A fare mostre immersive su Van Gogh e Klimt sono buoni tutti: provateci col Garofalo


Le “mostre immersive”? Non sono mostre, ma spettacoli spesso giustificati con alibi culturali. È la posizione di Federico Giannini, che interviene sul dibattito sulle mostre immersive: intrattenimento sì, ma senza fingere che servano per suscitare curiosità: altrimenti perché ci dovremmo incuriosire solo sui soliti noti come Van Gogh e Klimt?

Intanto, evitiamo di chiamarle “mostre” immersive. Federica Schneck dice, giustamente, che “si fanno passare per mostre, quando sono spettacoli”. Quelle che chiamiamo “mostre immersive”, delle mostre non hanno niente. Si può rimanere anche su di un piano meramente oggettivo: non hanno la collocazione in un discorso storico-critico, non hanno l’approccio interpretativo stratificato, non hanno la memoria materiale, non hanno i tempi, non hanno la cura, non hanno le occasioni d’incontro delle mostre propriamente dette. E l’assunto vale per qualsiasi confronto con le mostre “tradizionali”, diciamole così: vale sia che si pensi alle mostre interessanti, profonde, riuscite, sia che si pensi a quelle sciatte e superficiali per le quali ci siamo pentiti d’aver speso i soldi del biglietto. Le mostre immersive non hanno niente a che vedere con le mostre propriamente dette. L’unico elemento in comune è l’argomento. Per il resto, ricadono nell’ambito dell’intrattenimento. Chiamiamole allora, piuttosto, “spettacoli immersivi”. O forse, ancor meglio: “show immersivi”.

M’è venuto naturale pensare alle differenze ontologiche tra mostre e show immersivi leggendo l’intervento di Vincenzo Capalbo, che con il suo Art Media Studio realizza mostre immersive, nel dibattito innescato da Schneck con il suo articolo. Capalbo dice che “l’emozione non è nemica della riflessione”. E ovviamente ha tutte le ragioni del mondo. Dirò di più: non è obbligatorio riflettere per forza quando si esce da una mostra. Tradizionale o immersiva che si voglia. Si rimane persone più che rispettabili anche se si esce da una mostra senza aver imparato niente, si può continuare a far parte del consesso civile anche ammettendo d’aver visitato una mostra solo per il piacere d’emozionarsi davanti a un’opera: è più che legittimo visitare una mostra e provare quello che si vuole, dall’estasi alla più totale indifferenza, senza pensare a niente, e chi ritiene che l’arte debba sempre, per forza, essere una forma di pedagogia di massa è semplicemente un impostore o, nella migliore delle ipotesi, è praticante per lo più inconsapevole di uno zdanovismo fuori dal tempo e dalla storia.

Immagine generata con l'intelligenza artificiale
Immagine generata con l’intelligenza artificiale

Si può allora rimanere fermi sul piano della pura emozione, che è un fatto individuale. E tuttavia per tanti, anche su questo piano, gli spettacoli immersivi potrebbero perdere il confronto. Capalbo dice che “le esperienze immersive cercano di trasmettere emozioni forti, di creare una relazione visiva, sonora e percettiva tra l’opera e lo spettatore”. E non è così anche per le mostre fatte d’opere autentiche? Dove sta il di più? Vedere un tendone con la Notte sul Rodano di Van Gogh ingigantita e con l’acqua che si muove è più emozionante che trovarsi di fronte all’opera vera al Musée d’Orsay? Metterci una musica di sottofondo dovrebbe rendere l’esperienza più emozionante, posto che anche molti musei che allestiscono mostre “tradizionali” da tempo si muovono in questo senso? Sarà così per qualcuno, sicuramente per tantissimi, ma non per tutti. Qualcuno potrebbe anzi dire che, di nuovo, le “esperienze immersive” hanno sempre qualcosa in meno. Non hanno il fascino fragrante delle rassegne dove ci si trova di faccia a un’opera dipinta due, tre, cinque, otto secoli fa, dove gli occhi s’imbullonano su di un’immagine ch’è prodotto vivo delle mani che la realizzarono, dove lo spazio tra se stessi e l’opera è il luogo dell’incontro tra noi e l’artista, è un tempo che include il tempo, è abisso su infinite possibilità. Non vivono nel silenzio d’una mostra fatta d’opere vere, ma t’investono di luci, suoni, musiche, narrazioni senza che tu possa fare niente per costruirti la tua mostra, il tuo pensiero, il tuo spazio. Non hanno da offrire la possibilità d’un’esplorazione attiva d’una mostra fatta d’opere vere dove sono io a decidere dove fermarmi, cosa approfondire, quanto tempo far durare il mio itinerario. Le cosiddette “mostre immersive” sono un inno alla passività.

E di nuovo: sin qui tutto bene. Ognuno ha il diritto di emozionarsi dove e come gli pare, ognuno ha il diritto di ritenere troppo impegnativa una mostra “tradizionale” e di ritenere più interessante il trastullo passivo degli show immersivi: è giusto così. Le “mostre immersive” sono un prodotto completamente diverso rispetto alle mostre fatte con le opere vere ed è per questa ragione che esistono “direttori musei serissimi” capaci di “emozionarsi e trasformarsi in bambini al luna park davanti a una parete immersiva”. È lo stesso motivo per cui una persona che ascolta musica può perdersi dentro la poesia dei Velvet Underground e godere quando a una festa parte What is love di Haddaway. Ma è difficile che funzioni l’inverso. Credo che il più grosso equivoco attorno alle “mostre immersive” stia nel ritenerle un ponte verso una più approfondita conoscenza dell’arte. Certo, si può rimanere su di un livello superficiale, e si può dire che in tanti, dopo aver visto un film tratto da un romanzo, poi si comprano il libro. Se ci si può ritenere soddisfatti in questo modo, allora basta rimpinzare di libri le sedi delle mostre immersive, ma il rapporto con l’arte è un po’ più complesso rispetto al legame film-libro: nel 2008, la fiction su Caravaggio che andò in onda su Rai1 venne vista da sei milioni e mezzo di persone, ma non ricordo assalti alla Galleria Borghese o a Palazzo Barberini o code infinite fuori da San Luigi dei Francesi. Dopodiché si può tranquillamente pronunciare la solita frase per cui “anche se soltanto una persona ha maturato un interesse per ecc. ecc.”, ma l’eventualità andrebbe semmai bollata come effetto collaterale più che come imprescindibile elemento costitutivo o come obiettivo conseguito. La curiosità può sorgere da miliardi di stimoli diversi. Anche Achille Lauro travestito da san Francesco al Festival di Sanremo di qualche anno fa avrà incuriosito qualcuno ad andare a vedere la Basilica Superiore di Assisi, ma ritengo che nessuno abbia pensato alla sua performance come a un’esperienza culturale coinvolgente.

Di conseguenza penso che possiamo smettere di raccontarci la favola per cui le mostre immersive siano un modo per far incuriosire un pubblico altrimenti non avvezzo all’arte, la favola per cui le fondamenta delle mostre immersive poggino sull’irrefrenabile impulso di mettere a disposizione del pubblico, in special modo quello giovane, una strada alternativa verso l’arte. La curiosità può essere un auspicabile effetto collaterale, ma non è davvero la ragione di questi prodotti. Se così fosse, qualcuno mi spieghi perché le mostre immersive non si schiodano mai dai soliti nomi noti: Van Gogh, Klimt, Frida Kahlo, Caravaggio, impressionisti, Leonardo da Vinci. Com’è che la curiosità del pubblico dev’essere stimolata solo su Van Gogh e Klimt e mai, che so, su Luca della Robbia o su Bernardo Strozzi? I casi sono due: o si ritiene che tutto ciò che esula dai soliti noti non sia meritevole d’interessamento (e, nel caso, gli organizzatori di mostre immersive si rivelerebbero molto più snob ed elitisti di chi li critica), o dietro le scelte di chi organizza mostre immersive ci sono logiche che hanno più a che fare col marketing che con la cultura. E non ci sarebbe niente di male ad ammetterlo. Non serve sbandierare alibi culturali, anzi: sarebbe affascinante, oltre che culturalmente più interessante, poter leggere finalmente un organizzatore di mostre immersive che rivendica, in piena legittimità, la natura commerciale e pop del suo prodotto, senza volerlo circonfondere di una luce che non ha. In puro spirito marinettiano, nello stile di uno che i musei li avrebbe voluti distruggere, altro che incuriosire: “Venite a vedere Van Gogh Experience Super Immersive Exhibition Alive per provare ad abitare i quadri di Van Gogh, vi diamo quello che i quadri veri non vi hanno mai dato. Non ce ne frega una mazza se poi non andate al Van Gogh Museum di Amsterdam. Anzi: abbattetelo”.

Aspetto dunque una mostra immersiva che dichiari di voler vedere galleggiare alla deriva le vecchie tele gloriose e che ambisca a demolire senza pietà le città venerate. L’immersione sia totale: sarò il primo ad applaudirla. Se invece crediamo alla bontà dello show immersivo come mezzo e non come fine, lancio una sfida: la mostra recente su Mazzolino, Ortolano, Garofalo e Dosso a Palazzo dei Diamanti ha fatto quasi 40mila spettatori. Mi aspetto allora, in alternativa alla mostra immersiva che dichiari di voler buttare a mare quadri, sculture e vecchiume vario, una bella Garofalo Experience che muova la curiosità delle masse verso la pittura di Benvenuto Tisi (che ha già il suo museo virtuale, quindi il compito è facilitato). Artista prolifico e alla portata di tutti perché suoi lavori sono conservati nei musei di mezza Italia. Anche qui, sarò il primo a battere le mani. A incuriosire su Van Gogh son buoni tutti: provateci col Garofalo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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