno dei caffè di piazza San Marco.

Oggi però lo ricordiamo (e per certi versi fa impressione) con una delle sue vedute più riuscite, il Ponte di Rialto col palazzo dei Camerlenghi, acquistata nel 1768 dal politico Chaloner Arcedeckne (ancora un inglese in viaggio a Venezia), che da Christie’s a Londra nel 2017 è stato proposto a venticinque milioni di sterline.

Francesco Guardi, Ponte di Rialto col Palazzo dei Camerlenghi (metà anni Sessanta del XVIII secolo; olio su tela, 119,7 x 204,3 cm; Collezione privata)
Francesco Guardi, Ponte di Rialto col Palazzo dei Camerlenghi (metà anni Sessanta del XVIII secolo; olio su tela, 119,7 x 204,3 cm; Collezione privata)
Canaletto, Capriccio con architetture classiche (già a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)
Canaletto, Capriccio con architetture classiche (già a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)
Canaletto, Capriccio con architetture (già a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)
Canaletto, Capriccio con architetture (già a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)

Come per certi versi capitò alla pittura di Giambattista Tiepolo, il giudizio di modernità di Francesco Guardi non contrasta più con le qualità dell’immaginazione, cose che ora assumono la valenza positiva grazie al passaggio degli umpressionisti. Come la luce, nelle sue tracce evidenti che hanno rappresentato il vedutismo del Canaletto e dello stesso Guardi; anzi meglio il secondo del primo, con la freschezza dello sguardo vivo del ricordo, irrorato dai colori dell’improvvisazione che rivela un’esperienza istantanea, piuttosto dell’altro e dei suoi saggi di una Venezia oggettiva, spaziata a memoria pur nella preparazione tecnica dell’inquadratura prospettica.

Viva Guardi, avrebbe detto da Parigi Paul Leroi nell’Ottocento e, noi aggiungiamo, la sua innocenza che ci accompagna per sempre dentro all’illusione di Venezia. E pensare che tutto era cominciato nella bottega del fratello Giannantonio Guardi. Tra anni Trenta e Quaranta erano costretti all’attività di copisti da opere di maestri più quotati; prodotti da destinare prevalentemente alle collezioni dei Giovanelli e di Johann Matthias von Schulenburg, che gli aveva inclusi tra i poveri nel libro paga.

La riflessione sull’effettivo inizio del vedutismo di Francesco Guardi non è marginale, dato che la critica ancora si divide. La pratica prese avvio alla morte del fratello maggiore, Giannantonio (1760)? E in tal caso, come giustificare una direzione stilistica del vedutismo di Francesco tutta opposta alla luce solare, che all’epoca aveva posato il genere pittorico sulle attenzioni e sulla comprensione dell’occhio canalettiano? Come pensare che la radice del vedutismo contemporaneo, la sua grandezza e la novità della luce che si irradia fino all’infinito, qualità che meravigliavano i collezionisti dell’intera Europa, trovassero una risposta a Venezia così fuori sincrono negli anni Sessanta, cioè nei primi ipotetici tentativi di Francesco Guardi; tagli dalle atmosfere profonde, quasi il maestro volesse proporre un viaggio verso gli inizî della maniera dello stesso Canaletto? Ma bisognerà entrare meglio nelle suggestioni più profonde della formazione guardesca, prima delle immagini più celebri di Venezia, trapunte di luce guizzante e passate d’aria. Una testimonianza risalente al primo Ottocento, ci parla di una collaborazione di Francesco Guardi col Canaletto nell’esecuzione di alcune vedute. Si tratta di una supposizione, ma non si può escludere che un adolescente alle prime armi nella pittura, come si sa appartenente a una famiglia di poveracci, potesse aiutare un vedutista già rinomato qual era il Canaletto; scoprirne le idee e il trapasso da un vedutismo contrastato nelle atmosfere, direi pittoresche come sembravano essere state le sue vedute dei primi anni Venti del secolo. Però se fosse vero, chissà come avrà sgranato gli occhi davanti ai due capricci per i Giovanelli della villa di Noventa vicino a Padova.

Un debito alla lontana nei confronti del Canaletto, del tutto normale per chi viveva praticando il lavoro di copista ancora durante il quinto decennio. E poi la funzione della macchia con la quale accende di vita il panorama veneziano delle architetture immobili, ad esempio nelle figure, che vediamo tracciate in uno Un’esperienza di stile che il maestro si costruisce in un ambito di consumo del genere vedutistico di cui si poteva essere anche vittime nel mercato locale. Ecco formarsi la caratteristica di un maestro che sarebbe stato tra i principali interpreti della seconda metà del secolo e che sembra raccomandarsi al destino della domanda sulla piazza veneziana.

Ed è così che la poetica settecentesca da cui dipende la libera combinazione di architetture e figure nella chiara coscienza del trionfo dell’invenzione, sembra piegarsi a quella visione di meraviglia. Vi si riconosce la sicurezza dell’occhio portato ad espandere lo spazio, e la qualità della tessitura compositiva ed atmosferica, tutta virata, parrebbe, nella trasparenza di un sofisticato monocromo. Chissà, volendo correre con la fantasia, potremmo anche immaginare che Francesco Guardi volesse pensare la sua città a occhi chiusi, intatta, vivendo giorni umili, ma onesti e sereni, che vediamo per l’ultima volta nei suoi quadri. Come se non volesse staccarsi mai da quel piacere.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 3 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte Magazine. Clicca qui per abbonarti.


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