Faccio una grossa fatica a ritenere innocente la Canestra di frutta su Caravaggio, specie se la sua presunta limpidezza dovrebbe emergere per contrasto guardandola assieme alla cesta d’armi di Jago che, da tre mesi, la Pinacoteca Ambrosiana di Milano espone davanti alla natura morta del Merisi. Non riesco a pensare a una composizione di foglie e frutti più ambigua, più inquietante e persino più disturbante della Canestra. Manganelli diceva che la caratteristica che più lo colpiva di Caravaggio era la sua astuzia, qualità necessaria per portare a termine un compito estraneo alla società in cui operava e che lo costringeva a dover mentire, adescare, sconcertare. L’astuzia di Caravaggio, qui, sta nel trasmettere al riguardante l’idea d’una natura ch’è già in decomposizione quand’è nel pieno della sua succosità, nel far capire che il deterioramento, il decadimento, la putrefazione sono già qui, in mezzo a noi, anche quando le apparenze suggeriscono altro. Non c’è niente d’innocente dentro quella cesta.
Non sto però dicendo niente di nuovo, e mi rendo conto che non è interessante continuare a parlare della Canestra di Caravaggio. Ed è anche poco interessante parlare dell’abisso ch’esiste tra la sua canestra e quella di Jacopo Cardillo, una cesta d’armi che dovrebbe denunciare la violenza della nostra società. Forse interessa poco anche a lui: il direttore dell’Ambrosiana, monsignor Alberto Rocca, ha dichiarato che l’“evento” (come lo chiama per tutta la durata dell’intervista che gli è stata fatta per presentare il confronto: almeno ha usato il termine più corretto) è nato da un incontro fortuito con Jago. E a Jago, probabilmente, non dev’esser parso vero di poter esporre un suo lavoro davanti a Caravaggio: pazienza poi se la cesta piena di armi è opera di un’ingenuità talmente disarmante da non richiedere grossi commenti. Non è un’opera che lavora su di una soglia: è un lavoro che dice tutto subito, è un’immagine che ha mercanteggiato con la nostra disattenzione e col nostro bisogno di ricevere risposte semplici per problemi complessi, ha capito d’essere priva di qualunque potere contrattuale e ha pertanto deciso di mostrarsi nella sua più nuda retorica. Potrebbe essere, semmai, l’opera di un valido illustratore, di un vignettista che ha necessità di catturare subito il lettore d’un giornale con un commento sarcastico sul fatto del giorno (o della settimana o anche dell’anno) e di conseguenza ha bisogno d’essere esplicito e didascalico per farsi capire.
Probabilmente però ha ragione Jago: tutta la sua arte è un repertorio d’immagini che hanno l’enorme merito di coinvolgere le folle. E questo è un pregio non da poco: se le arti visive son sempre più irrilevanti per il pubblico di non addetti ai lavori, Jago è quanto meno tra i pochi che si pongono il problema, e non si nega che per tanti può essere fonte d’un primo interesse, può essere una prima porta d’ingresso. Toccherà, tuttavia, esser ripetitivi: sulla distanza siderale che lo separa dagli orientamenti della critica d’arte (o, per meglio dire, di quel poco che ne è rimasto) non c’è granché da dire, così come c’è poco da dire sul perché, al contrario, le opere di Jago riescano con tanta facilità a catturare l’interesse del pubblico e, talvolta, pure quello di qualche istituzione. L’essenza dell’arte di Jago è tutta nello storytelling. Se n’è già parlato già su queste pagine e altrove: Jacopo Cardillo è un artista di successo perché le sue sculture sono facili da capire, mirano a suscitare emozioni sui temi del momento, affrontano i loro argomenti in maniera diretta, illustrativa, senza scavare. Di contro, si può dire che siano superficiali, che manchino di tensione, che non siano sfidanti, che cerchino il consenso più che l’ambiguità o la profondità, ma il suo pubblico risponderebbe con un fragoroso “e sticazzi” all’indirizzo del critico col dito alzato, e farebbe anche bene. Jago evidentemente è ben consapevole che, nell’epoca della disintermediazione, dell’infodemia, del crollo della soglia d’attenzione, un’opera d’arte è tanto più efficace quanto più in grado d’arrivare subito a chi scorre immagini e video sullo schermo d’un telefono (perché è ormai questa la modalità con cui il grosso delle persone conosce l’arte: non dal vivo, ma tramite social, e non a caso Jago è l’artista visivo italiano più seguito su Instagram). E pazienza se le sue opere paiono più trovate e boutade che lavori mossi da un’autenticità sincera (inevitabile pensare, per esempio, alla versione al femminile del David di Michelangelo che Jago ha portato in giro per il mondo col tour della nave Vespucci: un’operazione apparentemente provocatoria, ma in realtà priva d’un qualunque sviluppo concettuale, priva d’un qualunque sostegno solido, e dunque estremamente povera, figlia d’un approccio più mediatico che artistico). Date a Jago quello che è di Jago: e cioè numeri, successo di pubblico, successo commerciale e assessori pronti a stendergli tappeti rossi, bordeaux, viola, di tutti i colori.
Fin qui, comunque, tutto bene: il pubblico ha la piena facoltà di riconoscersi nell’arte che ritiene a sé più vicina, e se qualcuno ritiene che il David con gli attributi sessuali muliebri sia più vicino e conforme al proprio gusto e al proprio pensiero, nessuno può dirgli niente. Ognuno ha il diritto di emozionarsi come e quanto vuole, ognuno ha il diritto di accendersi con quello che gli pare, e certo non si nega a Cardillo la capacità di colpire il suo pubblico. È del tutto legittimo.
Qualche perplessità dovrebbe però circolare, almeno tra gli addetti ai lavori, se la legittimazione giunge da un museo al quale è peraltro capitato d’avere un Caravaggio nella propria collezione. Sciolto ogni ragionevole dubbio sull’eventualità che la mostra Caravaggio-Jago possa essere un’astuta provocazione per schiaffeggiare pubblico e addetti ai lavori e inchiodare l’intero uditorio di fronte a tutti i problemi e a tutta l’irrilevanza dell’arte contemporanea (nel caso rasenterebbe la genialità, ma non penso sia stato questo l’intento del museo... e anche se fosse, nessuno l’ha percepita come tale), il vero punto della questione non è tanto il confronto in sé. Il punto è un altro, e riguarda più il ruolo del museo che il mero accadimento. Riguarda più il generale che il particolare. In poche parole: esiste un museo tra i più importanti d’Italia che ritiene interessante allestire una mostra tutta basata sull’accostamento tra un’opera di Caravaggio e un’opera di Jago, che scambia per “denuncia coraggiosa” un lavoro che, davanti alla Canestra di frutta, spicca semmai per prevedibilità e moralismo, e che prende sul serio un artista che dichiara d’aver “voluto indagare la violenza silenziosa che permea la nostra società” con una cesta di rivoltelle e fucili da caccia.
Dunque, se si ritiene che il museo sia ancora un luogo che serve per dare un ordine al passato e al presente, è legittimo coltivare qualche leggero dubbio sulla solidità, sulla tenuta, sulla necessità e financo sulla stessa fondatezza dell’operazione. In altri termini: se si ritiene che i “due sguardi sulla caducità della vita”, come da titolo della mostra, di Caravaggio e Jago siano confrontabili, che i due possano giocare sullo stesso campo, che non ci sia un filo di populismo e di superficialità nell’idea di ritenere Jago un artista in grado di stabilire un dialogo con Caravaggio presentando una cesta con schioppi e pistolette, allora è più che lecito farsi qualche domanda. Se invece si punta sul cavallo più veloce per attirare pubblico al museo, specie se il museo è percepito come lontano da tutto quel pubblico ch’è incline a estasiarsi a mezzo Instagram davanti ai marmi di Jago, allora si possono pure dismettere i panni del confronto tra passato e presente, si possono abbandonare gli alibi culturali, si può evitare la retorica sulla denuncia della violenza, e potrebbe essere invece più profittevole presentare il confronto, per esempio, col fraseggio degli incontri di wrestling. Una roba tipo “il pittore maledetto contro il Michelangelo del terzo millennio, il silenzio misterioso di Caravaggio e il pugno scolpito di Jago in un confronto senza precedenti”. Del resto, anni fa Cristiana Collu organizzò un concorso di bellezza tra ritratti dell’Ottocento e in tempi più recenti il Bacco di Caravaggio è stato esposto al Vinitaly, quindi siamo già abbastanza abituati.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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