Pontremoli barocca: i siti e i capolavori del barocco pontremolese


Tra le capitali italiane del barocco figura una città dove alta è la concentrazione di palazzi, chiese e capolavori del Sei-Settecento: Pontremoli. Un viaggio alla scoperta dei siti e delle principali opere del barocco pontremolese.

Se si volessero elencare le capitali del barocco, forse difficilmente l’immaginario collettivo garantirebbe alla città di Pontremoli uno dei primi posti dell’elenco: eppure, tra Sei e Settecento, nell’importante centro della Lunigiana si assistette a una vivace fioritura delle arti, con una concentrazione ch’è possibile paragonare, tenendo anche conto delle dimensioni del borgo, a quella delle grandi città italiane. Questo rigoglio artistico e culturale si deve a una congiuntura economica favorevole che per decenni garantì prosperità alla città. Si può dunque parlare di Pontremoli barocca” data la diffusione che il barocco conobbe in città, tanto che oggi, per scoprire quest’anima di Pontremoli, vengono regolarmente organizzati dei tour per scoprire il barocco pontremolese, come quelli di Sigeric. La Pontremoli barocca ha una data di nascita convenzionale ben precisa: il 28 settembre 1650, giorno in cui il senatore fiorentino Alessandro Vettori giungeva a Pontremoli per prendere possesso della città in nome del granduca di Toscana, Ferdinando II, che l’aveva acquistata dal re di Spagna, Filippo IV, per la somma considerevole di 500.000 scudi. Il sovrano aveva deciso di non concedere la sua ratifica all’accordo con cui, tre anni prima, il governatore spagnolo di Milano cedeva Pontremoli alla Repubblica di Genova, con la conseguenza che la complessa trattativa veniva interrotta e Firenze, data la sua allettante offerta (più del doppio della somma che avrebbe pagato Genova), riuscì a ottenere il rilevante snodo commerciale di Pontremoli, posto sulla strada che collegava i territori toscani al Ducato di Parma e Piacenza e a Milano. Per i pontremolesi, già vocati alle attività mercantili, significava espandere in maniera considerevole i propri interessi, avendo accesso ai ricchi mercati di Firenze e di Livorno e alla possibilità di fungere da asse imprescindibile per metterli in contatto con l’Italia del nord. Si aggiungano, inoltre, i notevoli privilegi finanziari e fiscali di cui Pontremoli poté avvalersi sotto il Granducato di Toscana: la sostanziale autonomia fiscale di cui godeva la città rappresentò un ulteriore fattore di sviluppo.

Fu così che tra il XVII e il XVIII secolo nacque a Pontremoli, come ha scritto lo studioso Vasco Bianchi, “un nuovo patriziato di origine mercantile ed industriale che si affianca al vecchio ceto nobiliare e, a volte, lo sostituisce. In altre città la ricca borghesia lega alla terra le proprie fortune economiche; i nobili e i ricchi borghesi di Pontremoli, pur non disdegnando l’acquisto di terre, si impegnano invece in attività industriali e commerciali, sfruttando la favorevole congiuntura, in cui si erano venuti a trovare come intermediari tra il porto di Livorno e le grandi città dell’Italia del nord”. Una nuova classe sociale in ascesa che nutriva forte il desiderio di mostrare il prestigio acquisito: gli anni a cavallo tra i due secoli videro dunque a Pontremoli un forte rinnovamento edilizio, promosso dalle famiglie che avevano fatto fortuna con le loro attività espandendosi anche in Toscana e in Emilia (Dosi, Bocconi, Pavesi, Damiani, Bertolini, Ferdani, Negri, Petrucci, Pizzati, Ricci, Venturini: sono questi i nomi ricorrenti nelle vicende della Pontremoli barocca), e che portò il centro cittadino ad assumere la fisionomia che ancor oggi è possibile ammirare girando per le sue eleganti strade.

Pontremoli era città che sostanzialmente non aveva conosciuto trasformazioni durante il Rinascimento, ragion per cui gli interventi della città seicentesca andarono a insistere direttamente su di un borgo medievale, rimasto pressoché intatto fino al XVII secolo. In questi anni il volto della città cambiò in maniera radicale: “una serie di quinte scenografiche barocche”, ha scritto la studiosa Isa Trivelloni Manganelli, “dà la sensazione a chi percorre lo spazio, dimensionalmente rimasto immutato, di trovarsi al centro di una prospettiva sempre diversa. Eleganti portali e finestre incorniciate con grande sfoggio di pietra lavorata (l’arenaria dei fiumi che lambiscono la città), deliziosi balconcini in ferro battuto dalla sapiente lavorazione artigiana, ingressi su strada che lasciano intravedere cortili porticati, con un susseguirsi di arcate anche in alzato e, spesso, giardini e loggiati ornati di statue”. Una facies che la città avrebbe poi mantenuto nei secoli, ed è quella con la quale ancora oggi, con poche modifiche sostanziali, si presenta agli occhi del viaggiatore che giunge nel centro storico. Il frate cappuccino Bernardino Campi, visitando la città all’inizio del Settecento, avrebbe avuto modo di descriverne le qualità: “Non poco lodato è Pontremoli per i molti palazzi e comode case degli abitanti, in gran parte a’ nostri giorni risarcite a e ridotte in forma più moderna, nobilmente apparate ed addobbate di ragguardevoli suppellettili, come s’è più volte veduto nell’alloggio di diversi qualificati personaggi e gran principi”.

Salone di Villa Dosi. Foto di Federico Andreini
Salone di Villa Dosi Delfini. Foto di Federico Andreini

Campi passava poi a vedere nel dettaglio alcuni palazzi, cominciando da quello che ancor oggi è il più rappresentativo ed emblematico esempio del Barocco pontremolese, Villa Dosi Delfini, immancabile tappa di qualunque tour alla scoperta del barocco in città. Edificata in località Chiosi, alle porte del centro storico di Pontremoli, la sontuosa dimora risale agli ultimi anni del Seicento: venne fatta costruire dai fratelli Carlo e Francesco Dosi (i loro busti si ammirano sulla facciata della villa assieme allo stemma di famiglia, costituito da una cicogna e una torre), ricchi mercanti che avevano ampliato notevolmente le fortune della famiglia proprio a seguito del passaggio di Pontremoli al granducato di Toscana. La data apposta in facciata indica il 1700 come data a cui risale la villa: sappiamo in realtà che la costruzione dell’edificio era già terminata nel 1693, anno in cui Villa Dosi Delfini è definita “palazzo con giardino” ed è attestato l’acquisto di opere d’arte per decorarla. Una delle tante particolarità della villa sta nel fatto che la famiglia Dosi Delfini è tuttora proprietaria dell’immobile (è pertanto una residenza privata, ma aperta alle visite). Di conseguenza, visitare Villa Dosi Delfini significa ammirare non soltanto l’esempio di Barocco pontremolese meglio conservato, ma anche fare esperienza di una residenza nobiliare che, tolta una parentesi di trent’anni in epoca napoleonica in cui la villa fu abbandonata, è sempre stata abitata dalla stessa famiglia, che l’ha accuratamente preservata.

La visita comincia dal grande salone a due livelli, lungo il quale corre un ballatoio in ferro battuto, e che sorprende il visitatore per le sue meravigliose decorazioni capaci d’offrire un esempio importante del genere principale in cui si sostanzia il Barocco pontremolese: la pittura decorativa su quadrature. Le quadrature sono sontuosi apparati scenografici dipinti che offrono al visitatore l’impressione che lo spazio si dilati oltre i suoi limiti fisici: tutti gli ambienti, come il salone di Villa Dosi Delfini, sono riempiti con pitture che vanno a occupare le quadrature, elementi creati da pittori specializzati che imitavano l’architettura o sfondavano prospetticamente lo spazio. Gli affreschi di Villa Dosi Delfini furono eseguiti con tutta probabilità tra il 1697 e il 1700 da Francesco Natali (Casalmaggiore, 1669 - Pontremoli, 1735) e Alessandro Gherardini (Firenze, 1655 - Livorno, 1723): il primo si occupò delle quadrature, mentre il secondo (che, come si vedrà più sotto, aveva già lavorato per i Dosi: per Natali era invece il primo incarico per conto della famiglia) dipinse le scene affrescate entro le scenografie tracciate dal collega. Si ammirano dunque le straordinarie finte architetture di Natali nelle quali prendono posto le figure di Gherardini: la Vergine in trono, le tre Parche, un poeta coronato d’allora, una donna a grandezza naturale. La particolarità del salone però sta proprio nell’intervento di Natali: benché tuttora meno famoso del collega fiorentino, e all’epoca anche meno esperto (l’incarico a Villa Dosi fu il suo primo impegno lavorativo importante e indipendente dal fratello Giuseppe, anch’egli quadraturista), Francesco Natali ebbe un ruolo di primissimo piano nel far dialogare le pitture del salone con gli spazi esterni, dacché tutto è calibrato su di un rigoroso equilibrio che si estende anche al giardino della villa, al viale d’accesso, allo splendido ponte dei Chiosi e alla cappella che si trova in prossimità del ponte, anch’essa progettata da Natali. Lo spazio del salone è scandito da un gran numero di colonne tortili corinzie, chiuso da una finta balaustra che imita il marmo, con decorazioni studiate nei dettagli più minuti: un estro, quello di Natali, che è evidente anche nelle altre sale del piano nobile di Villa Dosi Delfini, dove anzi secondo alcuni il giovane quadraturista, libero in alcuni ambienti dalla collaborazione con Gherardini, ebbe modo di esprimersi al meglio. “I soffitti a botte”, ha scritto Luciano Bertocchi, “si allungano, prolungati da colonne e pilastri, per aprirsi in cupolette piene di luce che diventano limite allo sguardo ed insieme sorgenti di una luminosità prorompente”.

Villa Dosi. Foto di Bruce Hammers
Villa Dosi Delfini. Foto di Bruce Hammers
Villa Dosi Delfini. Foto di Federico Andreini
Figura affrescata. Foto di Francesco Bola
Figura affrescata. Foto di Francesco Bola
Lo stemma Dosi sulla facciata della villa. Foto di Elia Santini
Lo stemma Dosi sulla facciata della villa. Foto di Elia Santini
La sala da pranzo. Foto di Elia Santini
La sala da pranzo. Foto di Elia Santini
Il salotto ottocentesco. Foto di Elia Santini
Il salotto ottocentesco. Foto di Elia Santini
La statua del Nettuno nel cortile. Foto di Elia Santini
La statua del Nettuno nel cortile. Foto di Elia Santini

Si è detto che l’incarico di Villa Dosi Delfini non fu il primo impegno di Gherardini per i Dosi: è infatti documentata, da una lettera di Carlo Dosi dell’ottobre 1689, la realizzazione di una tela con il Miracolo di san Nicola che l’artista fiorentino eseguì per il palazzo cittadino della famiglia, Palazzo Dosi, oggi noto come Palazzo Dosi Magnavacca dal momento che fu acquistato dai Magnavacca nel 1931. L’edificio che vediamo oggi è il risultato delle trasformazioni a cui il complesso andò incontro tra il 1742 e il 1750, quando l’architetto Giovanni Battista Natali (Pontremoli, 1698 – Piacenza, 1768), figlio di Francesco, venne incaricato di ristrutturare integralmente il palazzo. Natali si occupò anche delle quadrature del piano nobile: l’opera più importante è sicuramente la decorazione del Salone dove l’artista risulta “velatamente neoclassico”, scrive Luciano Bertocchi, “alla ricerca non più della grandiosità della composizione o della decorazione fine a se stessa, ma della spazialità della costruzione”. Come a Villa Dosi Delfini, anche qui le finte architetture si aprono per allargare lo spazio fisico dell’ambiente che le ospita, ma ne risulta un insieme dall’aspetto più composto rispetto a quello che suo padre aveva progettato cinquant’anni prima: erano cambiate mode e gusti, e Giovanni Battista Natali aveva intuito i cambiamenti dell’epoca, anche se forse parlare di neoclassicismo è prematuro. Si tratta semmai di quadrature che si aprono all’ariosità delle scene di Giuseppe Galeotti (Firenze, 1708 – Genova, 1778), figurista che attese agli affreschi del salone, di due stanze attigue e dell’alcova, seguendo un programma iconografico volto a celebrare le virtù della famiglia Dosi con affreschi di soggetto mitologico e allegorico. Purtroppo nel palazzo non si conservano più i quadri che lo adornavano un tempo: rimangono solo le cornici dipinte vuote. Si percepisce tuttavia ancora quella “immediata sensazione di grandezza e fasto”, per usare le parole di Trivelloni Manganelli, che doveva prendere chiunque entrasse in queste sale, soprattutto nel Salone (a cui si riferiva la studiosa), dove Giuseppe Antonio Dosi, promotore dei lavori di ricostruzione del palazzo, si fece ritrarre nudo e coronato di alloro fra gli dèi dell’Olimpo.

Come anticipato, questo genere di pitture costituì il principale filone della Pontremoli barocca, dove fu introdotto proprio da Francesco Natali: non si trattò di un genere nato in loco, ma la specificità della città lunigianese, notava già la studiosa Rossana Bossaglia, sta nel fatto che in un centro di ridotte dimensioni quale Pontremoli si concentra “una serie di esempi di una specialità che l’Italia settecentesca coltivò e sviluppò in maniera splendida e spettacolare, e che rappresentò il punto massimo di evoluzione della pittura in prospettiva e in sottinsù, avviata fin dal Quattrocento, come tensione e poi rovesciamento delle premesse architettoniche-illusionistiche”. Inoltre, per il carattere innovativo e squisitamente architettonico delle quadrature di Villa Dosi Delfini, Bossaglia assegna un ruolo di prim’ordine nel panorama nazionale a Francesco Natali, formatosi in quell’ambiente emiliano dove il genere si sviluppò prima che altrove, e conoscitore della Prospettiva di pittori e architetti, che Andrea Pozzo pubblicava a Roma nel 1693, primo trattato di prospettiva applicato alla finzione pittorica, in cui viene codificato un fondamento teorico maturato proprio in ambito bolognese, ovvero, scrive Bossaglia, “il presupposto che la quadratura debba essere una finta architettura e dunque riproporre, in termini di ambiente illusorio, gli effetti degli ambienti reali, il senso della concretezza tettonica, del sottinsù, della profondità spaziale, tenendo buono il criterio dell’evidenza del fuoco centrale e quindi di un preciso punto di riferimento nella costruzione prospettica, con interesse speciale per il forte scorcio”. Tuttavia Pontremoli non era solo città di architetture dipinte: era anche vivace centro collezionistico, dove giungevano dipinti dei più grandi artisti italiani. Le famiglie più in vista della città vantavano, nelle loro quadrerie, opere dei maggiori artisti del tempo: da Carlo Dolci a Francesco Furini, da Francesco Cairo a Bernardo Cavallino, da Panfilo Nuvolone a Giuseppe Bottani, e non bisogna dimenticare il patrimonio artistico delle chiese cittadine, dove ci s’imbatte in opere di Domenico Fiasella, Luca Cambiaso, Giambettino Cignaroli e anche in una Crocifissione di Guido Reni (un’attribuzione a lungo dibattuta: oggi si tende però ad assegnare l’opera alla mano del maestro), che s’ammira all’interno della chiesa di San Francesco.

Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini
Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini
Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini
Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini
Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini
Palazzo Dosi Magnavacca. Foto di Elia Santini

Fu peraltro proprio dalle chiese che partì il rinnovamento di Pontremoli a metà Seicento: nel 1644 veniva consacrato l’oratorio di San Lorenzo, nel 1670 venivano avviati i lavori di restauro della chiesa di San Niccolò, tra il 1670 e il 1688 si procedeva coi lavori di demolizione e ricostruzione delle chiese di San Geminiano e Santa Caterina, mentre nel 1699 la chiesa di Santa Maria del Popolo, la cui costruzione era cominciata nel 1636, su progetto dell’architetto cremonese Alessandro Capra, e terminata negli anni Ottanta dello stesso secolo, veniva riconosciuta “insigne collegiata” e infine, nel 1787, diventava Cattedrale con l’elevazione della città a sede vescovile. Il Duomo di Pontremoli è il più grande edificio di culto barocco della città: si presenta con lo schema tipico dei templi gesuiti, ovvero con una grande navata unica, cappelle laterali, un transetto corto, e una vasta e luminosa cupola, in questo caso progettata dagli architetti ticinesi Marco Antonio Grighi e Domenico Garusambo tra il 1681 e il 1683. La navata era stata interamente affrescata da Francesco Natali sul finire del Seicento: la sua decorazione tuttavia fu sostituita con stucchi durante l’Ottocento, così come ottocentesca è anche la facciata. Anche se non è più possibile ammirare tutti gli affreschi di Natali (rimangono solo le figure di santa Rosa da Lima e di san Geminiano), la Cattedrale di Pontremoli si impone come uno dei prodotti più magniloquenti della grande stagione del barocco pontremolese, anche in virtù delle numerose opere che custodisce: vi si ammirano una Nascita della Vergine di Giovanni Domenico Ferretti, una Visitazione di Vincenzo Meucci, una Annunciazione di Giuseppe Bottani, il San Vicino di Pierre Subleyras, il Giuramento del Consiglio Comunale di Pontremoli di Giovanni Battista Tempesti.

Se però ci si sposta nella vicina chiesa di San Francesco sarà possibile vedere un esempio ancora integro della grande decorazione barocca di Francesco Natali: sono le cappelle di Sant’Antonio e di Sant’Orsola, dove il grande quadraturista dipinse finti altari con colonne tortili sistemati entro finte architetture che si sviluppano verso l’alto terminando sul soffitto con oculi aperti sul cielo, dove s’assiste all’apparizione dei santi. La decorazione di San Francesco risale al 1725-1726: sono invece di poco precedenti, anche se non ancora databili con certezza, gli interventi di Natali nel Santuario della Santissima Annunziata, dove l’artista lavorò nella Sacrestia e nella Cappella di San Nicola da Tolentino. In quest’ultimo spazio l’estro visionario di Natali si apre a mostrare l’apparizione del santo in un cielo luminoso che scorgiamo al di là delle maestose architetture dipinte, mentre nella volta della Sacrestia l’artista, scrive Bertocchi, “è tutto delicatezza e riesce magistralmente a creare l’illusione dello spazio che si apre oltre il soffitto; i colori stessi, dai celesti, ai rosa, ai verdi, ai lilla, ai marroni, così variamente sfumati ed intercalati, mai troppo violenti, attenuati dalla luce prorompente da due ampi finestroni, aiutano l’occhio a fuggire verso l’alto insieme alle snelle colonne perfettamente scorciate fino all’apertura centrale, artisticamente contornata da un giro di foglie, ultimo contrasto allo sguardo che sprofonda nella visione di una cupola che pare lontanissima”. Tra gli edifici religiosi è poi da menzionare l’Oratorio di Nostra Donna dove, oltre ad alcune tele di Alessandro Gherardini e Giuseppe Galeotti, è possibile ammirare la decorazione ad affresco eseguita da Sebastiano Galeotti (Firenze, 1675 – Mondovì, 1741) entro le quadrature di Giovanni Battista Natali: si tratta di affreschi a soggetto biblico eseguiti tra il 1735 e il 1738 e collocabili tra i migliori prodotti del pennello dell’artista fiorentino che fu tra i più importanti frescanti del suo tempo.

Infine, tra i palazzi più degni di nota della Pontremoli barocca, sono da citare sicuramente Palazzo Petrucci, con gli interventi di Francesco e Giovanni Battista Natali nel piano nobile, Palazzo Negri, definito “casa d’aspetto bellissima” nella Descrizione delle Chiese e dei Palazzi di Pontremoli di Antonio Contestabili, già esistente nel 1673 (due anni dopo venne chiamato Gherardini ad affrescare il salone, oggi non più esistente in quanto il palazzo venne poi ricostruito), e dalla facciata che ricorda in scala ridotta quella di Palazzo Barberini a Roma, e Palazzo Pavesi Ruschi, uno dei più appariscenti edifici del centro storico con le sue tre facciate animate da cornici e marcapiani curvilinei, una delle quali, quella principale, dà su piazza della Repubblica, il cuore del centro storico pontremolese. Il palazzo fu acquistato da Geronimo di Lorenzo Pavesi nel 1688 (prima apparteneva a un’altra importante famiglia pontremolese, i Belmesseri), dopodiché, tra il 1734 e il 1743, fu interamente ristrutturato dai nipoti Giuseppe, Francesco e Paolo, che gli fecero assumere le forme attuali, unificando i precedenti corpi dell’edificio in un unico insieme, diviso però in due parti, con due cortili, due scaloni e due appartamenti di rappresentanza, appartenenti in antico a Francesco e Giuseppe Pavesi. Gli affreschi si devono a Giovanni Battista Natali e collaboratori: tra questi figura il succitato Antonio Contestabili (Piacenza, 1716 - Pontremoli, 1790), nipote di Natali e altro nome illustre del Barocco pontremolese. La galleria di Palazzo Pavesi Ruschi è l’ambiente più sontuoso del palazzo: “è dipinta come un cortile colonnato”, ha scritto Isa Trivelloni, “in quanto l’architetto, vincolato dalle preesistenze, non può realizzare nel palazzo un’adeguata galleria, luminosa e dotata di finestroni in affaccio sul cortile (come, per esempio, nei Palazzi Dosi e Negri). Per questo dipinge il salone più grande, che funge da disimpegno per le altre sale al piano nobile (e che viene chiamato La Galleria), con grandi comparti colonnati che si aprono su visioni di paesaggi: su entrambi i lati, quattro colonne e due pilastri angolari sorreggono l’imposta della volta; le colone sono trattate a finto marmo di colore verde, hanno capitelli dorati e sono fasciate di rose [...]. La decorazione della volta è strutturata asu tre piani, con mensole che sorreggono un’agile balconata, oltre la quale colonne in marmo verde sorreggono un soffitto a stucco, su cui si apre il lucernaio, oltre il quale si intravede ancora una cupola in lontananza; i colori sono azzurro e oro, bianco, verdino. Agli angoli, sui pennacchi della volta, quattro bellissimi ovali incorniciano vedute e paesaggi. Accanto al salone, un salotto affrescato solo nella volta, con giochi di balaustre e balconcini che si intrecciano e si rincorrono, i cui muri verticali sono ancora parati con il favoloso damasco che la famiglia Pavesi produceva e commerciava, ci riporta fisicamente alla dimensione settecentesca”.

Alcuni di questi luoghi oggi sono regolarmente visitabili (è il caso del Duomo e di San Francesco e di Villa Dosi Delfini), altri invece su appuntamento (Palazzo Dosi e la Santissima Annunziata), mentre altri ancora non sono visitabili in quanto privati.

Il Duomo di Pontremoli. Foto di Elia Santini
Il Duomo di Pontremoli. Foto di Elia Santini
La chiesa di San Francesco. Foto di Matteo Dunchi
La chiesa di San Francesco. Foto di Matteo Dunchi
La chiesa di San Francesco. Foto di Elia Santini
La chiesa di San Francesco. Foto di Elia Santini
Torre di Castelnuovo e Oratorio di Nostra Donna. Foto di Elia Santini
Torre di Castelnuovo e Oratorio di Nostra Donna. Foto di Elia Santini
L'Oratorio di Nostra Donna. Foto di Matteo Dunchi
L’Oratorio di Nostra Donna. Foto di Matteo Dunchi
L'Oratorio di Nostra Donna. Foto di Matteo Dunchi
L’Oratorio di Nostra Donna. Foto di Matteo Dunchi
La Santissima Annunziata. Foto di Elia Santini
La Santissima Annunziata. Foto di Elia Santini
La Santissima Annunziata. Foto di Elia Santini
La Santissima Annunziata. Foto di Elia Santini
Palazzo Petrucci
Palazzo Petrucci
Palazzo Pavesi Ruschi. Foto di Elia Santini
Palazzo Pavesi Ruschi. Foto di Elia Santini

La stagione del Barocco pontremolese può considerarsi chiusa con i lavori eseguiti dal lombardo Giuseppe Bottani (Cremona, 1717 - Mantova, 1784) per i collezionisti pontremolesi e per le chiese cittadine. Bottani fu il maggior rappresentante di una corrente classica che, dalla metà del Settecento, cominciò a diffondersi a Pontremoli contribuendo a indirizzare i gusti dell’oligarchia cittadina verso il nascente movimento neoclassico. Per Pontremoli si apriva un’altra epoca, non meno rilevante dal momento che giunsero in città personalità importanti come il franco-piemontese Jacques Berger e il toscano Giuseppe Collignon, e la città riuscì anche a produrre un artista interessante come Pietro Pedroni, nativo di Pontremoli sebbene formatosi a Parma e poi stabilitosi a Firenze (lo stesso Collignon fu suo allievo presso l’Accademia di Belle Arti del capoluogo toscano). Erano però passati i fasti di quello che fu letteralmente il secolo d’oro del Barocco pontremolese, le cui coordinate si potrebbero tracciare tra il 1650, anno dell’ingresso della città nel Granducato di Toscana, e il 1750, anno di completamento delle pitture del piano nobile di Palazzo Dosi Magnavacca.

Pontremoli stava inoltre cominciando ad andare incontro a una progressiva perdita di prestigio, che andava di pari passo con la perdita dell’importanza commerciale della città: dal declino cominciato in epoca napoleonica la città non si sarebbe più ripresa, tanto che nel 1847 Pontremoli, in attuazione del Trattato di Firenze stipulato tre anni prima tra il Granducato di Toscana, il Ducato di Modena e Reggio e il Ducato di Parma e Piacenza, passò, assieme a tutta l’alta Lunigiana, agli Stati parmensi, che a loro volta cedevano Guastalla a Modena (Firenze in cambio otteneva da Modena la rinuncia a Pietrasanta e Barga). Già all’epoca i parmensi ritennero per loro svantaggioso il trattato, dal momento che Pontremoli non era più quell’importante e florido centro economico e commerciale che era stato fino a pochi decenni prima. La stagione più splendida era passata: ne rimane però oggi una traccia indelebile nel cuore della città.


La consultazione di questo articolo è e rimarrà sempre gratuita. Se ti è piaciuto o lo hai ritenuto interessante, iscriviti alla nostra newsletter gratuita!
Niente spam, una sola uscita la domenica, più eventuali extra, per aggiornarti su tutte le nostre novità!

La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo



La Bibbia Amiatina, la più antica copia delle Scritture nella versione latina di san Girolamo
La Bibbia Amiatina, la più antica copia delle Scritture nella versione latina di san Girolamo
Il Grande Rettile di Pino Pascali, il dinosauro che ci invita a non prenderci troppo sul serio
Il Grande Rettile di Pino Pascali, il dinosauro che ci invita a non prenderci troppo sul serio
Il restauro del monumento al granduca Pietro Leopoldo a Livorno
Il restauro del monumento al granduca Pietro Leopoldo a Livorno
La torre di Calafuria di Benvenuto Benvenuti, la rievocazione visionaria d'un'emozione
La torre di Calafuria di Benvenuto Benvenuti, la rievocazione visionaria d'un'emozione
La Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, la più grande tavola del Duecento
La Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, la più grande tavola del Duecento
Il Cristo di Santi di Tito che è risorto due volte
Il Cristo di Santi di Tito che è risorto due volte


Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte