Il disastro delle mostre immersive


È degli ultimi anni la scoperta delle mostre immersive: spesso però sono soltanto eventi a una sola dimensione, quella del consumo rapido. Più spettacoli che mostre. Cosa sono davvero? E cosa ci perdiamo in una mostra immersiva? Sono davvero democratizzazione della cultura? L’opinione di Federica Schneck.

C’è una parola che torna, come un mantra, nei comunicati stampa e nei caroselli sponsorizzati di Instagram: esperienza. Esperienza immersiva. Esperienza unica. Esperienza digitale. In questi ultimi anni, il mondo dell’arte (o meglio: il mondo del marketing dell’arte) ha scoperto un nuovo totem da venerare: la mostra immersiva. Van Gogh che si anima a parete. Klimt che si muove in dissolvenza sulle volte di una chiesa sconsacrata. Frida Kahlo narrata da una voce fuori campo, tra fiori tridimensionali e specchi digitali. Le chiamano “immersive”, ma spesso sono esperienze a una sola dimensione: quella del consumo rapido. E allora la domanda si fa urgente: cosa stiamo realmente vivendo in queste “mostre”? E soprattutto: cosa stiamo perdendo?

Le mostre immersive si presentano come democratizzazione della cultura: “portiamo l’arte a tutti”. Ma portare a tutti cosa, esattamente? Non certo l’opera. Non certo il pensiero dell’artista. Non il tempo, non il contesto, non il gesto. Quello che viene offerto è una sua simulazione visiva, unombra elettronica. L’opera originale non c’è: c’è una sua proiezione, spezzata, animata, adattata a un linguaggio narrativo da videoclip. È un museo senza opere, un racconto senza critica, un’estetica senza rischio.

Il problema non è (solo) tecnologico. Il problema è la riduzione dell’arte a contenuto, a intrattenimento sensoriale immediato. In queste esperienze, non si chiede di osservare: si chiede di guardare. Non si chiede di pensare: si chiede di provare emozioni. La complessità viene tradotta in decorazione. Il tempo dell’arte, che è anche attesa, silenzio, tensione, viene spianato. La storia dell’arte si fa storytelling interattivo, neutro, disinnescato. Il modello è quello del parco a tema, ma con la retorica dell’accessibilità culturale. Si paga il biglietto per un’ora di sospensione percettiva, si fanno foto tra le pareti animate, si esce dicendo “wow” e magari si compra anche una tote bag con i girasoli. Il risultato è una deriva estetizzante che svuota le immagini del loro potere critico. In questo senso, l’immersione non è approfondimento: è anestesia.

Immagine generata con intelligenza artificiale
Immagine generata con intelligenza artificiale

Eppure, questa estetica dell’immersione ha attecchito ovunque. Anche nel linguaggio istituzionale. Anche nei musei. Spesso non si tratta più di avvicinare il pubblico all’arte, ma di avvicinare l’arte al pubblico-consumatore. Un’arte che non “chiede troppo”, che non mette in discussione, che può essere venduta a pacchetti, replicata in franchising. Ma che arte è quella che non rischia nulla? Cosa significa guardare Rothko senza il silenzio? Cosa resta di Caravaggio senza il buio?

Il disastrodelle mostre immersive non sta nel fatto che siano popolari. Sta nel fatto che si fanno passare per mostre, quando sono spettacoli. Che si sostituiscono all’esperienza autentica dell’opera, invece di accompagnarla. Che trasmettono l’idea che l’arte debba essere sempre emozionante, dinamica, comprensibile, leggibile in tre minuti.

È una pedagogia del frammento. Un addestramento a vedere senza davvero guardare. Nel lungo periodo, il rischio è culturale: un pubblico che ha “visto tutto” ma non ha mai incontrato nulla. Che conosce la superficie delle cose, ma non sa più stare nella profondità. Che vuole essere “immerso” perché ha perso il senso del toccare con lo sguardo. E allora? Non si tratta di rifiutare la tecnologia. Né di rimpiangere la contemplazione passiva. Si tratta di restituire complessità all’esperienza estetica, di distinguere tra l’intrattenimento e l’arte. Di comprendere che l’accessibilità non può significare banalizzazione. Che la vera immersione avviene quando un’opera ti guarda, ti mette in crisi, ti cambia qualcosa dentro.

Non serve “spettacolarizzare” Van Gogh per renderlo vivo: basta mostrare davvero cosa ha visto, cosa ha sentito, cosa ha scritto. Non serve animare Klimt per avvicinarlo: basta leggere i suoi gesti come politica del desiderio. Non serve immergere il pubblico in un mare di luce: serve trovare il modo di generare presenza, relazione, tensione.

L’arte non deve sempre piacere. Non deve sempre “funzionare”. Deve aprire qualcosa. E se una mostra immersiva, ogni tanto, può essere uno stimolo, una soglia, un primo passo, ben venga. Ma non facciamone il modello, non facciamoci ingannare dalla bellezza senza rischio. Perché l’arte, quella vera, ci chiede di emergere, non di essere immersi. Di entrare in contatto, di restare vulnerabili. E soprattutto, ci chiede di avere tempo. Quel tempo che le mostre immersive ci rubano, in nome di un’emozione immediata che non lascia traccia.


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Federica Schneck

L'autrice di questo articolo: Federica Schneck

Federica Schneck, classe 1996, è curatrice indipendente e social media manager. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Pisa, ha inoltre conseguito numerosi corsi certificati concentrati sul mercato dell’arte, il marketing e le innovazioni digitali in campo culturale ed artistico. Lavora come curatrice, spaziando dalle gallerie e le collezioni private fino ad arrivare alle fiere d’arte, e la sua carriera si concentra sulla scoperta e la promozione di straordinari artisti emergenti e sulla creazione di esperienze artistiche significative per il pubblico, attraverso la narrazione di storie uniche.



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