Forlì, passeggiate d'arte, da Canova a Palmezzano ai grandi del Novecento


I musei di Forlì conservano molti capolavori: dalla Ebe di Canova alle pale di Marco Palmezzano per arrivare ai grandi del Novecento come Depero, Balla, Wildt, Morandi, Capogrossi. Un itinerario alla scoperta delle collezioni cittadine.

Forlì, città disposta lungo il tracciato della via Emilia e racchiusa tra le vallate dei fiumi Montonee Ronco, dal 2005, con l’indimenticata mostra Marco Palmezzano e il Rinascimento nelle Romagne, ha saputo presentarsi e farsi apprezzare dal pubblico appassionato d’arte con progetti espositivi di qualità, nati grazie alla collaborazione tra amministrazione comunale e Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. In attesa della prossima mostra con cui sarà celebrato Dante Alighieri a settecento anni dalla morte (Dante. La visione dell’arte, Forlì, Musei civici San Domenico, 12 marzo – 4 luglio 2021), all’interno del tessuto urbano forlivese altre realtà sanno emozionare il visitatore. Punto di partenza di questa piacevole passeggiata culturale e centro della vita cittadina è la piazza maggiore, oggi intitolata all’illustre forlivese Aurelio Saffi, su cui si affacciano scenograficamente alcuni dei principali edifici storici della città, in particolare la basilica di San Mercuriale, il novecentesco Palazzo delle Poste ed il grande complesso architettonico del Palazzo comunale. Dalla piazza si diramano i maggiori viali cittadini e gli stretti vicoli, ultimi testimoni dell’impianto urbanistico medievale, che possono essere percorsi a piedi per raggiungere le varie collezioni d’arte permanenti.

Forlì, Piazza Aurelio Saffi. Foto Luca Massari
Forlì, Piazza Aurelio Saffi. Foto Luca Massari

Palazzo Romagnoli. Collezioni del Novecento.

Risalendo corso Garibaldi, superata la piazza del Duomo al cui centro svetta la colonna con statua secentesca della Madonna del Fuoco, protettrice della città di Forlì, si incontra a breve distanza via Albicini, al cui civico numero 12 si apre il bel portale monumentale di Palazzo Romagnoli.

L’edificio, nobile palazzo la cui attuale configurazione risale al XVIII secolo, dopo un lungo restauro è divenuto sede dal 2013 delle Collezioni del Novecento. Al piano terra, la visita ha inizio con la collezione Verzocchi, un vero e proprio unicum nel panorama culturale nazionale ed internazionale, sia per l’alto valore artistico delle opere presenti che per l’idea che ha animato e portato alla creazione di questa ricca galleria di dipinti. La raccolta nasce dalla volontà dell’imprenditore di origini forlivesi Giuseppe Verzocchi di riunire, intorno al comune tema del lavoro, i maestri italiani rappresentativi delle principali correnti artistiche del suo tempo. L’imprenditore selezionò e contattò personalmente una settantina di artisti, chiedendo l’esecuzione di un dipinto di formato 90 x 70 cm dedicato alla ragione cardine della sua vita, il lavoro, ed imponendo nel dipinto l’inserimento discreto di un piccolo mattone refrattario con il marchio “V&D”, prodotto distintivo della sua azienda e sorta di vero e proprio stemma personale. Dopo una pubblica presentazione alla Biennale d’Arte di Venezia del 1950, Giuseppe Verzocchi donò la sua galleria di dipinti alla città di Forlì, assieme alla corrispondenza intercorsa con gli artisti e ai disegni contenenti i loro autoritratti. Il percorso di visita si apre con i lucenti colori, nei toni del verde e del rosso, del dipinto Tornio e telaio di Fortunato Depero. L’opera mostra affiancati due simboli opposti di lavoro; da una parte un simbolo che lo stesso Depero definì “quasi magico”, una “donna attenta al telaio, sotto una luce di smeraldo”, dall’altra un uomo al tornio, che è “pesante, dentro luci di fuoco, fra ordigni e prospettive metalliche”. Possiamo poi ammirare in una ritmata sequenza di sala in sala, Interno di fabbrica di Emilio Vedova, Il vasaio di Corrado Cagli, I simboli del lavoro di Gino Severini, Bracciante siciliano di Renato Guttuso, Gli scaricatori di carbone di Mario Mafai, Il campo arato di Aligi Sassu, L’architrave di Massimo Campigli, Il lavoro di Mario Sironi, Costruttori di Carlo Carrà, Il piccolo fabbro di Filippo de Pisis, Lo scultore di Achille Funi, Forgia di Vulcano di Giorgio De Chirico, Lavoro di Giuseppe Capogrossi e tanti altri dipinti fino a un totale complessivo di settanta opere.

Un ampio scalone in marmi misti conduce poi al piano superiore dove troviamo esposte le opere pittoriche e grafiche di Giorgio Morandi della collezione Ada e Arturo Righini. Tre piccoli dipinti ad olio su tela che hanno in comune il tema dei fiori (Il papavero, Crisantemi, Rose) e sei acqueforti tra cui gli amati luoghi morandiani del cortile di Via Fondazza e del poggio di Grizzana. In una sala contigua, interamente affrescata con quinte architettoniche ed amorini, sono esposte ben sette sculture di Adolfo Wildt dalla donazione Raniero Paulucci di Calboli, collezionista e mecenate dello scultore milanese. Raniero Paulucci di Calboli, di nobile e antico casato forlivese, dopo una lunga carriera diplomatica terminata con l’incarico di ambasciatore a Tokyo, fu senatore del Regno e, a coronamento del suo forte impegno sociale per le classi più fragili, ottenne nel 1926 la presidenza dell’“Unione Internazionale per la Protezione dell’Infanzia”. La sua raccolta permette di ricostruire il percorso artistico di Wildt dalla prima produzione fino al 1920, con opere che si distinguono per la raffinata lavorazione della materia lapidea e per la preziosità delle superfici, arricchite da cromie in metallo dorato. Osservando queste sculture non si può che rimanere avvolti dall’enigmatico e atemporale sorriso del ritratto di Fulcieri, il cui archetipo può ben essere ritrovato nel volto di una statua etrusca. Fulcieri, unico figlio maschio di Raniero, fu medaglia d’oro al valor militare nella prima guerra mondiale e promotore del “Comitato d’azione fra mutilati e invalidi e feriti di guerra”, morì nel 1919 per le conseguenze delle lesioni al midollo spinale riportate due anni prima sul Carso, e gli amici milanesi per ricordarlo, commissionario allo scultore questo iconico busto dagli occhi dorati poi acquistato dal padre. La donazione dell’intera collezione di sculture fu voluta per legato testamentario da Raniero, quale ultimo e imperituro legame con la città natale e quale omaggio estremo e struggente al figlio. “Il padre di Fulcieri” furono le uniche parole che, oltre al nome e all’anno di nascita e di morte, volle incise sulla propria lapide quest’uomo, grande protagonista della scena politica e diplomatica internazionale del primo Novecento.

Nelle ultime sale del palazzo si dispiegano infine opere pittoriche e scultoree che costituiscono una prima panoramica della multiforme produzione artistica romagnola ed emiliana del primo e secondo Novecento, e che permettono di porre l’accento sulla breve ma intensa esperienza del Cenacolo Artistico Forlivese, costituitosi nel 1920 per iniziativa del pittore Giovanni Marchini. A testimonianza dello scenario, per nulla locale, su cui si mossero gli artisti qui presentati (Carlo Stanghellini, Giannetto Malmerendi, Maceo Casadei, ecc.) sono il dipinto di Giacomo BallaSiamo in quattro, donato da “Balla futurista al Cenacolo Artistico Forlivese”, e il bell’autoritratto dello stesso Giovanni Marchini, in cui i preziosi decori della veste ed il paravento sullo sfondo rimandano alla lunga scia dell’influsso dell’arte giapponese sulla pittura occidentale.

Fortunato Depero, Tornio e telaio (1949; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì
Fortunato Depero, Tornio e telaio (1949; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì


Giorgio Morandi, Rose (1962; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì
Giorgio Morandi, Rose (1962; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì


Adolfo Wildt, Fulcieri Paulucci de’ Calboli (1919; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento) .Archivio fotografico Musei Civici di Forlì
Adolfo Wildt, Fulcieri Paulucci de’ Calboli (1919; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento) .Archivio fotografico Musei Civici di Forlì


Giuseppe Capogrossi, Lavoro (1950; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì
Giuseppe Capogrossi, Lavoro (1950; Forlì, Palazzo Romagnoli, Collezioni del Novecento). Archivio fotografico Musei Civici Forlì

Musei San Domenico. Pinacoteca civica

Lasciandoci alle spalle Palazzo Romagnoli, in pochi passi è possibile raggiungere l’area interessata dal grande complesso conventuale domenicano, fondato, secondo la tradizione, dallo stesso san Domenico nel viaggio di ritorno da Roma, dove si era recato per la definitiva approvazione del suo Ordine da parte di Onorio III. Il complesso fu costruito a partire dal 1229 in un’area ancora non urbanizzata della città e si sviluppò progressivamente, fino all’attuale configurazione caratterizzata da edifici disposti su due chiostri e affiancati da una grande chiesa ad aula unica dedicata a san Giacomo. Il monumentale complesso nel corso del XIX secolo venne poi adibito ad ospedale militare, gendarmeria, deposito di viveri e caserma delle truppe di passaggio; abbandonato per decenni, è stato oggetto di un articolato intervento di restauro, che nel 2004 ha permesso di restituirlo alla comunità e di renderlo il nuovo centro della vita culturale forlivese.

Il visitatore viene accolto nell’ampia sala un tempo adibita a refettorio, e, dopo aver percorso i corridoi su cui si affacciavano le celle riservate agli ospiti del convento, giunge al piano primo, dove si trova esposto un nucleo consistente di opere delle raccolte d’arte forlivesi, corrispondente alla sezione antica della Pinacoteca civica.

Nella presente esposizione, dopo alcune opere pittoriche e scultoree del XIII e del XIV secolo, tra cui anche alcuni esempi notevoli come la piccola tavola con Madonna con il Bambino di Vitale da Bologna, ad essere protagonista è la cultura artistica del Quattrocento, che si apre con le due raffinate tavolette dell’Orazione nell’orto e della Natività di Beato Angelico. Personaggio maggiormente rappresentato nella raccolta è il pittore Marco Palmezzano, “caro alievo” del Melozzo e maestro della visione prospettica. Tra le quattordici opere esposte, l’osservatore resta rapito dalla monumentale pala d’altare del L’Annunciazione con la sua smaltata e compatta pittura ad olio, lo scenografico paesaggio con una turrita cittadina che si apre ai piedi di aspre montagne e la complessa architettura di una navata a volte su colonne di breccia in cui ha luogo l’incontro tra l’arcangelo Gabriele e la Vergine. L’angelo ha appena concluso il proprio volo e le sue labbra sono dischiuse per proferire il proprio annuncio; la Vergine è una bionda fanciulla resa monumentale dalle ricadute del suo panneggio. Ma, come scrisse Stefano Tumidei, in quest’opera “ai contemporanei forlivesi, dovette apparire miracoloso soprattutto l’effetto del leggio ad ante spalancate […]. In tralice sul piano e con assonometria appena ruotata, il breviario ostenta le sue pagine aperte, che tendono a sfogliarsi per la durezza della legatura o lo spessore della pergamena, non certo per un’improvvisa bava di vento, inimmaginabile in questo pomeriggio immoto e in queste atmosfere sospese, di una fissità quasi irreale”.

Nelle sale museali vediamo poi dispiegarsi il Cinquecento manierista di Livio Agresti, Francesco e Pier Paolo Menzocchi, Livio e Gian Francesco Modigliani; mentre opera preminente all’interno delle sale dedicate al Seicento è la Fiasca fiorita, una delle nature morte più emblematiche e discusse della storia dell’arte italiana. Il percorso termina in una piccola sala pensata per ospitare la canoviana scultura di Ebe, la dea “dalle belle caviglie”. La statua forlivese è la quarta e ultima versione della fortunata iconografia, tutta d’invenzione canoviana, della giovane coppiera degli dei dell’Olimpo. Personificazione del motivo, già pienamente romantico, della giovinezza che sfugge e prototipo delle statue del “genere delle aeree”, con la sua dinamica della figura in volo ed il bilanciato equilibrio compositivo della posa delle braccia sa sorprendere l’occhio da qualsiasi punto la si guardi. La giovane è fissata come nell’atto di atterrare, con la veste completamente rigonfiata dall’aria, e qui Canova, come osservò Pindemonte, riuscì a scolpire “i passi”. La versione forlivese di questa figura del mito antico, sapientemente attualizzato dallo scultore, colpisce per la bella patina della superficie lapidea rispettata dai passati restauri e per i riusciti dettagli dorati della collana e del nastro che trattiene i capelli, preziosi particolari che si sommano alla coppa e all’anfora in metallo dorato. Canova, celebre per la qualità pittorica del suo scolpire, adottava anche la pratica di colorire le sue sculture, creando così sulla superficie una sorta di patina capace di trasformare il duro marmo in molle carne. Nell’Ebe di Forlì affascina inoltre il gioco creato da equilibrati contrasti, la leggera coloritura delle parti epidermiche di contro al luminoso biancore dei panneggi e l’opposizione tra parti nude e porzioni completamente avvolte dalla fluttuosa veste. Cicognara scrisse: “questa Dea, che scende dal cielo con incesso divino e leggiadro, mescendo nello stesso tempo una tazza d’ambrosia al padre de’ numi; e il bilanciarsi in avanti fendendo l’aria con una certa velocità, produce l’effetto naturalissimo che i panni respinti all’indietro possano disegnare senza alcun genere di affettazione il nudo sottoposto. L’alzar d’un braccio per versare dal vaso il liquore svolge così amabilmente tutto il contorno della figura, che sebben l’occhio la trovi panneggiata coll’estrema decenza, nulladimeno l’avidità dello sguardo ne discerne ogni lineamento, non altro spirante che la prima freschezza delle forme”.

Marco Palmezzano, Annunciazione (1495-1497 circa; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Archivio fotografico Musei Civici di Forlì
Marco Palmezzano, Annunciazione (1495-1497 circa; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Archivio fotografico Musei Civici di Forlì


Maestro della Fiasca di Forlì, Fiasca con fiori (1625-1649 circa; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Archivio fotografico Musei Civici Forlì
Maestro della Fiasca di Forlì, Fiasca con fiori (1625-1649 circa; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Archivio fotografico Musei Civici Forlì


Antonio Canova, Ebe (1816-1817; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Foto di Giorgio Liverani
Antonio Canova, Ebe (1816-1817; Forlì, Musei San Domenico, Pinacoteca civica). Foto di Giorgio Liverani


Antonio Canova, Ebe, dettaglio. Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi
Antonio Canova, Ebe, dettaglio. Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi


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