Le tre versioni del Pietro Rossi di Hayez per la prima volta insieme: com'è la mostra di Pontremoli


Per la prima volta nella storia, le tre versioni del Pietro Rossi di Francesco Hayez, il primo dipinto del Romanticismo italiano, autentica pittura-manifesto, sono state riunite e vengono esposte assieme nel Palazzo Comunale di Pontremoli. Ecco com’è la mostra. La recensione di Federico Giannini.

La Pontremoli di Francesco Hayez è sospesa nel sogno d’un Medioevo romantico, il primo d’Italia, fatto di castelli e cavalieri immacolati, di dame vestite di velluto e di sfolgorii d’armature. Hayez però non c’era mai stato, a Pontremoli. O se qualche volta fu mai a Pontremoli, non ne ha lasciato traccia. Ciò nondimeno, per inventarsi l’opera che diede avvio al romanticismo italiano gli bastò una suggestione, un appunto di cronaca antica, un episodio laterale della storia del Trecento, quasi dimenticato, ma tanto evocativo d’avergli ispirato uno dei suoi capidopera di più forte impatto. Il Pietro Rossi a Pontremoli, la tela che Hayez eseguì nel 1818, a ventisette anni, è ormai pienamente accettato come il primo dipinto pienamente romantico che sia stato eseguito sotto le Alpi, e fu subito riconosciuto anche dai contemporanei. Un’opera ch’ebbe una fortuna immediata e inattesa, tanto che, anche a distanza di decennî, Hayez si trovò a replicare quel clamoroso successo giovanile. Oggi ne rimangono tre versioni autografe, mai riunite sinora. E per giungere a una mostra in grado di radunare ed esporre assieme i tre dipinti sono occorse l’intraprendenza del Comune di Pontremoli, che ha lavorato a lungo per portare in Lunigiana tutti i dipinti che Hayez dedicò al condottiero parmense, e la lungimiranza della Pinacoteca di Brera che ha avviato un progetto, La Grande Brera in tour, per disseminare sul territorio opere sottratte in passato dai loro contesti e lavori che invece hanno un legame profondo coi luoghi che temporaneamente li accolgono.

Neppure i dipinti di Hayez sono mai stati a Pontremoli. Sono tutti nati lontano da qui, ma è qui ch’è avvenuto il fatto storico consegnato all’immediatezza della tela: appare dunque naturale la scelta di elevare Pontremoli a luogo ideale per il primo confronto tra le versioni del Pietro Rossi in una mostra-dossier, curata da Valentina Ferrari, Paolo Lapi e Fernando Mazzocca, che ricostruisce nel dettaglio la genesi dei tre dipinti e dischiude ulteriori, approfondite letture. Osservando i tre dipinti accostati, al buio, ci si persuade che, più dei personaggi storici con le loro armature, le loro calzamaglie, le loro gonne damascate, le loro espressioni sgomente, il vero attore protagonista di tutte e tre le versioni sia l’apparato scenografico immaginato da Hayez. Il Medioevo da favola, il Medioevo per il quale occorreva inventare un’immagine che all’epoca, di fatto, non esisteva. Verrebbe allora da dire che sono due, i grandi meriti che vanno attribuiti al giovane pittore veneziano. Il primo: l’intuizione che l’humus culturale nel quale era cresciuto, nella sua Venezia, doveva essere irrorato con idee nuove. Idee nuove che, ricostruisce Fernando Mazzocca in catalogo, Hayez dovette aver trovato in un saggio del collezionista Andrea Majer (Della imitazione pittorica, della eccellenza delle opere di Tiziano e della vita di Tiziano scritta da Stefano Ticozzi), pubblicato in quello stesso 1818, in cui venivano sanciti il primato della natura sull’idea, il recupero di Tiziano (visto come il massimo modello cui tendere) e dei pittori del Tre e del Quattrocento, e il rifiuto della convinzione per cui “la Pittura del pari che tutte le arti imitative non possa che coll’adoperare oggetti perfettamente belli adempiere al suo doppio uffizio di commuovere e dilettare, poiché veggiamo conseguirsi dal Pittore questo intento anche col mezzo di oggetti brutti e talora deformi”. Vent’anni prima che Antonio Bianchini scrivesse Del purismo nelle arti, venticinque prima che Lorenzo Bartolini scolpisse la Stele del gobbo. Hayez, un po’ per suo interesse e un po’ per impulso di Leopoldo Cicognara ch’era all’epoca il suo principale sostenitore (e che l’aveva indirizzato), s’aprì a quei “nuovi orizzonti figurativi”, scrive Mazzocca nel catalogo della mostra di Pontremoli, “determinati dalla considerazione e valorizzazione dei cosiddetti primitivi”. Non sappiamo bene a quali altre sorgenti dovette aver attinto l’ingegno di Hayez: verosimilmente, non poté non tener conto di quanto stava facendo tra Germania e Italia la compagine dei Nazareni, che l’artista aveva conosciuto a Roma all’epoca del suo soggiorno di studio. Fatto è che il recupero doveva esser totale: non si trattava solo d’atteggiamenti e di linguaggi, ma anche di contenuti. Non si trattava solo d’aggiornare formalmente le convenzioni neoclassiche (fin dal formato: col Pietro Rossi, Hayez s’era allontanato dal dipinto monumentale della pittura neoclassica ed era tornato a praticare una più contenuta pittura da cavalletto): si trattava d’aprire la pittura italiana a soggetti inediti. Il secondo merito è il riscatto di quell’episodio storico all’epoca (e ancor oggi) ignoto ai più, probabilmente financo agli stessi pontremolesi, che offriva ad Hayez la possibilità d’inventarsi di sana pianta l’iconografia d’un soggetto che mai prima era stato frequentato. Un episodio tanto ignoto che Hayez dovette escogitare per la sua opera un titolo lunghissimo, quando la presentò per la prima volta all’Esposizione di Brera del 1820. Pareva una descrizione, più che un titolo: Pietro Rossi, signore di Parma, spogliato dei suoi domini dagli Scaligeri, signori di Verona, mentre è invitato nel castello di Pontremoli, di cui stava a difensore, ad assumere il comando dell’esercito veneto, il quale doveva muoversi contro i di lui propri nemici, viene scongiurato con lagrime dalla moglie e da due figlie a non accettare l’impresa.

Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli
Allestimento della mostra Francesco Hayez. Pietro Rossi nel castello di Pontremoli

Hayez affermava d’aver desunto il soggetto da una sua lettura, la Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo di Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, finita di pubblicare proprio nel 1818, ma l’episodio era stato già affrontato (e più dettagliatamente) da una pubblicazione di quarant’anni prima, l’Histoire de la République de Venise di Marc-Antoine Laugier, pubblicata nel 1778 e in seguito edita anche a Venezia: Laugier s’era però basato sulle cinquecentesche Historie vinitiane di Marco Antonio Sabellico, del 1544, che a loro volta attingevano da una cronaca di Venezia scritta tra il 1421 e il 1428 dal diplomatico veneziano Lorenzo De Monacis. L’episodio è l’assedio di Pontremoli del 1336: la città, all’epoca governata da Pietro Rossi, esponente d’una delle più insigni casate nobili del parmense, era stata attaccata dai veronesi (malgrado l’anno prima Verona avesse già ottenuto Parma e Lucca dagli stessi Rossi), e il condottiero, mentre impegnato nel tentativo di respingere gli attaccanti, venne raggiunto da un ambasciatore della Repubblica di Venezia che gli chiedeva d’assumere il comando della lega anti-scagliera che la stessa Serenissima aveva formato onde contenere le mire espansionistiche dei veronesi (il contesto è minutamente ricostruito da Paolo Lapi nel catalogo della mostra). Rossi, supplicato dalla moglie di non partire, alla fine avrebbe accettato l’offerta di Venezia e avrebbe lasciato Pontremoli.

L’episodio, pur nella sua marginalità, offriva ad Hayez un contenuto d’elevatissimo valore simbolico, dacché gli avrebbe garantito la possibilità di cimentarsi non tanto sul tema storico in sé, quanto piuttosto su quel “conflitto tra i doveri pubblici e gli affetti tematici”, come riassume con efficacia Valentina Ferrari, che sarebbe divenuto “la chiave di lettura che renderà la pittura storica di Hayez davvero attuale”. Il pittore, in tutte le versioni del dipinto, concentra la sua attenzione sul momento dell’arrivo dell’ambasciatore veneziano nel castello di Pontremoli (dove per “castello” è da intendersi non tanto il Castello del Piagnaro, anche perché nel Trecento la città era difesa da tre fortezze, due delle quali oggi non più esistenti: il “castello” è, più estesamente, l’intero borgo fortificato, il castrum che presidiava una delle principali vie di comunicazione tra nord e sud della penisola nell’Italia medievale): Hayez colloca il legato alla destra di Pietro Rossi, raffigurato in posa pensosa, mentre tiene in una mano il dispaccio della Repubblica di Venezia, e cerca di dare enfasi all’eloquente gesto della mano che invita il condottiero a partire e ad assumere il comando dell’esercito veneziano, mentre le donne di casa (la moglie sulla sinistra, inginocchiata con le mani tese davanti a sé, e le figlie che piangono, alla sinistra di Pietro Rossi) cercano di convincere il signore a rimanere. Una delle figlie è addirittura raffigurata di schiena, elemento del tutto insolito per l’epoca: Hayez voleva che il dramma si ricavasse dal movimento e dai gesti più che dall’espressione.

Il pittore aveva studiato con somma dovizia la composizione affinché il contrasto tra doveri e affetti emergesse con prontezza, e la riuscita di questo suo intento è da considerarsi alla base dei pareri positivi della critica che aveva ammirato soprattutto l’atteggiamento delle donne di casa Rossi, benché Hayez fosse convinto che il successo fosse dovuto soprattutto a quell’intenzione di verità che considerava fosse il fondamento del suo lavoro: “questo bisogno di cambiamento”, avrebbe scritto nelle sue memorie, “era in me allo stato di puro sentimento, osservando come l’arte fosse stazionaria: quindi comincia da cercare il soggetto, da comporlo in maniera che avesse più verità possibile, allontanandomi alquanto dalle regole troppo pedantesche che gli toglievano vita e molto conservando l’armonia delle linee del colore, senza calcolare, anche su questo, i soliti precetti”. E ancora: “avevo come incarnato nel mio lavoro l’idea dominante in quel momento, e che rendeva tanto viva la polemica tra i più distinti letterati, cioè il predominio del romanticismo sul classicismo. Questi miei amici credevano essere stata tale la mia intenzione, ma come già dissi devo confessare che il cambiamento da me introdotto nella composizione mi venne da puro sentimento dell’arte, senza idea preconcetta”. Certo: oggi, trascorsi più di duecento anni, l’intento di verità ci appare più solido nell’esattezza della scenografia, che forse oggi attira ancor più del gioco di rimandi tra le figure, e se c’è una verità negli atteggiamenti dei personaggi, forse quella verità ci sembra più una verità melodrammatica, una verità teatrale, che una verità psicologica o una verità storica, ma per il 1820, anno in cui il dipinto fu presentato, questa nuova verità di Hayez era più che sufficiente a far trasalire il pubblico di Brera, pienamente consapevole del fatto che il giovane veneziano, col suo dipinto, aveva già rotto le convenzioni accademiche del tempo.

Francesco Hayez, Pietro Rossi, signore di Parma, spogliato dei suoi domini dagli Scaligeri, signori di Verona, mentre è invitato nel castello di Pontremoli, di cui stava a difensore, ad assumere il comando dell’esercito veneto, il quale doveva muoversi contro i di lui propri nemici, viene scongiurato con lagrime dalla moglie e da due figlie a non accettare l’impresa (1818-1820; olio su tela, 131 x 157,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Francesco Hayez, Pietro Rossi, signore di Parma, spogliato dei suoi domini dagli Scaligeri, signori di Verona, mentre è invitato nel castello di Pontremoli, di cui stava a difensore, ad assumere il comando dell’esercito veneto, il quale doveva muoversi contro i di lui propri nemici, viene scongiurato con lagrime dalla moglie e da due figlie a non accettare l’impresa (1818-1820; olio su tela, 131 x 157,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Francesco Hayez, Pietro Rossi di Parma che partecipa alla moglie il decreto del Senato veneto da cui è chiamato a generale delle sue forze di terra (1850; olio su tela, 118 x 147,5 cm; Collezione Banca d’Italia)
Francesco Hayez, Pietro Rossi di Parma che partecipa alla moglie il decreto del Senato veneto da cui è chiamato a generale delle sue forze di terra (1850; olio su tela, 118 x 147,5 cm; Collezione Banca d’Italia)
Francesco Hayez, Pietro Rossi di Parma che partecipa alla moglie il decreto del Senato veneto da cui è chiamato a generale delle sue forze di terra (1850-1855; olio su tela, 122 x 150 cm; Milano, Accademia di Belle Arti di Brera)
Francesco Hayez, Pietro Rossi di Parma che partecipa alla moglie il decreto del Senato veneto da cui è chiamato a generale delle sue forze di terra (1850-1855; olio su tela, 122 x 150 cm; Milano, Accademia di Belle Arti di Brera)

Quando il Pietro Rossi fu esposto a Milano, i collezionisti milanesi se lo battagliarono: alla fine, l’opera andò al giovane Giorgio Pallavicino Trivulzio (e il successo milanese, peraltro, scontentò Cicognara, che accusò Hayez di non aver saputo “resistere al desiderio di quei nobili committenti che vollero arricchire l’Accademia Milanese delle sue produzioni, e ne defraudò in tal modo la Veneta, la quale rimase con desiderio di applaudire il proprio Concittadino, ed invitarlo con una corona di più al suo luminoso destino”: Hayez si smarcò dicendo che i veneziani, al contrario dei milanesi, non erano interessati ai suoi dipinti e non lo facevano lavorare), mentre gli altri collezionisti dovettero contentarsi di ordinare al pittore nuove commissioni a tema storico. I due dipinti successivi, che Hayez eseguì a più di trent’anni di distanza dal primo Pietro Rossi, sono un ulteriore attestato della longeva fortuna che arrise al suo lavoro. Per Ferrari, le due versioni degli anni Cinquanta devono essere tuttavia inserite nel filone del realismo storico per l’evidente cambio d’attitudine del pittore, che osserva con maggior acume, maggior finezza, maggior profondità psicologica gli sguardi, i gesti, financo i pensieri dei protagonisti. L’ambasciatore veneziano, per esempio: non è più il teatrante del dipinto del 1818, ma è un personaggio che s’avvicina quasi dubbioso, con fare discreto, che pare quasi non voglia disturbare e sia partecipe del momento accorato, del tutto avveduto del gravoso impegno di Pietro Rossi, chiamato a prendere una decisione difficile. La moglie non si getta più ai piedi del marito implorandolo di non partire, ma s’avvicina a lui guardandolo di traverso negli occhi, è in piedi al suo fianco, muove le sue dita sul dispaccio quasi a voler esprimere, al contempo, un sentimento che sta a metà tra l’incredulità e il disaccordo, e col braccio sinistro che s’abbandona su quello del marito par quasi che il pittore abbia voluto trasmettere il senso di sgomento della donna. Le figlie non sono più le adolescenti disperate del dipinto del 1818, ma sono bambine che s’aggrappano alla gonna della madre: una sola è inginocchiata a pregare il padre, ma senza enfasi, con la spontaneità tipica dell’età infantile. E uno dei figli, troppo piccolo per capire cosa stia accadendo, appare totalmente disinteressato: in entrambi i dipinti è impegnato a tirare un giocattolo, una macchinina di legno (benché nel terzo, incompiuto dipinto sia stato spostato in secondo piano, nella scena dell’addio del soldato alla sua famiglia, inserita per amplificare il dramma centrale). Un elemento apparentemente insignificante, ma ch’è invece fondamentale per comprendere l’intento di credibilità sentimentale e psicologica che animava Hayez a trent’anni di distanza dal manifesto fondante del Romanticismo.

Naturalmente, la somma novità della mostra è, si potrebbe dire, metatestuale, e risiede nell’aver accostato tre dipinti, tra loro profondamente legati, che mai sinora erano stati mostrati assieme e che consentono d’apprezzare, su di una stessa parete, in un allestimento pensato appositamente per facilitare la lettura delle tre tele assieme, il graduale slittamento di modi di cui s’è appena detto: ad Hayez servirono trent’anni, ma il pubblico di Pontremoli può osservarne l’esito con un confronto fulminante. Un confronto, andrà ribadito, non facile da mettere assieme per una città di neanche diecimila abitanti ch’è però riuscita a ottenere in prestito uno dei dipinti fondamentali della raccolta moderna della Pinacoteca di Brera, uno dei capisaldi della sua collezione, e le due opere compagne. Un impegno meritorio, sia da parte di Pontremoli, sia da parte della Pinacoteca di Brera che fa partire da qui, dalla Lunigiana, un progetto di diffusione che comincia pertanto coi migliori auspici.

L’accostamento delle tre versioni del Pietro Rossi ha fornito anche l’occasione per un’ulteriore rilettura del soggetto in rapporto alle nascenti pulsioni risorgimentali, anche in considerazione ai pareri positivi di Mazzini che già nel 1841 aveva trovato in Hayez “il capo della scuola di Pittura Storica che il pensiero nazionale reclamava in Italia, l’artista più inoltrato che noi conosciamo nel sentimento dell’Ideale che è chiamato a governare tutti i lavori dell’epoca”: fin dal primo Pietro Rossi, argomenta Mazzocca, “il messaggio patriottico era affidato a un richiamo molto chiaro e condiviso assegnato alla figura di destra della figlia in lacrime, la cui posa rimandava in maniera impressionante a quella dell’iconica Italia piangente nel Monumento funerario di Vittorio Alfieri eretto da Canova in Santa Croce a Firenze”. Idea condivisa anche da Valentina Ferrari che richiama il contesto della Milano carbonara dei primi anni Venti e la coincidenza con la pubblicazione del Conte di Carmagnola di Manzoni nel 1820. Una lettura che comunque ha precedenti (già più di vent’anni fa Cesare De Seta definiva il Pietro Rossi “un vero e proprio manifesto risorgimentale): la novità, in questo senso, sta semmai nella suggestione che il significato politico conosca una sorta di maturazione nella definizione d’una pittura che riscatta tutti quegl’individui ai margini della storia (e interessante in tal senso è l’inserimento, nel dipinto incompiuto, del brano del soldato che dà l’addio alla famiglia) e che però sono stati decisivi nello sviluppo delle vicende che hanno portato al presente.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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