Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954) è probabilmente tra le artiste viventi più note al mondo. Il mezzo espressivo che l’ha resa famosa è la fotografia e la scelta di questo medium non è probabilmente casuale. Sherman appartiene infatti a una delle prime generazioni di americani cresciute con la televisione e in un contesto sempre più pervaso di immagini provenienti da quei film, pubblicità e riviste che già avevano attratto e ispirato gli artisti della Pop Art negli anni Cinquanta e Sessanta.
L’artista avvia la sua formazione artistica nel 1972 quando inizia a frequentare il Buffalo State College. Qui studia prevalentemente pittura ed entra in contatto con la fotografia. Diverse fonti menzionano addirittura la sua bocciatura al primo esame di questa disciplina. L’amore per il mezzo espressivo si unisce poi fin da subito ad una propensione tutta naturale per il travestimento e la costruzione di personaggi, attività questa che risale alla gioventù. L’artista ricorda di aver desiderato di vivere come se ogni giorno fosse Halloween, per interpretare di volta in volta i ruoli più disparati e mostruosi. La categoria del grottesco e del terrificante rientrano per altro perfettamente nei registri visivi entro i quali si inscrive almeno parte del lavoro della Sherman. A partire da opere più datate, come Untitled #153 (1985) e Untitled #304 (1994), fino a serie relativamente più recenti come Clowns (2003-04) o a scatti come Untitled Film Still #546 (2010-12),l’artista si allontana dalla ricerca instancabile del bello che caratterizza la società e dimostra tutta la sua attrazione verso figure ambigue, talvolta caricaturali rispetto alla fauna umana delle nostre città fisiche e virtuali. Non manca anche un occhio verso il passato e alle immagini care alla storia dell’arte come in Untitled #216 (1989), dove la fotografia è utilizzata per alludere alla pittura sacra rinascimentale e Sherman è abbigliata come la Vergine che, in atteggiamento materno, porge a Gesù Bambino un seno, visibilmente artificiale. Tutto l’universo di Sherman è intriso di esagerazione e di artificialità esibita ma, alle origini, la finzione è del tutto verosimile. Viene in prima istanza mutuata dal repertorio di immagini cinematografiche alle quali l’artista guarda nella realizzazione della prima serie fotografica, divenuta poi celebre, gli Untitled Film Stills (1977-80). In questo corpus di opere Sherman trova ispirazione nei fermo immagine iconici utilizzati per la promozione delle pellicole cinematografiche e mette a fuoco gli strumenti e i temi che tuttora accompagnano la sua produzione.
Cindy Sherman, Untitled #304 (1994; stampa cromogenica a colori, 154,94 x 104,14 cm; Los Angeles, The Broad) |
Cindy Sherman, Untitled #424, dalla serie Clowns (2003-2004; stampa cromogenica a colori) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #546 (2010-2012) |
Cindy Sherman, Untitled #216 (1989; stampa cromogenica a colori, 220,98 x 142,24 cm; Los Angeles, The Broad) |
L’artista, che si definisce comunemente fotografa, per la verità assume su di sé svariate vesti: è modella e protagonista di ogni scatto, oltre che regista, costumista e truccatrice. Lavora in completa solitudine all’interno del suo studio, “performando davanti alla fotocamera” come da titolo della mostra collettiva Performing for the camera, tenutasi alla Tate Modern di Londra nel 2016. L’esposizione, che radunava artisti che variamente hanno impiegato il mezzo fotografico, si avviava con una domanda, determinante anche per la comprensione profonda del lavoro di Sherman: “vera e propria performance art, ritrattistica o semplicemente mettersi in posa per una fotografia… cosa significa esibirsi di fronte alla macchina fotografica?”.
Seguendo questo interrogativo, è possibile affermare che la pratica artistica di Sherman è a tutti gli effetti una forma di ritrattistica o di autoritrattistica, seppur slegata dalla persona o dalla biografia dell’artista. Le sue opere sono anche state ospitate, significativamente, nelle sale della National Portrait Gallery di Londra nel 2019. Tuttavia, ogni lavoro dell’artista porta con sé una forte componente performativa che rimanda la mente ad alcuni celebri precedenti della prima metà del Novecento. Si pensi, ad esempio, agli scatti di Man Ray che immortalano Marcel Duchamp come Rrose Sélavy, suo alter ego femminile; o, di poco precedenti ai primi lavori della Sherman, alle polaroid degli anni Settanta della serie S’he, in cui Ulay si mostra come un individuo androgino. Le implicazioni e le questioni che le opere di Sherman sollevano rimandano direttamente ad una riflessione profonda sul concetto di identità e su come questa sia il risultato di una costruzione sociale. L’artista si trova così ad esplorare con occhio critico e in alcuni casi ironico i personaggi che inventa e interpreta. Nei settanta scatti in bianco e nero degli Untitled Film Stills, l’artista cela la sua identità e impersona diversi ruoli femminili, in accordo con stereotipi classici, ampiamente rappresentati dai film dell’epoca e presenti più in generale nell’immaginario comune. È presente la moglie in cucina (Untitled Film Stills #3, 1977), la studiosa (Untitled Film Stills #13, 1978), la giovane donna in carriera (Untitled Film Stills #21, 1978), la casalinga (Untitled Film Stills #35, 1979), la viaggiatrice solitaria sul ciglio della strada (Untitled Film Stills #48, 1979), l’amante sensuale e vanitosa (Untitled Film Stills #81, 1980).
Cindy Sherman, Untitled Film Still #3 (1977; stampa alla gelatina d’argento, 16,19 x 23,5 cm; Los Angeles, LACMA) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #13 (1978; stampa alla gelatina d’argento, 24 x 19,1 cm; New York, MoMA) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #21 (1978; stampa alla gelatina d’argento, 19,1 x 24,1 cm; New York, MoMA) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #48 (1979; stampa alla gelatina d’argento, 71 x 95,5 cm; Londra, Tate Modern) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #21 (1980; stampa alla gelatina d’argento, 24 x 16,7 cm; New York, MoMA) |
Cindy Sherman, Untitled Film Still #74 (1980; stampa a colori C-Print, 39 x 59 cm; Londra, Victoria&Albert Museum) |
Cindy Sherman, Untitled #584 (2017-2018; stampa a sublimazione in metallo, 101,9 x 158,8 cm) |
Una messa a nudo piuttosto esplicita quindi del ruolo delle immagini nel perpetrare luoghi comuni e cliché sessisti. Uno sguardo leggermente diverso è quello verso i Society Portaits (2008), serie che ritrae favolose donne dell’alta borghesia, intente da un lato ad ostentare il loro status, dall’altro a contrastare l’invecchiamento inseguendo l’ideale dell’eterna giovinezza; o ancora la prospettiva offerta da Untitled #602 (2019), in cui l’artista cambia genere ed incarna un uomo all’interno di un giardino privato. In questo caso la presenza tautologica di un altro personaggio della Sherman (da Untitled #74, 1980), questa volta femminile, stampato sulla maglietta dell’uomo innesca ulteriori cortocircuiti di senso, così come avviene anche in Untitled #584 (2017/18), dove il soggetto interpretato dall’artista si propone in un certo senso moltiplicato nella versione di quattro gemelle.
Il lavoro della Sherman pone anche interessanti interrogativi sull’affidabilità delle immagini. Un esempio interessante è Bus Riders (1976-2000), rassegna dei distratti passeggeri di un immaginario autobus. Qui, a rompere la finzione e disvelare gli strumenti di scena, compare in maniera sistematica il cavo utilizzato dalla Sherman per scattare la fotografia stessa. Questo rapporto divertito con le immagini ci porta inoltre a ricordare che l’artista si inserisce nel gruppo di artisti che, confrontandosi con il crescente peso della cultura mediatica, è passato alla storia come la Picture Generation, sorta nell’ambito dell’Artist’s Space di New York sul finire degli anni Settanta. I riferimenti filosofici di questo gruppo informale, composto, tra gli altri, da Richard Prince, Louise Lawler, Robert Longo, sono da ricercare in scritti quali quelli del semiologo francese Roland Barthes con particolare attenzione per La mort de l’auteur (1968). Qui veniva teorizzata l’idea secondo cui l’autore sopprime volontariamente la sua identità e nell’opera “trascende sé stesso e consegna la propria vita agli altri, decide di vivere nel senso che gli daranno gli altri in una polifonia”, recependo, in un certo senso, un intero tessuto di citazioni e riferimenti al contesto sociale e culturale e anche ad altre opere (Enrico Giannetto, Sguardi sul pensiero contemporaneo. Filosofia e scienza per cambiare il mondo, Libreria Universitaria Edizioni, 2018, p. 278).
Sicuramente la parola polifonia ben accompagna la poetica dell’artista americana che già nel 1982, a soli 28 anni, entrava a far parte delle collezioni del MoMA di New York. La stessa scelta di non dare un titolo alle opere, che come si è visto sono quasi interamente nominate Untitled, risponde probabilmente anche alla necessità di lasciare aperte una moltitudine di interpretazioni e di significati. L’approdo dell’artista sulla piattaforma social di Instagram, dove posta regolarmente ritratti modificati con l’app Facetune, è forse l’ultima interessante operazione della Sherman. Oltre a porre sempre ulteriori domande sullo statuto dell’opera d’arte al tempo dei social network, l’artista dimostra tutta la sua fascinazione per l’immagine, per l’esplorazione del concetto d’identità e per la condivisione della sua opera, che, fin da principio, (nonostante sia poi arrivata a costare fino a 3,89 milioni di dollari) avrebbe dovuto essere nella sua mente qualcosa di economico da acquistare in un negozio di articoli di prima necessità, alla portata di tutti come sulle piattaforme social, piuttosto che arte (Cindy Sherman in E. Respini, Cindy Sherman, catalogo della mostra, Museum of Modern Art, New York, 2012, p. 21-22).
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Stella Cattaneo
Specializzanda in Storia dell'arte e valorizzazione del patrimonio artistico presso la Scuola di Specializzazione dell'Università degli studi di Genova. Attualmente curatrice di Casa Museo Jorn (Albissola Marina, Savona), ha partecipato a convegni e giornate di studio all'Università di Losanna e all'Università di Genova (2019) e a seminari internazionali di museologia (école du Louvre, 2018). I suoi interessi di ricerca si rivolgono prevalentemente all'arte contemporanea con particolare attenzione al periodo del secondo dopoguerra e all'opera di Yves Klein.